Con decreto emesso il 17 aprile 2007 la Corte d’appello di Roma condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore dell’associazione sportiva Tennis club FIREBALL della somma di Euro 6.000,00, oltre interessi e spese processuali, a titolo di riparazione per il danno subito in conseguenza della violazione del termine ragionevole del processo instaurato nei suoi confronti, dinanzi al Pretore di Napoli, con atto di citazione notificato l’1 giugno 1993 da un associato, infortunatosi durante l’attività sportiva: processo, proseguito poi presso il giudice di pace fino alla cancellazione della causa dal ruolo con ordinanza 15 luglio 2005, per intercorsa transazione.
Avverso il provvedimento, non notificato, proponeva ricorso per cassazione il Ministero della Giustizia, deducendo:
1) la nullità del decreto per omessa sottoscrizione del giudice relatore;
2) la violazione dell’art. 75 cod. proc. civ. nell’omesso rilievo della carenza di legittimazione attiva di un’associazione non riconosciuta nell’esercizio dell’azione di equa riparazione;
3) la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 2967 cod. civ. per difetto di prova del patema d’animo indennizzabile, che non poteva essere presunto nei riguardi di un ente;
4) l’omessa disamina dell’eccezione di prescrizione estintiva quinquennale del credito risarcitorio, decorrente dal momento iniziale del ritardo irragionevole, in corso di giudizio;
5) la violazione degli artt. 2934-2946 nel non rilevare che la L. n. 89 del 2001 non aveva natura speciale rispetto all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, salva la diversità della sede giurisdizionale in cui esercitare la tutela, con conseguente applicabilità del termine quinquennale di prescrizione;
6) (erroneamente numerata ancora col n. 5) la carenza di motivazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4, dato che il processo non era pendente, nè era stato definito con provvedimento decisorio, bensì solo abbandonato per inattività delle parti;
7) (erroneamente indicato con il n. 6) la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, non ricorrendo alcuna delle due ipotesi ivi previste per la proposizione della domanda di equa riparazione;
8) (erroneamente indicato con il n. 7) la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, dal momento che la materia del contendere nel processo presupposto era cessata alla data dell’accordo transattivo tra le parti: da cui cominciava a decorrere il termine semestrale di decadenza della domanda di equa riparazione;
9) (erroneamente indicato con il n. 8) la carenza di motivazione sull’omessa rilevazione dell’accordo transattivo, ai fini del decorso del termine di decadenza di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4;
10) (erroneamente indicato con il n. 6) la carenza di motivazione sull’omesso apprezzamento della composizione bonaria della lite, ai fini di limitare il ritardo irragionevole ed il conseguente danno non patrimoniale.
Resisteva con controricorso l’associazione Fireball, che eccepiva, in via pregiudiziale, la preclusione, per tardività, dell’impugnazione, proposta dopo la scadenza del termine lungo di cui all’art. 327 cod. proc. civ..
All’udienza del 23 ottobre 2009 il Procuratore generale precisava le conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Natura pregiudiziale riveste l’eccezione di inammissibilità, per tardività, del ricorso.
L’eccezione è infondata.
E’ jus receptum che tra i termini per i quali la L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1 prevede la sospensione del periodo feriale vanno ricompresi non solo quelli inerenti alle fasi successive all’introduzione del processo, ma anche il termine entro il quale il processo stesso deve essere instaurato, allorchè l’azione in giudizio rappresenti, per il titolare del diritto, l’unico rimedio per farlo valere: con la conseguenza che tale sospensione si applica anche al termine di sei mesi previsto dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4 per la proposizione della domanda di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo. A fortiori, deve ritenersi soggetta a sospensione anche la proposizione del ricorso per cassazione avverso il decreto della corte d’appello che abbia deciso sulla domanda medesima (Cass., sez. 1^ 11 marzo 2009, n. 5895;
Cass., sez. 1^, 19 gennaio 2005, n. 1094).
Ciò premesso, si osserva come il ricorso del Ministero della Giustizia sia stato notificato in data 25 giugno 2008: e dunque, l’ultimo giorno utile, prima della scadenza del termine lungo, ex art. 327 cod. proc. civ., decorrente dal 10 maggio 2007, data di pubblicazione del decreto della Corte d’appello di Roma. Il periodo di sospensione estiva dei termini ha infatti la durata di 46 giorni (dall’1 agosto al 15 settembre): tanti, appunto, quanti sono i giorni in più, rispetto all’anno previsto dalla norma citata, intercorsi, nella specie, tra la pubblicazione del decreto e la notifica del ricorso.
Con il primo motivo il Ministero deduce la nullità del decreto per omessa sottoscrizione del giudice relatore.
Il motivo è infondato.
In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, il provvedimento conclusivo è emesso nella forma di un decreto immediatamente esecutivo, impugnabile per cassazione (L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3, comma 6). Pertanto, nonostante la forma collegiale ed il contenuto decisorio, che lo rende sostanzialmente assimilabile ad una sentenza, esso richiede la sottoscrizione del solo presidente del collegio; senza necessità della contestuale firma del giudice relatore, in conformità con quanto disposto dall’art. 135 c.p.c., comma 4.
La regola della prevalenza della sostanza sulla forma vale, infatti, a esimere dal vizio di nullità provvedimenti il cui contenuto sostanziale sia diverso da quello apparente, a condizione che siano rispettati i requisiti legali di forma propri del tipo legale correttamente adottabile. In tal modo, l’erroneità del nomen juris, di ordinanza o di decreto in luogo di quella appropriata di sentenza, non inficia di nullità il provvedimento che, in concreto, sia stato sottoscritto anche dal relatore ( Cass., sez. 1, 13 dicembre 2001, n. 15.746; Cass., sez. 2, 29 agosto 1997, n. 8237).
Non è però vero il principio inverso: e cioè che un provvedimento che formalmente rispecchi la forma prescritta in subiecta materia sia egualmente nullo perchè mancante di un requisito richiesto, invece, da un diverso tipo legale, in ragione della maggiore affinità contenutistica con quest’ultimo ( Cass., sez. 1, 12 novembre 2002, n. 15.852).
Con gli ulteriori due motivi, da trattare congiuntamente data la sostanziale identità di contenuto, il Ministero censura la violazione di legge nel mancato rilievo della carenza di legittimazione attiva di un’associazione non riconosciuta nell’esercizio dell’azione di equa riparazione, nonchè del difetto di prova del patema d’animo subito, non presumibile in un ente morale.
Anche tali doglianze sono infondate.
In caso di violazione della ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, spetta anche alle persone giuridiche – e più in generale ai soggetti collettivi, tra cui le associazioni non riconosciute – l’indennizzo per i disagi e turbamenti di carattere psicologico che normalmente ne derivano alle persone preposte alla gestione, oltre che agli stessi membri dell’ente morale (Cass., sez. 1^, 2 febbraio 2007, n. 2246; Cass., sez. 1^, 18 febbraio 2005, n. 3396).
Con il quarto e quinto motivo il Ministero lamenta, sotto più profili, l’omessa disamina dell’eccezione di prescrizione quinquennale del credito risarcitorio.
Le doglianze sono infondate.
Punto di partenza delle argomentazioni difensive è il diniego del carattere unitario della fattispecie costitutiva del diritto all’equo riparazione (definita, per contro, dal ricorrente a formazione progressiva). Il fondamento positivo della ricostruzione interpretativa è ravvisato dal ricorrente nel potere d’agire del soggetto già in pendenza del processo presupposto (L. n. 89 del 2001, art. 4): cui verrebbe ad essere correlato il dies a quo del periodo di prescrizione, coevo al primo verificarsi del ritardo processuale, in base al principio generale di cui all’art. 2935 cod. civ..
In contrario si osserva come la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, si atteggi a norma speciale ed autosufficiente: come, già prima facie, rivelato non solo dalla sua collocazione toponomastica, ma anche e soprattutto dalla rubrica "Termini e condizioni di proponibilità", di portata letterale onnicomprensiva nel delineare i tempi dell’edictio actionis. Il dato letterale (primo elemento da scrutinare in sede ermeneutica: art. 12 disp. att. cod. civ., comma 1) non offre quindi appigli per il recupero, in forma di richiamo esplicito, della disciplina e del bagaglio concettuale propri della prescrizione.
Resta da saggiare la conclusione negativa di una disciplina ancipite, in subiecta materia, sotto il concorrente profilo teleologico dell’intenzione del legislatore.
Ma anche tale vaglio induce ad escludere qualsiasi evenienza estintiva del diritto anticipata rispetto all’ultimo (e normale) termine utile per la proposizione della domanda di sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento, è divenuta esecutiva.
Al riguardo, si deve rilevare, in sede dogmatica, rincompatibilità tra la decadenza e la prescrizione se riferite al medesimo atto – nella specie, processuale – da compiere.
La disciplina della decadenza – che è una novità del codice del 1942 – postula, al pari della prescrizione, una combinazione dell’inerzia soggettiva con l’elemento oggettivo del tempo; anche se, secondo un’autorevole dottrina (di cui si rinviene qualche eco in giurisprudenza: Cass., sez. 1^, 6 novembre 1976 n. 4043), sanziona l’inadempimento di un onere, piuttosto che di un obbligo, per l’esercizio di un diritto (di regola, potestativo), in base al principio di autoresponsabilità. Il termine decadenziale, in tesi generale, consiste in un punctum temporis da rispettare: fino a che non sia trascorso, neppure si può parlare d’inerzia soggettiva, perchè il tempo, che nella prescrizione viene in considerazione come durata, nella decadenza vale invece come distanza: diversità ontologica, rispecchiata dalla disciplina alternativa in materia di interruzione e sospensione (artt. 2941-2945 e 2964 cod. civ.), che vede ammissibile solo l’impedimento della decadenza una volta per sempre (art. 2966 cod. civ.). L’utilità euristica della distinzione si rivela altresì nel corollario logico che non è ipotizzabile – per la contraddizione che noi consente – che il soggetto sia, nel contempo, inerte e no, fino alla scadenza del termine di preclusione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4.
Tanto più la coesistenza appare eccentrica al sistema, in quanto la previsione di un termine come causa di decadenza o di prescrizione rientra, come generalmente riconosciuto in dottrina, in una scelta discrezionale del legislatore, immune da condizionamenti di logica giuridica (non senza ingenerare, talvolta, dubbi esegetici: cfr. art. 2393 c.c., comma 4); e, mentre la prescrizione costituisce causa generale di estinzione, in virtù dell’art. 2934 cod. civ., la decadenza è prevista in norme complementari all’interno di singole fattispecie, insuscettibili di interpretazione analogica (art. 14 preleggi).
Pertanto, anche dalla verifica della coerenza sistematica e concettuale si evince, in ultima analisi, l’inammissibilità del concorso simultaneo di termini di decadenza e di prescrizione correlati alla medesima attività richiesta.
Cosa diversa, naturalmente, è la possibile applicazione dei due istituti temporalmente sfalsata: ma solo nel senso che la prescrizione maturi una volta impedita la decadenza, e non viceversa (art. 2967 cod. civ.). Conferme del principio, nel panorama casistico giurisprudenziale, si riscontrano nella ritenuta applicazione della prescrizione decennale in tema di opposizione all’indennità di espropriazione in caso di mancato decorso del termine di decadenza per l’opposizione, L. 22 novembre 1971, n. 865, ex art. 19), causato dall’omesso deposito della relazione dell’apposita Commissione sulla misura definitiva dell’indennità. In questo caso, la decorrenza della prescrizione è appunto giustificata dal carattere alternativo, e non cumulativo, del termine di decadenza rispetto a quello prescrizionale ( Cass., sez. 1, 10 settembre 2004, n. 18.237; Cass., sez. 1, 8 maggio 2001 n. 6367; Cass., sez. 1, 20 dicembre 2000, n. 16.026).
Ancora a titolo analogico si può ricordare, sul formante giurisprudenziale, l’interpretazione della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79, comma 2 (cd. equo canone) e della L. 9 dicembre 1998, n. 431, affine art. 13, che sottopongono ad un termine di decadenza semestrale, decorrente dalla riconsegna dell’immobile, il diritto del conduttore ad ottenere il rimborso di quanto pagato in più del dovuto nel corso del rapporto locativo: interpretazione, che ricollega all’osservanza del termine di decadenza la ripetizione integrale di ogni eccedenza indebita, senza che ciò sia impedito dal decorso dei termini di prescrizione (Cass., sez. 3, 26 maggio 2004, n. 10.120).
Sottesa alle predette pronunce, pur nella diversità di materia, è il comune assunto – di buon senso, non meno che di diritto – che il riconoscimento legislativo della proponibilità dell’azione entro un termine di decadenza esclude la maturazione della prescrizione prima del prescritto dies ad quem: a pena d’irrilevanza – tamquam non esset – del termine stesso, pur solennemente enunciato con norma specifica ad hoc. In senso contrario, non si potrebbe addurre, esemplificativamente, la normativa in tema di garanzia da vizi redibitori prevista, in parte qua, negli artt. 1495 e 1667 cod. civ..
E’ agevole rilevare come le due cause di estinzione del diritto siano quivi ancorate a date e ad inattività diverse: per la decadenza, alla mancata denunzia dei vizi entro il termine legalmente previsto dalla scoperta (art. 1495 c.c., comma 1 e art. 1667 c.c., comma 2);
mentre, per la prescrizione, dalla consegna della cosa o dell’opera (art. 1495 c.c., comma 3 e art. 1667 c.c., comma 3). In tale contesto non collide, quindi, con l’alternatività dei due istituti, l’eventualità di una prescrizione maturata ancor prima del decorso del termine per la decadenza: come ad esempio, per un difetto scoperto e tempestivamente denunziato, ma oltre i termini, rispettivamente di uno o due anni, dalla consegna della cosa venduta o dell’opus realizzato.
Non senza aggiungere che appare visibilmente contrario alla ratio legis imporre l’onere di un’azione immediata, al primo maturarsi del ritardo irragionevole. Innanzitutto, per la difficoltà pratica di accertarne subito la datazione, tenuto conto che i termini ordinari (tre anni per il primo grado, due per l’appello, uno per il ricorso per cassazione, secondo i consolidati parametri giurisprudenziali) possono subire variazioni in rapporto alla specifica materia del contendere, alla complessità del caso o al comportamento delle parti: variabili tutte, meno agevolmente valutabili in uno stadio interinale, fuori di una visione d’insieme ex post. Per di più, l’incipiente ritardo potrebbe financo essere riassorbito, in prosieguo, per la necessità sopravvenuta di un ulteriore attività istruttoria che muti la valutazione in fieri, rendendo non più lesivo del principio di ragionevole durata l’effettivo iter processuale: eventualmente, per compensazione con la speditezza dei gradi successivi, ove si aderisca ad una concezione unitaria della durata ragionevole del processo (Cass., sez. 1^, 29 dicembre 2005 n. 28864; Cass., sez. 1^ 7 aprile 2004, n. 6856; Cass., sez. 1^, 27 agosto 2003 n. 12541).
Oltre a ciò, postulare l’operatività della prescrizione in corso di causa presupposta imporrebbe, fatalmente, il frazionamento della pretesa indennitaria: destinata alla rinnovazione in ipotesi di un ritardo più che decennale. Tanto più, se si acceda al principio di cristallizzazione dell’an e del quantum al momento della domanda di equa riparazione; con conseguente esclusione, dall’indennizzo, dell’ulteriore danno maturato fino alla decisione.
Siffatta inevitabile proliferazione di iniziative, per segmenti temporali, intesa non come facoltà rimessa alla discrezionalità potestativa della parte, bensì come onere in prevenzione della perdita del diritto per prescrizione, oltre ad essere contraria al generale principio di economia processuale – e, al limite, integrare perfino un abuso del processo (Cass. sez. un. 15 novembre 2007, n. 23726; Cass., sez. 3, 11 giugno 2008, n. 15476) – avrebbe l’ulteriore effetto paradossale di indurre la parte alla nimia diligentia di agire quando ancora il ritardo sia pressochè trascurabile; e dia quindi luogo, plausibilmente, ad un indennizzo nummo uno, se non addirittura al rigetto della domanda per l’estrema modestia del pregiudizio.
La suesposta ricostruzione sistematica è del resto conforme alla disciplina della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 35 (Condizioni di ricevibilità), primo comma, contempla unicamente l’identico termine semestrale di decadenza per la proposizione dell’azione ("La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qua è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva").
E’ vero che non è contestualmente prevista la possibilità di agire prima che sia sopravvenuta la decisione definitiva nel giudizio presupposto; ma, nel consentire tale facoltà l’ordinamento italiano, ha ampliato il diritto di azione del soggetto leso dal ritardo irragionevole – anticipandone il possibile esercizio ad una fase intermedia del processo presupposto – e non certo aggravato l’obbligo di diligenza: come rivelato dall’inequivoca congiunzione disgiuntiva "ovvero" contenuta nell’art. 4 cit., lessicalmente sintomatica di una scelta potestativa tra due opzioni, senza reciproco condizionamento.
Anche la norma transitoria di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 6, nel consentire entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (prorogato poi al 18 aprile 2002 dal D.L. 12 ottobre 2001, n. 370) la prosecuzione dinanzi al giudice italiano dei processi di equa riparazione promossi davanti alla Corte europea e non ancora dichiarati ricevibili, ha posto l’unico requisito temporale della tempestività dei ricorsi originari (e cioè del rispetto del solo termine, di natura decadenziale, previsto dal citato art. 35 della Convenzione): in tal modo, implicitamente escludendo che la prescrizione, non prevista dalla normativa europea, potesse invece acquisire efficacia estintiva dopo la translatio iudicii. Esclusione, del resto consentanea con il carattere derivato, seppur non ancillare, della tutela introdotta con la cd. legge Pinto, espressamente ancorata, ex art. 2, comma 1, ai presupposti della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ed alla giurisprudenza interpretativa della Corte di Strasburgo).
Entro questa cornice dogmatica, la pur condivisibile qualificazione meramente processuale della L. n. 89 del 2001, che ha solo assicurato la concreta tutela del preesistente diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. sez. unite 26 gennaio 2004, nn. 1339-1341), concorre ad escludere l’ibridazione del modello europeo tramite l’ingresso, ex novo, di una causa estintiva diversa dalla decadenza.
E’ dunque infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero della Giustizia con i motivi in esame.
Con il sesto e settimo motivo, da esaminare congiuntamente per attività di contenuto, si deduce la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, non ricorrendo alcuna delle due ipotesi ivi previste per la proposizione della domanda di equa riparazione, dal momento che la materia del contendere nel processo presupposto era cessata alla data dell’accordo transattivo tra le parti.
Anche queste censure sono infondate.
E’ irrilevante la natura del provvedimento conclusivo dell’iter processuale, dovendosi attribuire all’indicazione al riguardo contenuta nella L. n. 89 del 2001, art. 4, valore esemplificativo delle ipotesi ordinarie, secondo l’id quod plerumque accidit, e non certo tassativo. La ratio della norma non è infatti quella di escludere l’equa riparazione in processi oggettivamente protrattisi oltre il termine ragionevole sol perchè conclusisi con provvedimenti aventi mera natura processuale: come nel caso di cancellazione della causa dal ruolo, abbandonata dalle parti a seguito di bonaria composizione.
Con l’ottavo motivo il Ministero della Giustizia si duole della falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, dal momento che la materia del contendere nel processo presupposto sarebbe cessata alla data dell’accordo transattivo tra le parti; che avrebbe altresì segnato l’inizio del termine semestrale di decadenza dell’azione.
Il motivo è infondato.
Il termine per la proposizione della domanda di equa riparazione decorre dalla data del provvedimento conclusivo del processo: a nulla rilevando eventi ad esso estranei, quale la stipulazione di un atto di transazione, neppure consacrato in udienza in forma di conciliazione in senso tecnico (art. 185 cod. proc. civ.) e che resta dunque estraneo all’ambito del giudizio ed improduttivo di effetti limitativi sotto il profilo indennitario.
Non senza aggiungere, in tesi generale, che l’aliquid datum, aliquid retentum in cui si sostanzia la transazione ben potrebbe risentire, in senso sfavorevole per la parte ricorrente, proprio dell’eccessiva lentezza del processo in corso.
Il nono motivo ed il decimo, riguardanti la carenza di motivazione sull’omessa rilevazione dell’accordo transattivo a fini riduttivi del ritardo accertato è assorbito dalla precedente statuizione.
Il ricorso è dunque infondato e va respinto; con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni svolte.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna il Ministero della Giustizia alla rifusione delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 1.100,00, di cui Euro 1.000,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2009