P.M. ed altre ricorrono per Cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che ha accolto parzialmente i loro ricorsi riuniti con i quali è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado avanti al TAR del Lazio.
L’intimata Amministrazione non ha proposto difese.
La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 1173 c.c. per avere il giudice del merito liquidare gli interessi a far tempo dalla data della pronuncia e non da quella della domanda.
La censura è manifestamente fondata in quanto è principio già affermato dalla Corte quello secondo cui "Atteso il carattere indennitario dell’obbligazione nascente dall’accoglimento della domanda di danni conseguenti alla irragionevole durata del processo (ex L. n. 89 del 2001) gli interessi legali sulla somma liquidata decorrono dalla data della domanda di equa riparazione, stante la regola che gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda, nonostante il carattere di incertezza e di liquidità del credito prima della pronuncia giudiziaria" (Cassazione civile, sez. 1^, 17 giugno 2009, n. 14072).
Il secondo motivo che attiene alla liquidazione delle spese è assorbito dovendosi procedere a nuova pronuncia sul punto.
L’impugnato decreto deve dunque essere cassato. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito e pertanto condannata a Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento degli interessi in misura legale dalla data della domanda.
Le spese di entrambi i gradi di giudizio seguono la soccombenza.
Quanto alla liquidazione delle spese del giudizio di merito non può essere seguito il criterio propugnato dalla difesa dei ricorrenti secondo il quale, essendo stati proposti distinti ricorsi ex L. n. 89 del 2001, riuniti dalla Corte d’appello solo in esito alla discussione in Camera di consiglio, spetterebbero gli onorari e i diritti distintamente per ogni procedimento fino al momento della riunione.
Giova premettere, quando alla vicenda del processo presupposto, che i ricorrenti sono stati parti di una medesima procedura iniziata nell’aprile del 1993 avanti al TAR del Lazio, avendo proposto un’identica domanda concernente l’adeguamento triennale dell’indennità giudiziaria. Ciononostante, pur essendo la domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata di tale procedura basata sullo stesso presupposto giuridico e fattuale, hanno proposto nello stesso ristretto arco temporale dieci distinti ricorsi alla Corte d’appello competente con il patrocinio del medesimo difensore.
Tale condotta deve ritenersi configurare un abuso del processo.
La giurisprudenza della Corte ha già avuto modo di affrontare il tema dell’utilizzo dello strumento processuale con modalità tali da arrecare non solo un danno al debitore senza necessità o anche solo apprezzabile vantaggio per il creditore ma anche da interferire con il funzionamento dell’apparato giudiziario ed ha ritenuto una tale condotta lesiva sia del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in quanto contrastante con il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., sia contraria ai principi del giusto processo in quanto la inutile moltiplicazione dei giudizi produce un effetto inflattivo confliggente con l’obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. (Sent.
Sezioni Unite, 15 novembre 2007, n. 23726).
Tali principi, pur enunciati in tema di rapporti negoziali, possono trovare applicazione anche in fattispecie quali quella in esame laddove l’evento causativo del danno e quindi giustificativo della pretesa sia identico come unico sia il soggetto che ne deve rispondere e plurimi soli i danneggiati i quali, dopo aver agito unitariamente nel processo presupposto così dimostrando la carenza di interesse alla diversificazione delle posizioni ed avere sostanzialmente tenuto la stessa condotta in fase di richiesta dell’indennizzo agendo contemporaneamente con identico patrocinio legale e proponendo domande connesse per l’oggetto e per il titolo, instaurano singolarmente procedimenti diversificati pur destinati inevitabilmente (come puntualmente avvenuto nella fattispecie) alla riunione.
Una tale condotta, che è priva di alcuna apprezzabile motivazione e incongrua rispetto alla rilevate modalità di gestione sostanzialmente unitaria delle comuni pretese, contrasta innanzitutto con l’inderogabile dovere di solidarietà sociale che osta all’esercizio di un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell’agente, danno che nella fattispecie graverebbe sullo Stato debitore a causa dell’aumento degli oneri processuali: ma contrasta altresì e soprattutto con il principio costituzionalizzato del giusto processo inteso come processo di ragionevole durata (SS.UU. n. 23726/07, sopra citata) posto che la proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti incide negativamente sull’organizzazione giudiziaria a causa dell’inflazione delle attività che comporta con la conseguenza di un generale allungamento dei tempi processuali.
Al riscontrato abuso delle strumento processuale non può tuttavia conseguire la sanzione dell’inammissibilità dei ricorsi, posto che non è l’accesso in sè allo strumento che è illegittimo ma le modalità con cui è avvenuto, ma comporta l’eliminazione per quanto possibile degli effetti distorsivi dell’abuso e quindi, nella fattispecie, la valutazione dell’onere delle spese come se unico fosse stato il procedimento fin dall’origine.
Ciò posto, e ritenuto il valore della controversia (art. 10 c.p.c., comma 2) pari alla somma delle singole pretese riconosciute (Euro 80.000,00) l’Amministrazione deve essere condanna per il giudizio di merito al pagamento di Euro 3.789,00, di cui Euro 2.200,00 per onorari e 1.539,00 per diritti.
P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento in favore dei ricorrenti degli interessi in misura legale dalla data della domanda al saldo, nonchè al pagamento delle spese del giudizio di merito che liquida in complessivi Euro 3.789,00, di cui Euro 2.200,00 per onorari e Euro 1.539,00 per diritti, oltre spese generali e accessori di legge, nonchè di quelle del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 600,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge; spese di entrambi i gradi da distrarsi in favore dei difensori antistatari.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2010.
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2010