Con ricorso 30 marzo 2007 alla Corte di appello di Lecce, il signor P.G. chiese che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrispondere l’equa riparazione prevista dalla L. n. 89 del 2001, per la violazione dell’art. 6, sul "Diritto ad un processo equo", della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848, per un processo penale, nel quale era stata disposta la sua custodia cautelare in carcere con ordinanza notificata il 15 dicembre 1994, e che si era concluso con la sua assoluzione con sentenza del Tribunale di Bari 29 marzo 2006, passata in giudicato in giudicato il 3 ottobre 2006.
Con decreto del 14 maggio 2008, la Corte di appello premise che la durata della fase anteriore al dibattimento non doveva essere computata, essendo regolata nei suoi tempi dalle norme del codice di rito, con la necessitata richiesta di proroghe del pubblico ministero al giudice delle indagini preliminari; ripercorse poi la storia del dibattimento, articolatosi in trentuno udienze, e, pur rilevando che in cinque casi i rinvii avevano ecceduto ancorchè di poco il limite di quattro mesi ritenuto un intervallo ragionevole tra un’udienza e l’altra, giudicò che un’attività così complessa, con perizie tecniche, ascolto di testi, anche in video conferenza, e acquisizione di documenti, tenuto conto del numero degli imputati (14) e della gravita delle imputazioni contestate, giustificasse la durata del processo, e respinse la domanda.
Avverso questo decreto, notificato il 9 giugno 2008, il signor P. ha proposto ricorso per Cassazione, fondato su due motivi.
L’amministrazione resiste con controricorso notificato il 4 novembre 2008.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia una violazione dell’art. 111 Cost., L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, e art. 6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Si deduce che la ragionevole durata del processo penale deve essere calcolata per il ricorrente dalla data di notifica ed esecuzione in danno del ricorrente dell’ordine di custodia cautelare del GIP di Roma (15 dicembre 1996), e non dall’inizio del dibattimento.
Il motivo è fondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte in tema di equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001, nella valutazione della durata del processo presupposto, quando si tratti di processo penale, si deve tener conto della fase delle indagini preliminari solo dal momento in cui l’indagato abbia avuto concreta notizia della pendenza del procedimento nei suoi confronti.
In mancanza di altri elementi, laddove prima della fase dibattimentale vi sia stata custodia cautelare in carcere, è dalla data di esecuzione del relativo provvedimento che la pendenza del processo deve ritenersi conosciuta dalla persona sottoposta ad indagini preliminari.
Con il secondo motivo si denuncia la contraddittorietà della motivazione, per avere la corte territoriale dapprima affermato che la durata del processo si era irragionevolmente dilatata per circa un anno su cinque anni complessivi per ritardi imputabili al sistema giudiziario, e poi respinto la domanda di riparazione per l’irragionevole durata del processo.
Anche tale motivo è fondato, censurando l’accertamento della durata irragionevole del processo condotto dalla corte territoriale in modo non rispettoso dei criteri legali, ripetutamente indicati da questa corte. A tal fine, infatti, si richiede il preliminare accertamento della durata che sarebbe stata ragionevole in relazione alla complessità del procedimento, accertamento che nella fattispecie è stato omesso. L’ulteriore durata, depurata dei tempi imposti da vere e proprie cause di forza maggiore, e dai comportamenti della stessa parte richiedente, se ne sia accertato il carattere dilatorio, deve essere quindi imputata all’organizzazione del sistema giudiziario, e posta a base del calcolo dell’equa riparazione. A tali criteri non s’è attenuto il giudice di merito il quale, limitandosi a descrivere la complessità del processo, senza indicarne la durata teoricamente ragionevole, è pervenuto, attraverso una confusa accumulazione delle ragioni di ritardo, alla conclusione che undici anni e tre mesi di durata non sarebbero irragionevoli per un processo concluso in primo grado.
La fondatezza del ricorso comporta la cassazione del decreto. Ad essa segue la decisione nel merito, non richiedendosi a tal fine ulteriori indagini in fatto, tenuto conto degli accertamenti già compiuti dal giudice di merito sui profili di complessità del processo presupposto. In base a quegli elementi, la complessità del processo poteva giustificare infatti una durata del processo penale, tenuto conto anche di sei mesi di indagini preliminari, di quattro anni e tre mesi, mentre resta irragionevole l’ulteriore durata di sette anni. In applicazione dei criteri costantemente seguiti da questa corte, a tale irragionevole durata corrisponde un’equa riparazione di Euro 6.250,00, sulla quale sono dovuti gli interessi legali dalla data della domanda giudiziale. L’amministrazione deve inoltre essere condannata al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in motivazione.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e decidendo nel merito condanna l’amministrazione al pagamento, a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale, la somma di Euro 6.250,00, con gli interessi legali dalla domanda; la condanna inoltre al pagamento delle spese del giudizio, che liquida:
per il grado davanti alla corte d’appello in Euro 1.300,00, di cui Euro 700,00 per onorari e Euro 600,00 per diritti;
per il giudizio di legittimità in Euro 1.000,00, di cui Euro 900,00 per onorari;
oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 8 luglio 2010.
Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2010