La Corte osserva quanto segue:
A.A. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi avverso il provvedimento della Corte d’appello di Palermo dell’11.4.08 con cui il Ministero dell’economia e delle finanze veniva condannato ex lege n. 89 del 2001 al pagamento di un indennizzo di Euro 14000,00 in favore di esso ricorrente per l’eccessivo protrarsi di un processo svoltosi innanzi alla Corte dei Conti iniziato il 28.5.90 e conclusosi il 18.9.07.
Il Ministero ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha presentato istanza di rimessione alle SSUU. Con il primo motivo ed il terzo motivo di ricorso l’ A. deduce sotto diversi profili l’insufficienza della liquidazione del danno non patrimoniale sostenendo che la decisione non risulta conforme alla giurisprudenza della Cedu sul punto.
I motivi sono manifestamente infondati, perchè, avendo la Corte territoriale liquidato la somma di Euro 14.000 sulla base di Euro mille per ogni anno di ritardo, si è attenuta ai parametri CEDU che oscillano, come è noto, tra i mille ed i millecinquecento Euro per anno.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la erronea determinazione del periodo di eccessiva durata del processo perchè la Corte d’appello, nel determinare la stessa in anni 14, sulla base di una ritenuta durata ragionevole di anni tre, non ha calcolato la fase del procedimento amministrativo.
Il motivo è palesemente infondato, alla luce di quella giurisprudenza di questa Corte che il Collegio condividerne ha rilevato che l’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, richiamato dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 6 stabilendo che ogni persona ha diritto a che la causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, fa chiaro ed esclusivo riferimento all’esercizio della funzione giurisdizionale: esso, pertanto, esclude la possibilità di tener conto anche del preventivo svolgimento di un procedimento amministrativo, il quale, anche quando abbia ad oggetto la stessa pretesa fatta valere successivamente in via giurisdizionale, costituisce un mero presupposto dell’azione giudiziaria, ma non appartiene al processo, nè contribuisce alla sua definizione, essendo preordinato soltanto alla definizione della pretesa in via amministrativa. (Cass. 9411/06; Cass. 53 86/04: Cass. 3143/04; Cass. 483/04).
Sotto tale profilo e nello stesso senso la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che il diritto all’equa riparazione, essendo configurabile solo in relazione ai processi che comportino l’esercizio di attività giurisdizionale, non è riconoscibile in riferimento al procedimento promosso con il ricorso straordinario al Capo dello Stato, il quale, pur avendo carattere contenzioso, ha natura amministrativa. Il ricorso straordinario, infatti, nonostante le sue peculiarità, costituisce un rimedio per assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede amministrativa, e la decisione che conclude il relativo procedimento non ha la natura e gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale, sicchè è escluso possa avere efficacia di giudicato. (Cass. 21567/06).
La citata giurisprudenza risulta applicabile non solo ai procedimenti amministrativi da cui consegue l’emanazione di un provvedimento amministrativo che la parte assume lesivo dei suoi diritti od interessi legittimi, ma anche a quei procedimenti previsti in alcuni casi dal legislatore il cui preventivo esperimento risulta pregiudiziale all’introduzione dell’azione giudiziaria come, ad esempio, il procedimento amministrativo costituente, "ex" art. 443 cod. proc. civ. condizione di procedibilità per la domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie (Cass. 3143/04).
Non ignora il Collegio l’esistenza di un diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice, nell’accertare la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, deve considerare, tra l’altro, il comportamento delle autorità chiamate a concorrere al procedimento o, comunque, a contribuire alla sua definizione, nel novero delle quali va compresa anche l’autorità preposta a trattare una fase amministrativa necessaria precedente il giudizio (nel senso che tale fase sia condizione perchè il giudizio possa avere luogo), ma soltanto allorchè per l’esaurimento di detta fase non sia previsto alcun termine. Viceversa, allorchè la fase amministrativa precedente il giudizio vero e proprio sia, a propria volta, regolata da uno specifico termine di durata, oggetto esso stesso di valutazione di adeguatezza da parte del legislatore e peraltro ragionevole, va ribadito che la preventiva proposizione della domanda in sede amministrativa non appartiene al processo, nè contribuisce alla sua definizione, onde non rileva ai fini della durata ragionevole dello stesso (Cass. 7118/06; Cass. 2619/2006, Cass. 9853/2006).
Ritiene tuttavia questo Collegio di dover optare per il diverso orientamento in precedenza citato dovendosi ribadire che il dato normativo letterale , costituito dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 che recita "nell’accertare la violazione il giudice considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione", costituisca un ostacolo insormontabile alla estensione del periodo di durata irragionevole al procedimento amministrativo che precede il giudizio. Basta a tale proposito osservare che l’espressione "ogni altra autorità chiamata a concorrervi" essendo rapportata al "giudice del procedimento" non può che essere riferita ad una autorità che intervenga nel procedimento giudiziario ,e non certo quella che ha proceduto all’emanazione del provvedimento amministrativo che costituisce una fase precedente al giudizio.
Quanto all’espressione "autorità" è evidente che essa è utilizzata in senso atecnico, essendo anche riferita al giudice che non può certo,sotto un profilo tecnico giuridico, ritenersi una autorità e comprende tutti quei soggetti che, a diverso titolo intervengono nel processo, consulenti tecnici di ufficio, curatori fallimentari, commissari giudiziali, etc.. Anche il dato letterale dell’art. 6, comma 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo porta alle medesime conclusioni. La citata norma recita infatti: "Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o una parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la tutela della vita privata delle parti nel processo, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia".
Ritiene il Collegio che la semplice lettura della norma rende evidente che la stessa si riferisce esclusivamente ad un processo in sede giurisdizionale non rinvenendosi in essa alcun riferimento a fasi precedenti svoltesi in sede amministrativa.
Aggiunge il collegio, ad colorandum, il carattere recessivo del ritenere che, solo in mancanza di fissazione di un termine al procedimento amministrativo, la durata di questo dovrebbe essere calcolata ai fini della determinazione della durata ragionevole del processo. Tale ipotesi risulta, infatti, di molto rara applicazione qualora il giudizio di equo indennizzo dovesse tenere conto di procedimenti amministrativi che abbiano avuto luogo dopo il 1990.
Va infatti considerato che la L. n. 241 del 1990, art. 2 sul procedimento amministrativo nella sua versione originaria, che per quanto concerne la questione in esame non è tuttavia stata modificata in modo sostanziale (l’articolo è stato successivamente modificato dalla L. n. 80 del 2005 di conversione del D.L. n. 35 del 2005 e poi sostituito dalla L. n. 69 del 2009), espressamente stabilisce quanto segue:
"1 Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
2 le pubbliche amministrazioni determinano per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui esso deve concludersi, tale termine decorre dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa diparte.
3 qualora le pubbliche amministrazioni non provvedano ai sensi del comma secondo, il termine è di trenta giorni.
4 le determinazioni adottate ai sensi del comma 2 sono rese pubbliche secondo quanto previsto dai singoli ordinamenti. " Essendo questo il dato normativo ,ne discende che poichè la quasi totalità dei procedimenti amministrativi relativi al riconoscimento di diritti da parte di privati o riguardanti interessi cosiddetti pretensivi di questi ultimi inizia necessariamente ad istanza di parte ovvero obbligatoriamente d’ufficio, in tutti questi casi il procedimento amministrativo, a far data dal 1990 (o immediatamente dopo tenuto conto del periodo transitorio), è dotato di un termine di durata massima. Tale termine,infatti,ove già non fissato per legge, deve essere stabilito tramite decreto da ogni pubblica amministrazione per ciascun proprio procedimento e, ove tale provvedimento manchi, il termine è stabilito ex lege dalla L. n. 241 del 1990, citato art. 2, comma 3 in trenta giorni. Il ricorso va, in conclusione rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 800,00 oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 16 marzo 2010.
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2010