Sommario: 1. Il fatto. – 2. L’iter logico seguito dalla Corte di cassazione. – 3. I problemi. – 4. Rassegna di giurisprudenza.

1. Il fatto.
Nel gennaio del 1981 la ricorrente, risultata positiva al test di gravidanza, si rivolge al proprio medico curante per informarsi circa l’esistenza di rischi per la salute del nascituro legati all’assunzione di psicofarmaci. Ricorda al medico la propria degenza presso l’ospedale di M. nell’agosto del 1980 a causa di una grave sindrome depressiva e la cura, a base di psicofarmaci prescrittale dal neurologo, cui si era sottoposta nei quattro mesi successivi.
Il medico, assicuratosi che la signora abbia sospeso la cura, la rassicura circa l’assenza, allo stato attuale della ricerca scientifica, di legami eziologici tra sostanze contenute in farmaci psicotropi, assunti prima del concepimento, e il rischio di malformazioni del nascituro.
Anche in occasione di un ricovero in ospedale per cistite, avvenuto nell’aprile 1981 durante la diciassettesima settimana di gravidanza, la signora manifesta nuovamente ai sanitari la propria preoccupazione circa la salute del bambino e ancora una volta viene rassicurata; ugualmente, nel corso delle periodiche visite di controllo chiede informazioni, sia al neurologo sia all’ostetrico, a proposito di eventuali malformazioni a carico del nascituro come conseguenza della cura effettuata nell’autunno precedente e ottiene sempre la medesima risposta tranquillizzante.
Il 22 settembre 1981 nasce un bambino affetto da sindrome di Down.
Solo in quel momento la signora viene informata che l’età in cui ha affrontato la gravidanza — quarant’anni — espone il bambino al rischio di alterazioni genetiche, trisomia del ventunesimo cromosoma in particolare.
La signora decide allora di citare in giudizio sanitari e struttura ospedaliera lamentando la lesione del suo diritto all’informazione circa il rischio legato all’età, le possibilità diagnostiche di malformazioni del feto, l’eventuale possibilità di interrompere la gravidanza e chiede la condanna al risarcimento vuoi del danno biologico vuoi del danno patrimoniale subiti.
Il Tribunale e la Corte d’appello di Milano respingono le domande proposte; la Corte di cassazione conferma la sentenza d’appello.

2. L’iter logico seguito dalla Corte di cassazione.
I danni, biologico e patrimoniale, dei quali la ricorrente chiede ristoro conseguono alla violazione dell’obbligo di informazione da parte dei sanitari circa le possibili anomalie e malformazioni del nascituro: queste omesse informazioni non hanno consentito alla signora si scegliere consapevolmente tra l’alternativa di portare a termine la gravidanza ovvero di interromperla.
Cosí come presentato dalla ricorrente il danno consisterebbe nella lesione del diritto ad interrompere la gravidanza. La Corte di cassazione osserva come la fattispecie di danno prospettata sia complessa e necessiti della compresenza di due diversi elementi: da una parte l’inadempimento da parte dei medici dell’obbligo di informazione, dall’altra l’esistenza delle condizioni previste dalla legge per procedere alla interruzione della gravidanza.
La Corte d’appello ha negato l’esistenza di entrambi i presupposti.
In primo luogo i medici citati in giudizio non hanno violato in nessuna occasione il diritto di informazione della ricorrente.
Il neurologo, infatti, non era tenuto ad alcun avvertimento quando nell’agosto del 1980 aveva prescritto alla signora la cura a base di psicofarmaci dal momento che non si conosce alcuna interazione tra gravidanza e assunzione di sostanze psicotrope precedente ad essa.
D’altro canto, è condivisibile il comportamento dell’ostetrico che ha preferito non allarmarla circa la possibilità che il bambino non nascesse sano a causa del fatto che la signora aveva intrapreso la gravidanza dopo il compimento del quarantesimo anno di età. Il medico aveva, infatti, valutato da una parte la forte «valenza ansiogena» che la notizia avrebbe potuto ingenerare nella signora già psicologicamente fragile e dall’altra l’impossibilità di curare un’alterazione genetica del nascituro quantunque se ne venisse a conoscenza.
Rileva, infine, la Corte d’appello che all’epoca in cui si sono svolti i fatti l’esame dell’amniocentesi o il prelievo dei villi coriali vengono ancora praticati in un numero ridotto di casi particolari, visto il carattere ancora quasi sperimentale dei test e i rischi che comportano per il feto.
Per quanto attiene al secondo presupposto, continua la Corte d’appello, trascorsi i primi novanta giorni dall’inizio della gravidanza, l’interruzione della stessa non dipende piú dalla volontà della gestante ma dal verificarsi di processi patologici di natura grave nella gestante, pertanto non può piú sussistere un «diritto» della donna alla interruzione della gravidanza.
La Corte di cassazione, nell’esaminare i motivi di ricorso, osserva come sia sufficiente verificare l’inesistenza di uno dei due elementi costituenti la fattispecie di danno di cui si chiede ristoro per confermare la sentenza impugnata, rimanendo gli altri motivi assorbiti.
Ritiene, pertanto, prioritario esaminare la ratio decidendi relativa alla insussistenza delle condizioni richieste dall’art. 6 della legge n. 194/1978 per l’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno: «solo la sussistenza delle condizioni per procedere alla interruzione della gravidanza consente di ritenere esistente il nesso di causalità tra il comportamento dei sanitari e il danno».
Le condizioni riportate dal citato art. 6 prevedono da una parte che siano state accertate gravi malformazioni nel nascituro, dall’altra che queste ultime siano causa di un «grave» pericolo per la salute fisica o psichica nella donna. Il «grave» processo patologico deve essere accertato e in atto.
È onere della ricorrente provare che la «grave» patologia, elemento della fattispecie, si sarebbe manifestata in conseguenza della conoscenza della malattia genetica di cui era affetto il nascituro.
Nel caso de quo la prova di questo elemento costitutivo non è stata fornita dal momento che la «valenza ansiogena» dell’informazione che il nascituro avrebbe potuto presentare malformazioni genetiche, «valenza ansiogena» che i sanitari avevano previsto come possibile nella signora caratterialmente fragile, non consiste automaticamente, e non può certo concretare di per sé, un «grave» pericolo per la salute.
Restando assorbiti gli altri motivi di ricorso, la domanda della ricorrente è respinta e viene confermata la pronuncia di appello.

3. I problemi.
Le questioni affrontate nella sentenza in esame toccano diversi aspetti che vanno dai problemi strettamente giuridici, a quelli di natura medica e di deontologia medica, ad altri squisitamente etici.
Dal punto di vista giuridico rivestono carattere di estrema attualità le questioni che riguardano la bioetica, intorno all’an e al quomodo possa essere sottoposta a disciplina legislativa, si pensi ad esempio agli studi in corso a proposito di fecondazione artificiale e maternità assistita; cosí come quelle che concernono il danno biologico e la sua traduzione in termini monetari (il 4 giugno scorso è stato presentato al Consiglio dei Ministri uno schema di legge recante «Nuova disciplina in tema di danno biologico» che prevede l’introduzione di quattro nuovi articoli nel Codice civile e fornisce delle tabelle che consentano una quantificazione del danno meno legata alla discrezionalità del giudice adito e piú uniforme sul territorio nazionale).
In merito al ristoro del danno da mancata interruzione della gravidanza o da mancata informazione circa possibili malformazioni del nascituro, in particolare, l’elaborazione giurisprudenziale è ancora agli albori in Italia e presenta un certo ritardo rispetto ad altri Paesi [sul problema le esperienze straniere sono piú ricche, per tutti si veda A. D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999; meno recente Princigalli, Quando la nascita non è un lieto evento, in Riv. critica dir. privato, 1984, 833 e segg.].
Si procederà ora ad una disamina dei precedenti rinvenuti e delle soluzioni di volta in volta prospettate, si darà atto dei diversi tentativi di ricostruzione della fattispecie di danno, si vedrà in quali casi sia stata riconosciuta o esclusa una responsabilità del medico.

4. Rassegna di giurisprudenza.
a) Il risarcimento del danno da mancata interruzione della gravidanza.
Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge n. 194/1978, le poche pronunce che si rinvengono in tema negano la risarcibilità del danno conseguenza della mancata interruzione della gravidanza applicando l’assiomatico principio secondo il quale «la nascita di un figlio rappresenta un dono d’inestimabile valore» (Catalucci, In ordine al quesito se la nascita di un figlio non voluto costituisca danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043, in Riv. It. medicina legale, 1983, 501 e seg.).
Solo nel 1985 il Tribunale di Padova, prima decisione edita che si rinviene (Trib. Padova, 9 agosto 1985, in Nuova Giur. Comm., 1986, I, 115), accorda il risarcimento del danno conseguente all’insuccesso di un intervento d’interruzione di gravidanza cui si era sottoposta una minorenne, e lo computa in relazione ai disagi affrontati dai genitori per la nascita avvenuta in un momento non desiderato, liquidando la somma di lire 15.000.000.
Aperto questo primo varco verso la risarcibilità, si nota di volta in volta nelle pronunce un certo imbarazzo nel qualificare il tipo di danno subíto legato alla nascita di un bambino e nell’individuare l’interesse leso.
In un altro caso di fallimento dell’intervento di interruzione della gravidanza la Corte d’appello di Bologna (App. Bologna, 19 dicembre 1991, in Riv. It. medicina legale, 1994, 1082) accorda il ristoro dei danni distinguendoli in danni diretti, costituiti dalla lesione del diritto alla salute, e indiretti, rappresentati dagli oneri di mantenimento, educazione e istruzione della prole non voluta vista come «causa di conseguenze negative sulla vita della madre»; individua nei soggetti passivi sia il medico sia l’ente ospedaliero (sul tema si veda anche Trib. Verona, 15 ottobre 1990, con nota di Lotito, In tema di contratto atipico di spedialità e di responsabilità per comportamento colposo di un medico di struttura pubblica ospedaliera anche nei confronti del nascituro, in Nuovo Dir., 1991, 126); qualifica la responsabilità scaturente ad un tempo sia contrattuale sia extracontrattuale; nega il risarcimento al padre, sostenendo che la legge n. 194/1978 tutela esclusivamente la posizione giuridica della madre dal momento che prevede la possibilità di interruzione della gravidanza solo in caso di grave rischio per la salute della donna, non già del marito [intorno alla situazione complessiva del padre si leggano le riflessioni di Monateri, «La marque de caïn». La vita sbagliata, la vita indesiderata e le relazioni del comparatista al distillato dell’alambicco, in D’Angelo (a cura di), op. cit., 285 e segg.].
Sempre in tema di mancata interruzione di gravidanza avvenuta a causa di una scorretta esecuzione della prestazione medica anche il Tribunale di Cagliari (Trib. Cagliari, 23 febbraio 1995, in Riv. It. medicina legale, 1997, 184) condanna medico e struttura ospedaliera al risarcimento dei danni, e definisce la responsabilità di natura contrattuale, specificando come vadano distinti nettamente il rapporto tra gestante e concepito, disciplinato dalla legge n. 194/1978, e quello tra gestante-paziente e struttura sanitaria.
Sul tema interviene nel 1994 la Corte di cassazione (Cass., 8 luglio 1994, in Riv. It. medicina legale, 1995, 1282) per puntualizzare che il diritto al risarcimento del danno può essere riconosciuto alla donna non solo per il fatto dell’inadempimento del sanitario — in questo caso di nuovo un insuccesso dell’intervento di interruzione — ma se si sia anche provata la sussistenza della messa in pericolo di un «grave» danno effettivo alla salute fisica o psichica della donna. Con questa pronuncia si è delineata la fattispecie di danno nei suoi due elementi costitutivi — inadempimento del medico e pericolo di «grave» danno effettivo — e si è precisato l’onere probatorio del richiedente, cosí come li ritroviamo nella decisione che si annota. Alla Corte, nella decisione che si annota, è bastato sostituire la fattispecie costituente l’inadempimento del medico (negligenza nell’effettuare l’intervento – negligenza nel dovere di informazione) per poter applicare la ratio decidendi già validamente sperimentata.
Sempre nella sentenza del 1994 (Cass., 8 luglio 1994, cit.), la Corte sottolinea che il danno risarcibile è solo quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio-psichica della donna specificamente tutelata dalla legge e non quello piú genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell’inadempimento del sanitario: «l’entità del risarcimento deve essere determinata in quella somma necessaria a rimuovere le difficoltà economiche idonee ad incidere negativamente sulla salute della donna ovvero a risarcire quest’ultima dei danni alla salute in concreto subiti».
Il problema specifico attinente alla risarcibilità del danno occorso a causa della mancata interruzione della gravidanza dovuta al fatto che la donna non è venuta a conoscenza della malformazione del figlio viene affrontato dal Tribunale di Roma (Trib. Roma, 13 dicembre 1994, in Riv. It. medicina legale, 1998, 162). La fattispecie riguarda la scorretta lettura dell’esame ecografico ma la ratio decidendi è sempre la stessa: pur in presenza di gravi malformazioni del bambino niente risarcimento alla madre se le malformazioni non hanno determinato un «grave» pericolo per il benessere psico-fisico.
A questo punto occorre fare una precisazione in merito: per scoprire le possibili malattie o malformazioni del feto l’unico esame praticabile prima del novantesimo giorno di gestazione è l’esame dei villi coriali di origine placentare, che presenta ancora oggi fattori di rischio (piú elevati dell’amniocentesi) per il feto, e una incertezza sui risultati raggiunti (Macchiarelli-Feola, Medicina legale, II, Torino, 1995, 1326 e segg.). Tutti gli altri esami, che ora sono di routine ma all’epoca in cui si sono svolti i fatti narrati nella decisione che si annota si prescrivevano solo in casi particolari, diranno se il bambino è sano oltre il terzo mese e pertanto, in ogni caso, l’interruzione della gravidanza non sarà ammessa a causa delle sole difformità del nascituro ma solo se queste siano idonee a provocare un «grave» danno alla salute della madre. Ecco perché la Corte di cassazione richiede la prova di quest’ultimo per integrare la fattispecie di danno da mancata interruzione della gravidanza.
D’altra parte, da un punto di vista squisitamente penalistico, proprio la presenza di un «grave» pericolo per la salute fisio-psichica della donna, come si legge nelle decisioni della Cassazione penale e la giurisprudenza di merito (Cass. pen., Sez. V, 7 aprile 1987, F., in Giur. It., 1988, II, 318; Trib. Milano, 22 giugno 1993, in Foro It., 1994, II, 377; Cass. pen., Sez. V, 30 gennaio 1998, n. 2866, B., in Riv. Pen., 1998, 471), esclude la configurabilità del reato di aborto in caso di interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno di gestazione.
Sempre di quest’avviso, ma aggiunge tra le condizioni che devono sussistere perché ci sia risarcibilità del danno anche l’impossibilità di una vita autonoma del feto, è la pronuncia n. 12195 del 1998 della Corte di cassazione (Cass., 1° dicembre 1998, n. 12195, in Mass., 1998), la quale sottolinea ancora una volta come il processo patologico nella madre, indotto dalle malformazioni del nascituro, debba essere già in atto e debba sussistere la possibilità accertata che tale patologia degeneri in un «grave» danno.
Di diverso avviso si rinvengono, invece, due pronunce del Tribunale di Bergamo (Trib. Bergamo, 2 novembre 1995, in Danno e resp., 1996, 249; Id. Bergamo, 16 novembre 1995, in Giust. Civ., 1996, I, 867): in un caso di errore di lettura dell’esame da parte dell’ecografista ravvisano una colposa mancata informazione alla madre circa le malformazioni del nascituro determinante responsabilità diretta, ad un tempo contrattuale e aquiliana, del sanitario e dell’ospedale — datore di lavoro del primo — per aver «escluso in radice la possibilità di interrompere la gravidanza a norma dell’art. 6, lett. b) della legge n. 194/1978», e liquida nella somma di lire 750.000.000 in favore di entrambi i genitori, e di lire 252.000.000 in favore della madre per future spese. Decisioni, come si vede, controcorrente che condannano al risarcimento senza richiedere la prova del «grave» danno alla salute della donna, considerando meritevole di tutela di per sé la lesione della mancata possibilità di scelta consapevole tra prosecuzione o interruzione della gravidanza, e accordano il risarcimento del danno anche in favore del padre, per la sua qualità di genitore al pari della madre.
Il «grave» pericolo per la salute fisica della donna si concreta, come suggeriscono i medici (Macchiarelli-Feola, op. cit., 1317), in tutte quelle patologie che da sole causerebbero l’aborto e per le quali in passato si ammetteva il ricorso al cosiddetto «aborto terapeutico» (ipertensione arteriosa grave, diabete, obesità, cardiopatia cianogena, anemia, ecc.).
Piú sfuggente è la definizione del «grave» pericolo per la salute psichica della donna. Una decisione della Cassazione penale (Cass. Pen., Sez. III, 19 ottobre 1981, S., in Cass. Pen., 1982, 1151) precisa in merito: «il serio pericolo per la salute psichica della donna, oggetto dell’accertamento demandato al giudice, va inteso nel senso di una rilevante possibilità di turbamento o alterazione dell’equilibrio psichico della donna stessa».
In ogni caso la patologia che potrebbe degenerare in un «grave» pericolo per la salute della donna deve essere, a norma dell’art. 7 della legge n. 194/1978, accertata non dal medico di base ma da uno specialista, l’unico che potrà rilasciare il certificato che autorizza l’intervento di interruzione (Macchiarelli-Feola, op. cit., 1318).
Il panorama offerto dalla disamina delle pronunce della giurisprudenza sul tema è molto vario: la responsabilità del medico e dell’ente ospedaliero è definita talvolta contrattuale — da inadempimento —, talvolta aquiliana, piú spesso contrattuale e aquiliana insieme; per la qualificazione dei danni da ristorare, poi, i giudici di volta in volta si sono affidati a criteri diversi.
Anche sul versante della individuazione e definizione dell’interesse leso si sono adottati diversi modelli al fine di circoscrivere i danni che la nascita di un bambino può ingenerare partendo dall’assioma comune che la nascita di per sé non può costituire un danno risarcibile. Di volta in volta, allora, la gravidanza indesiderata è vista come malattia, donde il risarcimento del danno biologico alla salute, e come trauma della psiche della madre; il bambino viene visto come un costo e come un investimento, e in questo caso l’ingiustizia del danno risiederebbe nella turbativa delle decisioni di allocazione finanziaria; viene tutelata e risarcita, infine, la violazione della personalità dei genitori che si estrinseca nella possibilità di scelta sul an e ubi diventare genitori.
Per un esame di dottrina e giurisprudenza fino al 1986 si veda anche Zatti, Mancata interruzione della gravidanza – Responsabilità del medico, in Nuova Giur. Comm., 1986, I, 120; per il danno risarcibile da nascita indesiderata Ferrando, Nascita indesiderata e danno risarcibile, in D’Angelo (a cura di), op. cit., 238 e segg.; per una riflessione sull’individuazione dell’interesse leso Monateri, op. cit., 289 e segg.; per la costruzione della fattispecie di danno ad opera della Corte di cassazione si vedano anche Gorgoni, in Resp. Civ. e Prev., 1994, 1029 e Orrú, in Nuova Giur. Comm., 1995, I, 1107.
b) La responsabilità del medico di fronte all’informazione sulle malformazioni del nascituro.
Ancora qualche breve osservazione in tema del dovere di informazione cui il medico è tenuto.
Il Codice di deontologia medica, la cui prima stesura risale al lontano 1912 ad opera del Consiglio dell’Ordine dei medici di Torino, fornirà qualche spunto per valutare il delicato compito del medico da un punto di vista squisitamente etico, mentre uno sguardo alla giurisprudenza piú recente in tema di mancata informazione circa le malformazioni del nascituro suggerirà una diversa prospettiva dalla quale affrontare il problema.
La ricorrente lamenta una carenza di informazione da parte del neurologo che le ha prescritto la cura a base di psicofarmaci a proposito di possibili interferenze tra il medicinale e future gravidanze. Il Codice di deontologia medica in vigore nel 1980 prevede in generale il dovere del medico di «conoscere la natura, le indicazioni, le controindicazioni, le interazioni dei farmaci». Piú stringente sul punto è il Codice attualmente in vigore, approvato dal Consiglio nazionale della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri il 3 ottobre 1998, a norma del quale «Il medico è tenuto a una adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle prevedibili reazioni individuali, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente, le sue decisioni ai dati scientifici accreditati e alle evidenze metodologicamente fondate» (art. 12). In ogni caso, però, non conoscendosi, allo stato attuale della ricerca, alcuna interazione tra sostanze psicotrope e futura gravidanza il comportamento del neurologo non appare sul punto censurabile, anche se, ora, a norma del Codice del 1998, nel caso in cui gli effetti di un farmaco non siano ancora del tutto sperimentati, il medico, nel prescriverli, dovrà acquisire il consenso scritto del paziente debitamente informato, si assumerà la responsabilità della cura e sarà tenuto a monitorarne gli effetti. (Sul tema si veda anche Barni, La prescrizione dei farmaci: libertà terapeutica e responsabilità del medico, in Riv. It. medicina legale, 1994, 555).
Riguardo, invece, al dovere di informazione sulla diagnosi, prognosi e prospettive terapeutiche il medico del Servizio Sanitario Nazionale vi è tenuto a norma dell’art. 2 della legge n. 833/1978 e dall’art. 30 del Codice di deontologia medica. L’art. 30, nell’ultima versione del Codice approvata nel 1998, non lascia alcuna discrezionalità al medico affermando che «le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza nella persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza».
Occorre, però, precisare che in tema di informazione del paziente circa la diagnosi, specie se particolarmente infausta, il Codice di deontologia medica ha avuto nelle sue diverse versioni una progressiva evoluzione.
Il Codice approvato il 7 gennaio 1978, in vigore all’epoca in cui si è svolta la vicenda che ha dato vita alla decisione che si annota, accorda, infatti, al medico una piú ampia libertà nel decidere se informare il paziente e con quali termini.
L’art. 39 del Codice del 1989 prevede, invece, il dovere del medico di avvisare almeno i congiunti nel caso in cui decida di non rivelare al malato la prognosi infausta.
Solo con il Codice del 1995 non è piú possibile per il medico omettere alcuna informazione al paziente, anche se nell’informarlo dovrà tenere «conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento» (art. 29).
Nel caso specifico di malattie o malformazioni riscontrate nel nascituro si tratta di dovere di informazione nei confronti dei congiunti del paziente. Il margine, quindi, tacitamente lasciato alla discrezionalità del medico dal Codice deontologico del 1978, nel quale manca il riferimento all’informazione ai congiunti, sembra essere revocato già dal Codice del 1989.
In tema di responsabilità del medico tra gli altri: Iadecola, La responsabilità penale del medico tra posizione di garanzia e rispetto della volontà del paziente, in Cass. Pen., 1998, 953; Oddi, In tema di responsabilità del medico, in Giur. It., 1998, 38; Siracusano, Ancora sulla responsabilità colposa del medico: analisi della giurisprudenza sulle forme e i gradi della colpa, in Cass. Pen., 1997, 2904; Benedetti, Natura della responsabilità del medico e ripartizione dell’onere della prova, in Danno e Resp., 1997, 100; Fiore, Note in tema di responsabilità professionale del medico per omessa diagnosi precoce, in Rass. Giur. Umbra, 1997, 737; Basile, Spunti di riflessione sul tema della responsabilità professionale del medico, in Dir. Economia Assicuraz., 1996, 275; Lenoci, Diritto a nascere sani e responsabilità di assistenza al parto, in Foro It., 1996, I, 2494.
Per quanto attiene all’atteggiamento della giurisprudenza nel caso specifico di mancata informazione da parte dei sanitari delle malformazioni del nascituro, in un primo tempo (Trib. Pordenone, 18 marzo 1992, in Riv. It. medicina legale, 1998, 136) non ha ravvisato nel comportamento del medico il reato di omissione di atti d’ufficio, previsto dall’art. 328 c. p. Osserva in merito il Tribunale di Pordenone che l’informazione de quo non costituisce «un atto che per ragioni di sanità doveva essere posto in essere senza ritardo» dal momento che l’alterazione genetica è emersa alla trentesima settimana di gestazione, e nulla piú poteva essere fatto per evitare o limitare l’entità delle malformazioni.
Negli interventi giurisprudenziali piú recenti si nota, invece, una inversione di tendenza, frutto di una piú ponderata e profonda riflessione: l’informazione circa le patologie del nascituro riveste il carattere della indilazionabilità e pertanto la sua omissione concreta il reato previsto dall’art. 328 c. p. Osservano, infatti, i giudici come, nel caso di omissione della informazione circa lo stato di salute del nascituro, «la strada seguita dal medico sia stata la piú brutale ponendo la paziente nel modo piú violento e inaspettato di fronte alla atroce verità» (App. Trieste, 1° luglio 1997, in Riv. It. medicina legale, 1998, 137). La tempestiva informazione avrebbe consentito la predisposizione di idonei supporti specialistici e terapie psicologiche a cui la paziente aveva diritto evitando al momento del parto, di per sé già delicato, l’ulteriore complicanza di una siffatta inaspettata rivelazione (Cass. pen., Sez. VI, 23 marzo 1997, n. 3599, M., in Giust. Pen., 1998, II, 274). Senza contare che entrambi i genitori hanno diritto ad essere preparati alla particolare nascita che li attende e che tale preparazione è idonea ad incidere sulla salute psichica del nascituro (Cass. pen., Sez. VI, 21 marzo 1997, M., in Riv. It. medicina legale, 1998, 119), destinato ad una esistenza già di per sé difficile e meritevole di avere dei genitori equipaggiati di tutti gli strumenti atti ad accoglierlo.