Con decreto 24 luglio 2008, la Corte d’appello di Roma, respinse la domanda proposta il 13 marzo 2006 dal signor D.S.A., di equa riparazione per l’irragionevole durata di un procedimento fallimentare nel quale era creditore insinuato. Lo stato passivo era stato dichiarato esecutivo in data 6 ottobre 1989, e il procedimento non era ancora concluso, ma il ricorrente non aveva evidenziato le cause della lamentata durata in relazione alle peculiarita’ della procedura fallimentare, e in particolare se il ritardo fosse imputabile all’organo procedente negli adempimenti di competenza.
Per la cassazione del decreto, non notificato, ricorre il signor D.S.A. con ricorso notificato in data 9 dicembre 2008, con cinque mezzi d’impugnazione.
L’Amministrazione non ha svolto difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i primi due motivi di ricorso si denuncia per vizi di motivazione l’impugnata sentenza, che ha argomentato il rigetto della domanda con la mancata esposizione in merito all’individuazione delle responsabilita’ del ritardo.
Entrambi i mezzi sono inammissibili, per mancanza della chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, com’e’ richiesto a pena d’inammissibilita’ dall’art. 366 bis cpv. c.p.c., vigente ratione temporis.
Con il terzo motivo si denuncia la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 3 e la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1, 2 e 3 nonche’ dell’art. 6, par. 1 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali. Si deduce che nel ricorso introduttivo era stata richiesta l’acquisizione di tutti gli atti del procedimento, e che la corte, senza dar corso alla richiesta, aveva rigettato la domanda a causa del difetto di allegazione e prova. Si pone pertanto il quesito se, nel giudizio ex L. n. 89 del 2001, la mancata acquisizione da parte del giudice del fascicolo del procedimento, come richiesto dal ricorrente, integri la violazione delle norme invocate, in particolare nel caso di rigetto della domanda per carenza di allegazione e prova.
Con il quarto motivo si denuncia la violazione delle medesime disposizioni di cui al motivo precedente, e si formula il quesito se, nel giudizio per l’equa riparazione per l’eccessiva durata della procedura fallimentare, il ricorrente, adducendo la sua qualita’ di creditore ammesso, indicando la data in cui la procedura e’ iniziata, precisando se essa sia pendente o definita, abbia sufficientemente allegato e dimostrato le circostanze addotte a fondamento della sua domanda, spettando poi al giudice accertare se la violazione allegata sia sussistente, considerando la complessita’ del caso ed in relazione alla stessa il comportamento delle parti e del giudice nonche’ di ogni altra autorita’ chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, onerandosi di acquisire il fascicolo della procedura fallimentare se necessario ai fini di tale adempimento.
Con il quinto motivo si denuncia la violazione delle regole sull’onere della prova, avendo il ricorrente provato l’irragionevole durata del processo, e gravando sulla convenuta Amministrazione l’onere di provare la sussistenza di elementi impeditivi, e si formula un quesito di diritto coerente con tali premesse difensive.
I tre motivi, intimamente collegati perche’ vertenti sull’accertamento della durata ragionevole del processo, devono essere esaminati congiuntamente. Essi sono fondati.
E’ da premettere che, nel giudizio proposto a norma della L. 24 marzo 2001, n. 89, artt. 2 e 3 per l’equa riparazione del danno cagionato dall’irragionevole durata del processo presupposto, laddove questo sia un processo fallimentare, la durata deve essere commisurata, per il creditore insinuato, con riferimento al periodo compreso tra la proposizione della domanda di insinuazione al passivo e la distribuzione finale del ricavato (v. Cass. 3 ottobre 2005 n. 19285).
Quanto alle norme da applicare nel giudizio sull’equa riparazione, l’interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e art. 3, comma 5 che regolano rispettivamente il potere del giudice e l’onere della parte istante, non puo’ prescindere dalle ragioni ispiratrici della disciplina, intesa ad apprestare in favore della vittima un rimedio alle conseguenze della violazione analogamente alla tutela offerta nel quadro dell’istanza internazionale, e dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, imposta dall’esplicito riferimento – nella descrizione della fattispecie normativa che da luogo ad equa riparazione – alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, ratificata ai sensi della L. 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1 della Convenzione (essendo l’interpretazione di questa norma riservata alla CEDU). Dovendosi riconoscere la consistenza di diritto soggettivo all’interesse della parte ad ottenere la definizione del giudizio presupposto entro un termine ragionevole, e dovendosi adottare – in conformita’ della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – dei parametri di ragionevolezza della durata del processo, seppure flessibili in ragione delle particolarita’ della fattispecie, da applicare in mancanza di ragioni che giustifichino una diversa conclusione, non puo’ addossarsi alla parte altro onere che quello di allegare e provare una durata irragionevole del processo, come tale idonea a fare fondamento alla sua domanda, fatti salvi gli accertamenti che, d’ufficio o su istanza dell’amministrazione convenuta, indirizzino la causa ad un esito diverso (per un analogo orientamento v. gia’ Cass. 13 aprile 2005 n. 7664). A questo riguardo si deve ricordare, infatti, che il procedimento segue le forme semplificate del rito camerale e che il giudice ha il potere di assumere informazioni d’ufficio (art. 738 c.p.c., u.c., richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4), mentre la parte ha la facolta’, e non l’onere in senso tecnico, di chiedere che la corte disponga l’acquisizione in tutto o in parte degli atti e dei documenti del procedimento in cui si assume essersi verificata la violazione (L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 5).
In mancanza di elementi rilevanti a questo riguardo, che siano stati accertati dal giudice di merito, deve ritenersi che la durata del processo fallimentare non possa ragionevolmente superare i cinque anni, e che la durata ulteriore sia indennizzabile a norma della citata L. n. 89 del 2001.
L’impugnato decreto, respingendo la domanda di equa riparazione proposta dal creditore insinuato al passivo di un processo fallimentare, che ha avuto una durata considerevolmente superiore, con l’argomento che il richiedente non aveva evidenziato le cause della lamentata durata in relazione alle peculiarita’ della procedura fallimentare, e in particolare se il ritardo fosse imputabile all’organo procedente negli adempimenti di competenza, e’ affetto dal denunciato vizio di violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, e art. 3, comma 5, e deve essere cassato, in base al principio seguente:
In tema di determinazione della ragionevole durata del processo a norma della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 la parte assolve l’onere di allegazione dei fatti costitutivi della domanda esponendo gli elementi utili a determinare la durata complessiva del giudizio presupposto, salvi i poteri della corte di accertare, d’ufficio o su sollecitazione dell’amministrazione convenuta, le cause che abbiano giustificato in tutto o in parte la durata del procedimento; e deve ritenersi che, se non siano stati accertati elementi di fatto idonei a giustificare una maggiore durata anche in relazione alla complessita’ del caso, la durata ragionevole del processo fallimentare non possa superare i cinque anni, con la conseguenza che la durata ulteriore e’ indennizzabile a norma della citata L. n. 89 del 2001.
La causa, inoltre, puo’ essere decisa anche nel merito, non richiedendosi a tal fine ulteriori indagini di merito, con la condanna dell’amministrazione al pagamento, a titolo di equa riparazione per l’eccessiva durata dal processo presupposto, protrattosi per quasi dodici anni oltre il termine ragionevole di cinque anni dalla domanda di insinuazione al passivo, della somma di Euro 11.250,00, con gli interessi legali dalla domanda. Sono inoltre a carico dell’amministrazione le spese del doppio grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa il decreto impugnato e decidendo nel merito condanna il Ministero al pagamento dell’equa riparazione liquidata in complessivi Euro 11.250,00, con gli interessi legali dalla domanda; lo condanna al pagamento delle spese del giudizio, liquidate per il giudizio di merito in Euro 380,00 per diritti, Euro 600,00 per onorari e Euro 50,00; e per il giudizio di legittimita’ in Euro 800,00, di cui Euro 700,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
Cosi’ deciso a Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte suprema di Cassazione, il 9 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2010