Dagli atti acquisiti risulta quanto segue in ordine alla vicenda processuale che ha coinvolto l’istante:
– in data 6.4.2005 i Carabinieri della stazione di Casamassima hanno arrestato il minorenne M. S., unitamente ad altre sei minori, in flagranza del reato di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente. I Militari hanno fatto irruzione in un locale frequentato da giovani ed ubicato nel centro storico di Casamassima e vi hanno effettuato con esito positivo una perquisizione finalizzata alla ricerca di sostanze stupefacenti. Più precisamente, essi avevano rinvenuto, per terra, n. 15 pezzetti di hashish e due taglierini anneriti dal fuoco (evidentemente usati per il taglio della sostanza) nonché, all’interno del piede di un tavolo di resina, un pezzo di hashish del peso di gr. 45 ca. e n. 11 pezzi della medesima sostanza del perso di gr. 10 circa, oltre ad un coltello a serramanico ed alla somma di euro 93; gli Operanti hanno accertato, infine, che le chiavi della porta di accesso al locale erano nella disponibilità di M. S. e di altri due giovani ivi presenti;
– l’8.4.2005 il G.I.P. del Tribunale per i Minorenni di Bari non ha convalidato l’arresto e, rigettata la richiesta di custodia cautelare, ha disposto la immediata remissione in libertà del M. e degli altri arrestati; il Giudice ha ritenuto che l’arresto era stato eseguito "al di fuori dei casi di flagranza in riferimento al reato contestato";
– con decreto del 23.3.2006 il G.I.P. ha disposto l’archiviazione del procedimento;
La fattispecie di ingiusta detenzione prospettata dall’istante va qualificata come una ipotesi di ingiustizia formale poiché il rinvio operato dal terzo comma dell’art. 314 c.p.p. – che estende l’applicazione dell’istituto della riparazione all’indagato nei confronti del quale sia stato pronunciato provvedimento di archiviazione – deve intendersi riferito nella specie al comma II in quanto la misura precautelare alla quale è stato sottoposto il M. è stata giudicata illegittima; con sentenza n. 109/99 la Corte Costituzionale ha equiparato siffatta situazione a quella tipica di ingiustizia formale derivante dall’applicazione di misura cautelare in difetto dei presupposti di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p.
Tale inquadramento, però, non esime la Corte dalla verifica della sussistenza del dolo o della colpa che siano causalmente efficienti nella genesi dell’arresto del M..
Infatti, in conformità agli orientamenti più recenti della giurisprudenza di legittimità, la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. (da ultimo, Cass. pen. S.U., 27.5.2010, n. 32383; sez. IV, 23.1.2009, n. 6628).
Va aggiunto, però, che la operatività del dolo o della colpa grave non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l’indicata condizione ostativa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza "ab origine" delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione (Cass. S.U. n. 32383/2010 cit.).
Mutatis mutandis e facendo applicazione di tali principi all’ipotesi dell’arresto (o del fermo) non convalidato, si deve affermare che il dolo o la colpa grave dell’indagato non escludono il diritto all’indennizzo allorché l’accertamento della insussistenza dei presupposti dell’arresto avvenga sulla base della valutazione della medesima situazione di fatto che si è prospettata alla polizia giudiziaria al momento dell’arresto (o del fermo); di contro, la condotta dell’arrestato che sia connotata da dolo o colpa grave è condizione ostativa al riconoscimento dell’equa riparazione allorché la polizia giudiziaria ha proceduto in presenza di elementi di fatto che imponevano o facultavano la misura e solo l’apprezzamento da parte del giudice di dati circostanziali non conosciuti o conoscibili al momento dell’arresto ha giustificato il diniego della convalida; in tal caso al dolo o alla colpa dell’arrestato deve riconoscersi efficienza causale nel determinare l’ "errore" dell’Autorità procedente.
Se, dunque, il giudice della convalida – evidentemente esorbitando dai limiti di una verifica ex ante di ragionevolezza dell’operato della p.g. in ordine ai presupposti richiesti per la privazione dello status libertatis – effettua un apprezzamento di acquisizioni e di informazioni successive al momento dell’arresto – e, perciò, non conoscibili al momento della esecuzione della misura precautelare – e, operando una valutazione approfondita della fondatezza dell’accusa, non convalida l’arresto, la condotta dolosa o colposa dell’arrestato diviene ostativa del riconoscimento del diritto alla riparazione in quanto causalmente efficiente rispetto alle determinazione della p.g. nel procedere all’arresto.
Alla luce di tali premesse in diritto, la domanda di riparazione avanzata dal M. non può essere accolta perché l’esame del suo comportamento al momento dell’arresto evidenzia concreti profili di colpa grave causalmente efficienti nella genesi della ingiusta detenzione.
Dall’interrogatario di garanzia emerge, infatti, la conferma che il M. frequentava regolarmente il locale oggetto della perquisizione e che a tale titolo versava una quota di dieci euro al mese e disponeva delle relative chiavi.
Ma vi è di più: egli ha riferito che, due o tre giorni prima dell’arresto, gli amici Di Bari e Pastore gli avevano confidato di aver nascosto dell’hashish all’interno del locale da loro pure frequentato, peraltro senza rivelargli il nascondiglio ma impegnandosi a portare via la sostanza della quale intendevano sbarazzarsi.
Non sembra seriamente contestabile che la scelta di continuare a frequentare la sede di una sorta di circolo privato pur sapendo che qualcuno vi ha nascosto della sostanza stupefacente è un comportamento gravemente sconsiderato, si direbbe una condotta autolesionistica.
Era ragionevole paventare, infatti, che il via vai degli avventori e delle persone che si accompagnavano con loro e la ubicazione del ritrovo nel centro del paese avrebbe potuto attirare l’attenzione delle Forze dell’Ordine ed esporre ciascun socio al rischio di essere considerato codetentore della droga nascosta dal D. B. e dal P. e, quindi, corresponsabile di una attività di spaccio facilmente ipotizzabile atteso l’andirivieni dei frequentatori.
Sulla gravità della imprudenza e della superficialità della condotta del M. non sembra debba aggiungersi altro.
Tale condotta ha avuto una sicura coefficienza causale nel determinare i Carabinieri all’arresto perché gli elementi circostanziali apprezzati dal G.I.P. per negarne la convalida sono, almeno in parte, estranei e diversi rispetto alla situazione di fatto che si presentava agli Operanti al momento della irruzione nel locale.
Si osserva, infatti, che il G.I.P. ha ritenuto l’arresto illegittimo esclusivamente per il difetto della flagranza nel reato ed ha motivato tale rilievo argomentando che "la droga complessivamente sequestrata non è stata rinvenuta nella diretta e personale disponibilità di alcuno dei soggetti tratti in arresto in termini tali da rendere verosimile la destinazione allo spaccio".
Orbene, dovendosi escludere che egli abbia disconosciuto tout court una qualsivoglia relazione di fatto tra il M. (e gli altri giovani presenti) e tutta la droga rinvenuta nel locale, non foss’altro perché quindici pezzi di hashish erano lì per terra, si deve interpretare la motivazione dianzi riportata come riferita agli elementi indiziari rivelatori della destinazione allo spaccio. In altri termini, il Giudice ha operato una valutazione della configurabilità, non solo astratta (la detenzione della droga) del reato per il quale si era proceduto all’arresto, ma anche (legittimamente, s’intende) della sussistenza degli elementi sintomatici della destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale; sennonchè, è di tutta evidenza che il giudizio di insussistenza (sotto il cennato profilo) delle condizioni legittimanti l’arresto, a dispetto della collocazione topografica della relativa motivazione all’interno della ordinanza (prima del dispositivo di "non convalida"), trae argomento, non solo dalle risultanze dei verbali di arresto e di perquisizione e sequestro, ma anche dall’approfondito apprezzamento della gravità del quadro indiziario per come si è delineato successivamente, anche a seguito delle giustificazioni addotte dagli arrestati in sede di convalida.
Il G.I.P., infatti, ha tenuto conto, tra l’altro, della mancata rivendicazione della somma di 93 euro, della prospettazione in sede di convalida di lecite ragioni di frequentazione del locale (riunioni e svago) incompatibili con l’attività di spaccio, del nascondimento della gamba del tavolo contenete il maggior quantitativo di droga all’interno di un caminetto e dietro un televisore, invero non risultante dagli atti ma dall’interrogatorio di alcuni indagati (D. P. e M. R.) e, soprattutto, delle dichiarazioni di P. G. in ordine alla responsabilità dell’occultamento dell’hashish riportate nell’annotazione di servizio in data 7.4.2005.
Si impone, dunque, una sorta di giudizio controfattuale per accertare se gli elementi circostanziali passati in rassegna dal G.I.P. per valutare non solo la gravità del quadro indiziario ma anche la legittimità dell’arresto erano conosciuti o conoscibili con l’ordinaria diligenza da parte dei Carabinieri, così che essi avrebbero dovuto non procedere all’arresto nonostante la obbligatorietà della misura ai sensi dell’art. 380 comma II lett. h) c.p.p.
Ebbene, tale valutazione ipotetica impone a questa Corte di affermare che la descritta situazione di fatto palesatasi ai Militari al momento dell’arresto legittimava ampiamente l’adozione della misura e che solo le informazioni acquisite successivamente (dichiarazioni dello stesso M. e dei coindagati ed acquisizioni investigative del giorno successivo) resero palese che parte della sostanza stupefacente sequestrata non era nella consapevole detenzione di tutti i frequentatori del circolo e che, quanto alla restante, non vi erano indizi univoci della sua destinazione allo spaccio.
Alla luce delle considerazioni che precedono la domanda di riparazione presentata da M. S. va rigettata.
 
P.Q.M.

visti gli artt. 314 e segg. c.p.p.;
rigetta la domanda.
Bari, 9 dicembre 2010.
Giudice Antonio Civita