B.G. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che, liquidando Euro 3.600 per anni quattro circa di ritardo, ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale é stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado avanti al TAR della Campania a far tempo dal 14 novembre 2000 e non ancora definito alla data di presentazione del ricorso (2008) deciso all’udienza del 9 maggio 2008.
Resiste l’Amministrazione con controricorso.
La causa é stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..
Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e della L. n. 89 del 2001 é inammissibile per inidoneità del quesito. Posto invero che "Il. quesito di diritto costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata e quindi non ammissibile l’investitura stessa del giudice di legittimità: ne deriva che la parte deve evidenziare sia il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia, per ciascun motivo di ricorso il principio, diverso da quello posto alla base del provvedimento impugnato, la cui auspicata applicazione potrebbe condurre ad una decisione di segno diverso" (Cassazione civile, sez. 3, 9 maggio 2008, n. 11535) al richiamato canone non pare rispondere il quesito proposto che si limita ad enunciare un principio generale relativo ai rapporti tra normativa nazionale e Convenzione senza che risulti l’attinenza con la concreta fattispecie.
Il secondo e il terzo motivo, che possono essere trattati congiuntamente, con i quali si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione deducendosi che la Corte d’appello non avrebbe correttamente determinato la durata del processo sulla quale parametrare il danno in quanto ha ritenuto di dover considerare solo il tempo eccedente la ragionevole durata mentre, una volta constato che quest’ultima era stata superata, avrebbe dovuto rapportare l’indennizzo all’intera durata del processo in ossequio alla giurisprudenza della Corte Europea sono manifestamente infondati alla luce del diverso principio enunciato dalla Corte secondo cui "In tema di diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’indennizzo non deve essere correlato alla durata dell’intero processo, bensì solo al segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole, in base a quanto stabilito dall’art. 2, comma 3, di detta Legge, conformemente al principio enunciato dall’art. 111 Cost., che prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza. Questo parametro di calcolo, che non tiene conto del periodo di durata "ordinario" e "ragionevole", non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, come riconosciuto dalla stessa Corte Europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, e non si pone, quindi, in contrasto con l’ari. 6, par. 1, della Convezione Europea dei diritti dell’uomo" (Sez. 1, Ordinanza n. 3716 del 14/02/2008).
Il quinto e il sesto motivo con i quali ci si duole, sotto diversi profili, della liquidazione del danno operata dal giudice del merito in 3.600 Euro é inammissibile per difetto di interesse posto che secondo la giurisprudenza della Corte (Sez. 1, 14 ottobre 2009, n. 21840) l’importo dell’indennizzo può essere ridotto ad una misura inferiore (Euro 750 per anno) a quella del parametro minimo indicato nella giurisprudenza della Corte Europea (che é pari a Euro 1.000 in ragione d’anno) per i primi tre anni di durata eccedente quella ritenuta ragionevole in considerazione del limitato patema d’animo che consegue all’iniziale modesto sforamento mentre per l’ulteriore periodo deve essere applicato il richiamato parametro, con la conseguenza che l’importo spettante per il periodo di irragionevole durata superiore al triennio, considerato congruo, che é di poco superiore ai quattro anni, in base a tali parametri non sarebbe superiore a quello in concreto già liquidato.
Con il settimo e l’ottavo motivo, che per la loro connessione possono essere trattati congiuntamente, si deduce violazione della Convenzione e della L. n. 89 del 2001 e difetto di motivazione, in relazione al mancato riconoscimento del bonus di Euro 2.000 per la particolare natura della controversia (lavoro e previdenza).
I motivi sono manifestamente infondati, essendosi già affermato dalla Corte che "In tema di equa riparazione per eccessiva durata del processo, le considerazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in merito alla centralità dell’occupazione e sulla relativa opportunità di riconoscere un bonus, svincolato da qualsiasi parametro e dovuto in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia, non determinano alcun automatismo nell’indennizzo: tocca al giudice nazionale valutare caso per caso l’importanza della controversia senza alcun obbligo di motivazione laddove venga esclusa la liquidazione di una somma ulteriore rispetto agii standard fissati dalla Cedu e dalla L. n. 89 del 2001 "(Cassazione civile, sez. 1, 12 gennaio 2009, n. 402).
Per quanto concerne gli ulteriori motivi con i quali ci si duole della liquidazione delle spese operata dal giudice del merito sono innanzitutto manifestamente infondate le doglianze relative alla pretesa di liquidazione delle spese processuali secondo gli standard seguiti dalla Corte di Strasburgo in quanto nei giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte di appello deve essere effettuata in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano, e non deve tener conto degli onorari liquidati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, i quali attendono al regime del procedimento davanti alla Corte di Strasburgo, posto che la liquidazione dell’attività professionale svoltasi davanti ai giudici dello Stato deve avvenire esclusivamente in base alle tariffe professionali che disciplinano la professione legale davanti ai tribunali ed alle corti di quello Stato (Cass., Sez. 1, 11 settembre 2008, n. 23397).
Quanto alla censura concernente il difetto di motivazione in ordine alla liquidazione in difformità dalla richiesta il motivo é inammissibile in quanto non é stata riprodotta la nota spese sottoposta al giudice a quo, in violazione del principio secondo cui "In tema di controllo della legittimità della pronuncia di condanna alle spese del giudizio, é inammissibile il ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonché le singole spese asseritamente non riconosciute" (Sez. 3, Sentenza n. 14744 del 26/06/2007).
Manifestamente infondata é, infine la censura in ordine alla violazione dei minimi tariffari poiché, tenuto conto dell’importo riconosciuto, tale violazione non sussiste.
I ricorso deve dunque essere rigettato con le conseguenze di rito in ordine alle spese.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese che liquida in Euro 600, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2010.
Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2010