Con la decisione in epigrafe il Tribunale di Lecce ha respinto l’appello presentato da S.F. contro l’ordinanza con cui la Corte d’appello di Lecce aveva rigettato la sua istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare.
Il Tribunale ha ritenuto che la pena da tenere in considerazione è quella complessivamente irrogata per tutti i reati ritenuti avvinti dalla continuazione, indipendentemente dalla attuale sussistenza e dalla permanenza del titolo cautelare per alcuni di essi.
Contro questa ordinanza ricorre il difensore di S.F., censurando la tesi del Tribunale e sostenendo che il chiaro tenore dell’art. 300 c.p.p., comma 4 è nel senso che ai fini della decorrenza del termine di custodia deve tenersi conto della sola pena espiata in custodia cautelare per il titolo cautelare riferito all’aumento di pena del reato avvinto dalla continuazione eventualmente sopravvissuto alla perenzione della custodia cautelare per gli altri capi di imputazione, anche meno gravi, ritenuti in continuazione.
Nel caso di specie, il ricorrente assume che la pena inflitta per l’unico reato residuale (capo 24) per effetto della scarcerazione solo parziale e formale per gli altri titoli di cui ai capi 1, 25, 26, 27, 38 e 39 è stata interamente espiata alla data di deposito dell’istanza di scarcerazione.
Preliminarmente la Corte rileva che il ricorrente risulta rimesso in libertà in data 16.6.2010, sicchè deve ritenersi sia venuto meno il suo interesse al ricorso.
E’ noto come nella materia cautelare la giurisprudenza di questa Corte ritenga persistente l’interesse dell’indagato alla impugnazione, pur se rimesso in libertà, in relazione all’accertamento della sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., in quanto tale accertamento può costituire, in tesi, presupposto per il riconoscimento del diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente (Sez. un., 12 ottobre 1993, n. 20, Durante).
Corollario di tale principio è che l’interesse all’impugnazione di un provvedimento coercitivo dopo la cessazione della misura cautelare non permane quando l’impugnazione è diretta ad ottenere una decisione sulla sussistenza delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p., o sulla scelta tra le diverse misure possibili ai sensi dell’art. 275 c.p.p., in quanto si tratta di cause di illegittimità inidonee a fondare il diritto di cui all’art. 314 c.p.p., stante la tassatività della formulazione della norma citata, che si riferisce esclusivamente alle condizioni di applicabilità delle misure di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. (Sez. 6^, 26 maggio 2004, n. 37894, Torriglia; Sez. 5^, 9 dicembre 1993, n. 4091, Lazzarini).
Peraltro, anche quando viene contestata la sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari è pur sempre necessaria la verifica dell’attualità e della concretezza dell’interesse, tenuto conto che l’art. 568 c.p.p., comma 4 richiede, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza di un interesse che abbia tali caratteri, sia diretto cioè a rimuovere un effettivo pregiudizio che la parte asserisce di avere subito con il provvedimento impugnato, interesse che deve persistere sino al momento della decisione. La regola contenuta nel citato art. 568 c.p.p. è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, in forza del suo carattere generale, implicando che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame. Pertanto, come ha ammesso la stessa sentenza Durante, un tale interesse "non può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato", priva cioè di incidenza pratica sull’economia del procedimento.
In più occasioni questa Sezione ha evidenziato come un’applicazione pressochè automatica dei principi posti dall’orientamento più volte ricordato delle Sezioni unite presenti il rischio di accogliere una nozione di "interesse" troppo ampia, che finisce per presumere sempre e comunque che l’indagato agisca anche al fine di precostituirsi il titolo in funzione di una futura richiesta di un’equa riparazione per l’ingiusta detenzione ai sensi della disposizione contenuta nell’art. 314 c.p.p., comma 2, che tra l’altro disciplina una fattispecie tendenzialmente eccezionale e residuale rispetto alle altre ipotesi previste (Sez. 6^, 15 novembre 2006, Campodonico; Sez. 6^, 16 ottobre 2007, Russo). Infatti, nei casi in cui il procedimento nel quale sia stata sofferta una custodia illegittima termini con una condanna la riparazione è possibile solo se la durata della custodia abbia superato la pena inflitta ovvero se la condanna sia stata condizionalmente sospesa; d’altra parte, qualora il procedimento si concluda con un proscioglimento, la custodia illegittima è riparabile nei soli casi in cui la formula di assoluzione sia diversa da quelle cui si riferisce l’art. 314 c.p.p., comma 1, cioè quando si tratti di formule di proscioglimento meramente processuali, come le declaratorie di estinzione del reato o di improcedibilità ovvero di errore di persona.
Peraltro, deve osservarsi che l’interesse concreto ed attuale manca tutte le volte in cui ricorre la fattispecie di cui al citato art. 314 c.p.p., comma 4, che esclude che la riparazione sia dovuta qualora le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia cautelare siano sofferte anche in forza di altro titolo, come nel caso in cui la misura illegittima sia contemporanea all’esecuzione della pena o di una misura di sicurezza detentiva ovvero ad altra misura cautelare custodiale.
E’ proprio la presunzione dell’esistenza di un interesse, scollegata da ogni manifestazione di volontà in tal senso, ad essere il sintomo più eloquente della mancanza di un interesse attuale e concreto all’impugnazione.
In difetto di una espressa indicazione che dimostri l’intenzione di una futura utilizzazione della pronuncia, l’interesse in questione finisce per essere commisurato al probabile successo dell’azione di riparazione e l’impugnazione diventa lo strumento per rimuovere un pregiudizio futuro, solo teoricamente ed eventualmente collegato al provvedimento impugnato, laddove è pacifico che la situazione pregiudizievole che l’impugnazione tende a rimuovere deve porsi in rapporto causale con l’atto impugnato, del quale deve essere conseguenza immediata e diretta.
Ciò comporta perlomeno l’onere a carico del ricorrente di rappresentare l’esistenza di un simile interesse, anche con riferimento alla mancanza delle cause ostative di cui all’art. 314 c.p.p., comma 4.
In conclusione, si ritiene che in tali fattispecie il carattere dell’attualità e della concretezza dell’interesse ad impugnare possa essere riconosciuto a condizione che la parte manifesti, in termini positivi ed univoci, la sua intenzione a servirsi della pronuncia richiesta in vista dell’azione di riparazione per l’ingiusta detenzione, intenzione che, naturalmente, nel giudizio in cassazione può essere comunicata dal difensore direttamente in udienza ovvero attraverso memorie scritte.
Peraltro, considerato che la domanda di riparazione, come risulta dal coordinato disposto dell’art. 315 c.p.p., comma 3 e art. 645 c.p.p., comma 1, è atto riservato personalmente alla parte, occorre che l’intenzione della sua futura presentazione sia con certezza riconducibile alla sua volontà (Sez. 6^, 14 gennaio 2009, Gervasi).
Nella specie non risulta in atti che a tale onere di specifica e personale deduzione si sia adempiuto.
Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse con riferimento ai motivi dedotti, per i quali non risulta alcuna manifestazione di volontà diretta ad utilizzare la decisione al fine di proporre l’azione di riparazione ex art. 314 c.p.p..
Il venir meno dell’interesse, sopraggiunto alla proposizione del ricorso, non configura un’ipotesi di soccombenza e pertanto si ritiene che il ricorrente non debba essere condannato nè alle spese processuali nè al pagamento della sanzione in favore della cassa delle ammende (Sez. un., 25 giugno 1997, n. 7, Chiappetta).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.
Così deciso in Roma, il 16 luglio 2010.
Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2010