La Corte d’appello di Roma, con il decreto di cui in epigrafe, ha dichiarato inammissibile la domanda di G.E. del 19 febbraio 2005 nei confronti del Ministero della Giustizia per ottenere l’equa riparazione da violazione del suo diritto di cui all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo alla ragionevole durata del processo, iniziato da lei con ricorso del 7 luglio 1994 al Pretore del lavoro di Torre Annunziata nei confronti dell’I.N.P.S., per il riconoscimento di interessi e rivalutazione dovuti dall’Istituto sulla pensione di assistenza e l’assegno di accompagnamento alla disabile Gu.Er. della quale la istante era tutrice, per Euro 1.402,21, parzialmente riconosciuti nel gennaio 1996 dal giudice adito con decisione impugnata al Tribunale di Napoli, che solo con sentenza del 13 marzo 2000 aveva accolto il suo appello.
Poichè tale sentenza aveva concluso il processo presupposto divenendo esecutiva il 13 marzo 2001 (rectius il 26 aprile 2001) il ricorso per l’equa riparazione del febbraio 2005 doveva dichiararsi inammissibile, perchè proposto oltre il termine di decadenza di sei mesi dal momento in cui era divenuta definitiva ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4 e comunque la durata complessiva di cinque anni e otto mesi del procedimento (tre anni per il primo grado e due anni per quello d’appello) doveva considerarsi adeguata, anche in rapporto alla complessità del concreto procedimento.
Nessun rilievo la Corte adita aveva dato alla procedura di pignoramento presso il terzo intrapresa dalla G. e conclusa con ordinanza di assegnazione del 24 gennaio 2005 del giudice dell’esecuzione del Tribunale di Napoli, sezione 5^ bis (proc. n. R.G. 20516/04) per il computo del termine di proponibilità della domanda di equa riparazione, ritenendo di non poter tenere conto "del tempo occorso per la soddisfazione in sede esecutiva" ma solo "di quello del giudizio ordinario" chiuso nel 2001, con conseguente inammissibilità della domanda.
Per la cassazione di tale decreto del 28 novembre 2005, la G. ha proposto ricorso di quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., notificato il 18 dicembre 2006 e il Ministero della giustizia si è difeso con controricorso notificato il 19 gennaio 2007.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. Il primo motivo di ricorso della G. deduce violazione del rapporto tra normativa nazionale e sovranazionale nella applicazione degli artt. 6 e 41 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848 (da ora C.E.D.U.), affermando che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ai fini della determinazione della durata ragionevole del processo, è necessario accertare quando il diritto azionato ha trovato effettiva soddisfazione.
1.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4 e la disapplicazione dai giudici di merito dell’art. 35 della C.E.D.U., perchè il decreto impugnato contrasta nell’interpretazione del concetto di "decisione interna definitiva" elaborata dalla Corte internazionale, come evincibile dalle sentenze De Pede contro Italia del 26 settembre 1996 e Scollo c. Italia del 28 settembre 1995, per le quali, in tale concetto, va compreso, con il giudizio di cognizione quello di esecuzione e non si può prescindere dalla effettiva realizzazione del diritto azionato, che nel caso non è stato soddisfatto se non nel gennaio 2005 con conseguente proponibilità del ricorso di equa riparazione del febbraio dello stesso anno.
1.3. Lamenta in secondo luogo la G. la contraddittorietà della motivazione del decreto che, pur avendo dichiarato inammissibile la domanda di equa riparazione, ne ha poi esaminato il merito ritenendola infondata, per essere congrua la durata del processo in contrasto con l’art. 132 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 5.
1.4. Il quarto motivo di ricorso deduce violazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 6, dalla Corte d’appello di Roma, discostatasi anche dai principi elaborati in sede sovranazionale in materia di tempi ragionevoli dei processi previdenziali e assistenziali.
Il Ministero della Giustizia con il controricorso ha chiesto il rigetto della impugnazione.
1.5. Su tale ricorso, la prima sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 13845 del 12 giugno 2009, ha rilevato "che il profilo della cumulabilità o meno – ai fini dell’applicazione della L. n. 89 del 2001, e della individuazione della definitività della decisione e del conseguente momento di decorrenza del termine semestrale di decadenza previsto dall’art. 4 – della fase del giudizio di esecuzione con quella del giudizio di cognizione, già fatto oggetto di divergenti pronunce settoriali, rappresenta questione di particolare rilevanza, investendo la ricostruzione e l’inquadramento della stessa nozione di procedimento alla luce del fondamentale dovere dello Stato di assicurare la giusta durata del processo ed ha ricadute di più ampio e generale respiro" ed ha quindi disposto la rimessione al Primo presidente del ricorso, che è stato assegnato a queste Sezioni unite, ritenendo che lo stesso presenti una questione di massima di particolare importanza ai sensi dell’art. 374 c.p.c..
2.1. Il ricorso della G. si fonda, nei primi due motivi, sulla censura della rilevata inammissibilità della domanda di equa riparazione in base alla considerazione autonoma del processo di cognizione di quello d’esecuzione, denunciando la pretesa disapplicazione dai giudici del merito dei principi ermeneutici enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, giudice naturale della C.E.D.U. cui devono uniformarsi i giudici nazionali nel dare applicazione al rimedio interno attuativo dell’accordo internazionale, come esattamente rilevato da queste S.U. nelle sentenze 26 gennaio 2004 n. 1338, 1339 e 1340.
Non è però condivisibile quanto afferma la ricorrente in ordine al fatto che questa Corte avrebbe già affermato la esigenza di una valutazione unitaria del processo di cognizione e dei procedimenti di esecuzione con la sentenza 22 ottobre 2002 n. 14885, che invece riconosce il diritto alla ragionevole durata del "procedimento di esecuzione forzata di un provvedimento di rilascio d’immobile adibito ad uso di abitazione", riconoscendo che, nello stesso, la soddisfazione del diritto azionato costituisce il momento conclusivo da cui far decorrere il termine per l’azione, dovendosi per esso riconoscere che "l’espressione decisione definitiva non coincide con quella di sentenza passata in giudicato, ma indica il momento in cui il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione,che coincide nel caso con la consegna del bene all’avente diritto" (nel senso indicato nel ricorso cfr. pure Cass. 18 aprile 2005 n. 7978 e ord. 20 ottobre 2008 n. 25511, entrambe relative al solo processo di ottemperanza dopo il processo amministrativo di cognizione).
Deve rilevarsi che, con la sentenza 30 novembre 2006 n. 25529, questa Corte ha enunciato il seguente principio di diritto, certamente in contrasto con quanto dedotto nel ricorso della G.: "In tema di violazione della ragionevole durata del processo ai sensi della L. n. 89 del 2001, il processo di cognizione e quello successivo di esecuzione forzata sono diversi e autonomi, per cui è in relazione a ciascuno di essi che va computato l’eventuale periodo di irragionevole protrazione, senza possibilità di sommatoria, a tal fine, dei tempi occorrenti per la definizione dell’uno e dell’altro.
Ne deriva ulteriormente, che all’interno di ciascuno di essi devono essere individuati l’atto conclusivo e, con esso, il momento di assunzione della correlativa definitività, al quale l’art. 4 della citata Legge collega il dies a quo di decorrenza del termine semestrale per la proposizione della domanda di equa riparazione. E’ pertanto da escludere che il suddetto termine, pur dopo la definitività, per consolidazione del giudicato, della decisione che conclude il giudizio di cognizione della cui irragionevole durata ci si dolga, resti inoperante ed inizi a decorrere solo dal successivo primo atto satisfattivo adottato dal giudice dell’esecuzione".
Tale principio nella giurisprudenza interna, sostanzialmente connesso a quanto sostenuto in tutte le precedenti pronunce di legittimità sul tema, non ha trovato deroga in quella successiva.
2.2. Non può ritenersi corretto neppure quanto afferma la G. ì in ordine al fatto che la Corte di Strasburgo, nell’interpretare la C.E.D.U. avrebbe elaborato un concetto di "giusto processo", nel quale devono necessariamente considerarsi unitari o come due fasi del "medesimo" processo (L. n. 89 del 2001, art. 4) sui "diritti e obblighi di natura civile", (art. 6 Conv.), il giudizio di cognizione e quello solo eventuale di esecuzione, per considerare unica la loro complessiva durata con la conseguente ammissibilità della domanda di equa riparazione proposta in pendenza del giudizio esecutivo ovvero entro sei mesi dal primo atto satisfattivo adottato dal giudice dell’esecuzione da qualificare come decisione che conclude il procedimento, ai sensi dell’art. 4 citato ovvero come "decisione interna definitiva" di cui all’art. 35 della Convenzione. Ove si fosse consolidato un siffatto principio ermeneutico in sede sovranazionale, per il necessario conformarsi della giurisprudenza agli obblighi internazionali, cui sono vincolati il legislatore (art. 117 Cost.) e ogni giudice degli Stati aderenti, questa Corte avrebbe dovuto solo attenersi al diritto vivente, come elaborato dai giudici sovranazionali (così le citate S.U. n. 1338, 1339 del 2004); tale ultimo principio non si applica solo qualora il diritto giurisprudenziale sovranazionale contrasti con principi o norme della Costituzione (C. Cost. 27 ottobre 2007 n. 247 e 248).
Nessuna necessità vi è di qualificare come unico processo i due procedimenti, cognitorio e di esecuzione, nel caso esistiti e posti a base della domanda di equa riparazione, fondata sulla durata complessiva di essi, perchè la Corte europea non ha in realtà mai enunciato quanto dedotto in ricorso.
Invero, il principio di effettività di cui all’art. 13 della Convenzione, che impone agli Stati aderenti di prevedere rimedi interni per garantire il ripristino dei diritti violati riconosciuti in essa, con azioni giurisdizionali indennitarie davanti ai giudici nazionali, la cui durata va computata dalla data della domanda fino all’adempimento di quanto disposto dall’adito giudice, principio valido anche quando la violazione di detti diritti sia commessa "da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali" (così la norma ora citata), non comporta la necessaria considerazione non separata di ogni processo cognitorio con quello successivo di esecuzione.
La Corte sovranazionale, in ordine a ricorsi nei quali è stata adita da cittadini degli Stati contraenti che hanno lamentato la non effettività dei rimedi interni di cui sopra, per il ritardo o la mancanza del tempestivo ripristino per equivalente dei diritti riconosciuti dalla Convenzione e violati, considera insieme i tempi del processo di cognizione che decide la controversia sul diritto alla riparazione che si svolge dinanzi alla Corte d’appello e di quello successivo di esecuzione o di ottemperanza determinato dall’inadempimento della P.A. tenuta a pagare l’indennizzo, concluso con il pagamento almeno parziale di questo come determinato in sede cognitiva, da considerare dies a quo del termine decadenziale per iniziare l’azione da violazione dei diritti di cui alle norme sovranazionali (cfr. C.E.D.U. Grande Chambre 31 marzo 2009, Smaldone c. Italie req. n. 22644/03, Scordino c. Italie, 29 marzo 2006, req.
36813/97 – esaminato con altri 9 ricorsi, in rapporto al rimedio interno di cui alla L. n. 89 del 2001, il nostro paese e per altri Stati, cfr. Burdov c. Russia, 7 maggio 2002, req. n. 59498/95, per l’azione indennitaria di vittime di un grave disastro nucleare).
Le sentenze citate della Corte sovranazionale, con altre in esse richiamate, affermano che, per il principio di effettività, l’esecuzione della sentenza deve essere considerata parte integrante del processo "affinchè la lentezza eccessiva del ricorso indennitario non ne comprometta il carattere adeguato", (sentenza Scordino cit., & 195), con palese considerazione dei giudizi interni di ripristino dei danni da lesione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione; il principio è quindi privo di rilievo generale, tanto che, nella seconda parte della sentenza Smaldone c. Italia, si afferma che il ritardo nella soddisfazione della "vittima" di un processo di equa riparazione per il tempo irragionevole di durata lede pure il diritto "al rispetto dei beni", in ragione del danaro che gli spetterebbe, di sua proprietà, diritto quest’ultimo tutelato dall’art. 1, comma 1, del primo protocollo addizionale della Convenzione.
La esigenza prescritta normativamente, della c.d. effettività del rimedio interno predisposto per la reintegrazione per equivalente delle violazioni dei diritti di cui alla Convenzione anche ai sensi dell’art. 35 di questa, comporta il rispetto della esigenza di effettività di cui all’art. 13, norma comunque relativa solo a tale tipo di azioni volte a reintegrare le vittime delle violazioni dei diritti riconosciuti da norme convenzionali, ma che non esprime un principio generale per il quale debba ritenersi, sempre e in ogni vicenda processuale, unico il tempo del processo di cognizione e di quello eventuale del giudizio di esecuzione o di ottemperanza, ad ogni fine, in rapporto all’applicazione delle dette norme.
Il diritto dell’art. 6 della Convenzione è riconosciuto alle vittime della violazione di esso, anche in caso di esito negativo del processo presupposto e di rigetto della domanda introduttiva, allorchè quindi non vi è alcunchè da adempiere e manca un qualsiasi processo di esecuzione o di ottemperanza, per cui il giudizio deve esaurirsi necessariamente con la decisione di rigetto in sede cognitoria, divenuta definitiva.
Se la diversità oggettiva di tale processo con esito negativo per il ricorrente, rispetto a quello in cui la domanda è accolta ai fini del computo della durata di esso, potrebbe giustificare in astratto il complessivo calcolo dei tempi nei due casi, la stessa non può invece rendere coerente al sistema lo spostamento del momento di definitività della decisione del processo cognitorio, che invece coincide con la immodificabilità della pronuncia che lo conclude ai sensi dell’art. 324 c.p.c., per la formazione del c.d. giudicato formale, da cui decorre il termine semestrale di decadenza per proporre il ricorso di equo indennizzo (Cass., ord. 30 ottobre 2008 n. 25510, Cass. 23 novembre 2007 n. 24440, 30 novembre 2006 n. 25529, 29 settembre 2004 n. 19526, tra altre).
2.3. Non vi sono dunque principi vincolanti enunciati dalla giurisprudenza internazionale sulla questione della considerazione unitaria o separata dei due processi, di cognizione ed esecuzione, ai fini del computo della durata e della data della c.d. decisione definitiva, da cui far decorrere il termine per l’azione di equa riparazione la quale, se si sommano le durate dei due processi, potrebbe ammettersi sempre in pendenza dei procedimenti per l’esecuzione o l’ottemperanza, pure oltre il termine di legge dalla definitività della pronuncia emessa in sede cognitoria.
Occorre allora procedere ad un esame diretto del dato normativo sovranazionale, per rilevare se da esso emerga una nozione di "processo", cui hanno diritto i cittadini degli Stati aderenti alla Convenzione, vincolante pure per il diritto interno e che comporti comunque una considerazione complessiva o unitaria dei due indicati procedimenti giurisdizionali ovvero consenta di tenere distinti gli stessi; a tale nozione devono conformarsi i singoli ordinamenti degli Stati convenzionati e i giudici operanti in Italia, se non in contrasto con la Costituzione.
2.3. Per l’art. 6 della Convenzione, costituisce "processo" quello che si svolge "davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge" (interna agli Stati aderenti), perchè in esso si decida "in ordine alla controversia sui diritti e obblighi di natura civile…", cioè di carattere patrimoniale; l’accertamento, positivo o negativo, delle situazioni soggettive controverse comporta, con la certezza della loro esistenza o inesistenza, la conclusione del processo di cognizione e della inerente ansia da esito dello stesso che, per l’eccessiva durata, da luogo ad una presunzione di danno non patrimoniale delle parti, da indennizzare per violazione del diritto riconosciuto dalle norme convenzionali.
Per quanto già detto sui vincoli derivanti dagli accordi internazionali cui l’Italia ha aderito, rilevanti se non siano in contrasto con la Costituzione della Repubblica, occorre rilevare che, agli artt. 24, 103 e 113 la carta fondamentale espressamente identifica gli "interessi legittimi", come situazioni soggettive di rilievo patrimoniale, la cui tutela "nei confronti della pubblica amministrazione", è riservata ai giudici amministrativi i quali, in alcune materie individuate dal legislatore ordinario, possono conoscere anche di diritti soggettivi (cfr. art. 103 Cost. e D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7).
Pertanto quando il tribunale adito è chiamato a decidere su interessi legittimi controversi nei confronti della P.A. si ha il processo di cognizione riservato ai giudici amministrativi e anche esso soggetto all’art. 6 della Convenzione (così Cass. ord. 24 gennaio 2008 n. 1520, 24 aprile 2003 n. 6519, tra altre e C.E.D.U., Salesi c. Italie 26 febbraio 1993, req. 13023/87): Nel processo amministrativo cognitorio, la posizione di chi agisce si configura come tutelabile in rapporto all’esercizio legittimo dei poteri autoritativi che su essa hanno inciso per realizzare interessi pubblici.
Controversa nel processo amministrativo di cognizione è la situazione soggettiva costituita dagli interessi legittimi di chi agisce e la conseguente legittimità degli atti e delle condotte della P.A., dovendosi accertare se con essi si siano lesi, con la violazione delle norme di azione predisposte dal legislatore a carico dell’amministrazione stessa, le esistenti posizioni di utilità o vantaggio di chi agisce come titolare di interessi legittimi oppositivi, ovvero si sia arrecato danno con il diniego o il ritardo dei provvedimenti, chiesti da colui che è legittimato a ottenerli perchè titolare di interessi legittimi pretensivi, la cui esistenza rende i rifiuti o le omissioni dell’amministrazione contrastanti con la legge e gli interessi pubblici cui essa è vincolata.
Per la Convenzione sovranazionale gli interessi legittimi controversi su cui il giudice amministrativo decide, identificano il "processo" amministrativo di cognizione, di cui deve determinarsi la durata ragionevole analogamente a quanto accade per quello davanti al giudice ordinario, in cui il procedimento giurisdizionale è identificato invece dal diritto e dall’obbligo oggetto di controversia ai sensi dell’art. 6 della Convenzione. In entrambi i casi l’adito giudice è chiamato ad accertare la posizione soggettiva controversa, ma la natura di questa incide sulla struttura del procedimento, con la conseguenza che, di regola, a differenza di quanto accade nel processo di cognizione di cui al vigente codice di rito, la decisione che chiude il processo amministrativo cognitorio determina solo genericamente il tipo di condotta o di atti che la P.A. deve adottare, per esercitare legittimamente gli stessi poteri, di cui si è riconosciuto l’esercizio abusivo, a tutela della posizione soggettiva del ricorrente, con l’annullamento degli atti in cui l’abuso s’era evidenziato.
2.3. Afferma l’art. 6 della Convenzione che con il processo il tribunale adito "decide" sulle situazioni soggettive controverse:
ciò può accadere in senso positivo o negativo per l’istante e può affermarsi che, nel diritto interno, la decisione del processo cognitorio secondo il codice di rito, è di regola la "sentenza" che, quando accoglie la domanda, costituisce pure "il titolo esecutivo", da cui sorge il "diritto a procedere ad esecuzione forzata" (art. 474 c.p.c., n. 1 e art. 615 c.p.c.), per ottenere l’adempimento dell’obbligo del soccombente di adempiere la decisione esecutiva emessa nel pregresso processo cognitorio, la quale, quando non è più impugnabile o modificabile, costituisce giudicato formale e rende certa definitivamente la esistenza delle situazioni controverse a base dell’azione in cognizione.
Nel processo amministrativo, di regola impugnatorio di un atto della P.A., l’accertamento positivo sull’esistenza dell’interesse legittimo e l’annullamento dell’atto impugnato, violativo degli interessi pretensivi o lesivo della posizione di vantaggio a base di quelli oppositivi, integra l’effetto demolitorio della pronuncia giurisdizionale sugli atti della P.A., cui può aggiungersi anche quello ripristinatorio, per il quale l’amministrazione deve a volte emettere un nuovo atto legittimo in sostituzione di quello annullato.
Non è dubitabile la diversità delle situazioni giuridiche controverse non solo nei processi di cognizione (sia quello ordinario che quello amministrativo), ma anche nei processi di esecuzione o di ottemperanza, entrambi fondati sul diritto sorto per effetto del giudicato della decisione esecutiva di accoglimento della domanda e da considerare comunque distinto e diverso dalle situazioni soggettive azionate e da accertare, cioè controverse, oggetto del processo in sede cognitoria.
In caso di mancata attuazione spontanea di quanto disposto dal giudicato da parte di qualsiasi soggetto ad esso vincolato, i diritti alla esecuzione o all’ottemperanza sorti per la parte vincitrice, legittimano quest’ultima a ottenere la soddisfazione concreta della posizione soggettiva controversa e per questo dubbia, divenuta certa con la pronuncia che conclude il processo che l’ha accertata.
In conclusione, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione sovranazionale richiamata, ogni processo s’identifica per la situazione soggettiva controversa, su cui il giudice adito decide, sia essa qualificabile come diritto, obbligo o interesse legittimo; dette distinte posizioni soggettive comportano strumenti di tutela giurisdizionale diversi, ciascuno autonomo dagli altri, da cui nascono processi separati regolati per legge, che non possono considerarsi unitariamente, anche se decidono controversie tra loro connesse, ai fini dell’equo indennizzo per la ragionevole durata di ciascuno di essi (cfr. ad es.
sull’autonomia dei giudizi sull’ari e sul quantum, Cass. 7 luglio 2008 n. 18603, o su quella delle azioni risarcitorie esercitate in sede penale e civile, Cass. 16 maggio 2006 n. 11493).
L’inadempimento del comando del giudice alla cui attuazione il soggetto che ha agito ha un diritto diverso e distinto dalla posizione soggettiva originariamente azionata e successivamente accertata nel processo cognitivo, costituisce chiara soluzione di continuità tra processo di cognizione, che tende a far cessare la controversia su detta posizione originaria e il processo di esecuzione forzata, che al precedente giudizio non necessariamente segue, la cui durata va considerata autonoma ai fini della ragionevolezza, perchè destinato a decidere sul diritto all’esecuzione forzata di sentenze del giudice ordinario diverso da quello con queste accertato ( Cass. 4 aprile 2003 n. 5265, 26 luglio 2002 n. 11046, tra altre).
Tale distinzione dei processi che si è negata in rapporto a singoli atti, come la procura, atto che può anche essere unico nei due processi di cognizione e di esecuzione ( Cass. 29 settembre 2009 n. 20827 e 14 dicembre 2007 n. 26296), sussiste, certamente sul piano funzionale, essendo certa la diversità della posizione soggettiva accertata nella sentenza costituente il titolo esecutivo rispetto al diritto all’esecuzione, che nasce dalla stessa pronuncia divenuta titolo esecutivo e non necessariamente coincide con il diritto azionato.
Per tale iato tra il riconoscimento del diritto controverso e il solo eventuale inadempimento dei conseguenti obblighi di chi deve osservare il comando del giudice, s’è affermata l’autonomia e la separatezza del processo di esecuzione da quello di cognizione del codice di rito.
3.1. La Cass. citata n. 22529 del 2006 afferma che il processo di cognizione e quello di esecuzione di cui al codice di rito devono "considerarsi autonomi, soddisfacendo situazioni giuridiche diverse e distinte ai fini dell’equa riparazione da irragionevole durata".
La succinta motivazione della sentenza che precede, preceduta e seguita da altre pronunce sostanzialmente nello stesso senso, si rapporta alla chiara distinzione tra titolo esecutivo "per un diritto certo, liquido ed esigibile" (art. 474 c.p.c.), che è a base del processo di esecuzione e la decisione sulla situazione giuridica azionata sede di cognizione, che dota il diritto stesso di certezza con l’accoglimento della domanda.
L’autonomia dell’accertamento a base della sentenza costituente titolo esecutivo, rispetto a quello sui diritti che da tale titolo derivano, comporta che non v’è di massima pregiudizialità dell’accertamento del credito in sede cognitoria, rispetto alla procedura esecutiva che può proseguire, anche se l’accertamento sia tuttora in corso in rapporto a provvedimenti esecutivi ma non definitivi, cui debba darsi attuazione ( Cass. 13 giugno 2008 n. 15909, 5 agosto 2005 n. 16601, 23 aprile 2003 n. 6448, e 24 maggio 2002 n. 7631).
Alla differenza funzionale tra i due tipi di giudizio dinanzi al G.O. e alla loro corretta autonoma valutazione, fondata sulla diversità dei beni della vita di cui è chiesta la tutela in sede giurisdizionale ai sensi del richiamato art. 6 della Convenzione, corrisponde nel diritto interno anche quella strutturale, ben evidenziata nella sentenza n. 1732 del 23 gennaio 2009, relativa al processo di ottemperanza, ma che rivisita quest’ultimo in rapporto a quello di esecuzione.
Agli elementi indicati nella decisione che precede, possono aggiungersi altre differenze strutturali tra processo di cognizione del secondo libro del codice di rito (artt. 163 e 473 c.p.c.) e quello di esecuzione del libro successivo dello stesso codice (art. 474 e 632 c.p.c.).
Il primo di detti processi inizia con una domanda di tutela della situazione soggettiva controversa e da accertare, si articola poi in più fasi, istruttoria e decisoria (art. 175 e 322 c.p.c.) e a volte in gradi (art. 323 e ss.), potendosi, in genere nella fase iniziale di esso, aversi procedimenti incidentali cautelari (art. 669 bis c.p.c., e segg.); esso si conclude di regola con una sentenza che diviene immodificabile e definitiva, se non impugnata da nessun soggetto legittimato nei termini di legge, e passa in giudicato.
Il processo di esecuzione di cui sopra è invece preceduto dalla notifica del titolo esecutivo (nel caso sentenze o provvedimenti aventi per legge efficacia esecutiva, come chiarisce il n. 1, dell’art. 474) e del precetto, consistente nell’intimazione ad adempiere (artt. 479 e 480 c.p.c.), e si articola in una serie di procedimenti normativamente tipizzati, che si svolgono sotto la direzione del giudice dell’esecuzione il quale si pronuncia su eventuali incidenti che sorgano, risolvendoli con ordinanza (per l’espropriazione forzata cfr. art. 484), per chiudersi solo con l’attività materiale o giuridica satisfattoria delle situazioni soggettive riconosciute come certe e definitive nel titolo esecutivo, salvo casi eccezionali di alcuni procedimenti incidentali cognitori, come quelli di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c., in cui possono aversi anche sentenze.
3.2. In conformità a quanto rilevato sulla incontestata autonomia del processo di esecuzione rispetto a quello di cognizione dinanzi al giudice ordinario, si fonda la analoga configurazione autonoma dei due processi cognitivo e di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo, di cui a più sentenze del 2009 (con Cass. n. 1732 del 2009 cit., cfr. Cass. 28 gennaio 2009 n. 2186, 20 febbraio 2009 n. 4190 e 12 marzo 2009 n. 5981).
Per tali pronunce infatti: "In tema di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole di durata del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, il giudizio di ottemperanza, instaurato successivamente a quello di cognizione svoltosi davanti al giudice amministrativo, sebbene realizzi lo scopo di dare piena ed effettiva soddisfazione al medesimo interesse sostanziale riconosciuto dalla sentenza da adempiere, non costituisce una fase di un unico iter procedimentale, svoltosi senza soluzione di continuità; pertanto, anche nell’ipotesi in cui sia stato esperito tale strumento di tutela, ai fini della proponibilità della domanda della L. n. 89 del 2001, ex artt. 2 e 4 e art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il dies a quo coincide con il momento in cui è divenuta definitiva la sentenza che ha concluso il procedimento di cognizione".
Invero, il processo di ottemperanza ha il fine di dare attuazione alle posizioni soggettive azionate originariamente, che, per la loro natura di interessi legittimi, possono ricevere tutela solo se con l’attuazione di essa, non si violino gli interessi pubblici che la P.A. deve perseguire, a cui il giudice amministrativo del processo da rilievo per poter individuare modalità legittime di esecuzione della sentenza cognitoria.
Proprio in rapporto al carattere eventualmente determinativo e integrativo del contenuto del giudicato da ottemperare, che in vari casi rende necessaria l’esplicitazione, definizione e il completamento della regula iuris affermata in sede cognitiva, le citate pronunce n. 7978 del 2005 e n. 25511 del 2008, hanno ritenuto necessaria una considerazione unitaria dei due processi, per la sostanziale uniformità della loro struttura, dal ricorso introduttivo, attraverso il processo cognitorio, fino alla decisione dell’ottemperanza che costituisce anche essa una sentenza, integrativa e completante quella del precedente giudizio, che in tal modo perde ogni rilievo come atto conclusivo del procedimento al fine di determinarne la durata e costituire il termine iniziale del semestre di decadenza di cui all’art. 4 della Legge Pinto, per il principio d’effettività.
I provvedimenti da ultimi citati affermano però anche una deroga al principio enunciato, riconoscendo l’autonomia dei due processi allorchè le decisioni in sede di ottemperanza non comportino una mera attività materiale per la soddisfazione della posizione originariamente azionata, come ad esempio ove impongano un pagamento, quale si ha anche nell’azione di equa riparazione oggetto di questa causa, ma incidano invece sulla validità di atti della P.A., impugnati con il ricorso in ottemperanza.
Tale deroga al principio enunciato rafforza la opposta tesi favorevole alla distinzione tra i giudizi, anche perchè i provvedimenti adottati dalla P.A. al fine di eludere o impedire l’esecuzione del giudicato sono nulli per carenza di potere della autorità che li ha emessi, ai sensi della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21 septies, introdotto dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 14, comma 1, che ha normativizzato un indirizzo giurisprudenziale già affermato su tale questione, per cui la decisione del giudice dell’ottemperanza su di essi sarebbe solo dichiarativa di una invalidità prevista per legge.
Peraltro la natura, di regola impugnatoria, del processo dinanzi al giudice amministrativo di cognizione la cui decisione incide su un atto della P.A., ma non sempre estende immediatamente i suoi effetti ai rapporti del ricorrente con l’amministrazione, che debba reintegrare, per equivalente o in forma specifica, il danneggiato dei beni della vita lesi in rapporto ai quali lo Stesso ha potuto agire in via cognitoria, fa rilevare l’esistenza d’un diritto alla ottemperanza, cui è legittimato il privato vincitore in sede cognitiva, analogo a quello alla esecuzione forzata, dalla cui violazione deriva la legittimazione a domandare, con il risarcimento in forma specifica, pure la dichiarazione di caducazione degli effetti dei contratti stipulati nelle more dell’annullamento della gara per la scelta del contraente in sede di cognizione, su cui di regola avrebbe invece giurisdizione il solo giudice ordinario (cfr.
S.U. ord. 13 marzo 2009 n. 6068 e 7 novembre 2008 n. 26790 e S.U. 28 dicembre 2007 n. 27169, 18 luglio 2008 n. 19805).
Il riconoscimento di un diritto all’ottemperanza del giudicato per il privato nei confronti della P.A., per la cui lesione può chiedersi in questa sede il ripristino del diritto violato neppure domandato in sede di cognizione e in rapporto agli interessi legittimi azionati, sottolinea le differenti situazioni controverse tutelate nei due tipi di procedimento, che quindi sono funzionalmente distinti, per quanto già detto.
In particolare, rispetto alla tutela chiesta con il ricorso introduttivo del giudizio di cognizione, quella domandata in sede di ottemperanza per far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria e per imporre il ripristino dei beni lesi dall’atto impugnato, può essere diversa e in ragione di tale diversità, la decisione su di essa è estesa anche al merito amministrativo (R.D. n. 1054 del 1924, art. 27) e può persino accogliere le domande ripristinatorie del diritto alla ottemperanza di chi agisce (Cons. St. Ad. Plen. 30 luglio 2008 n. 9, Cons. St. Sez. 5^ 19 maggio 2009 n. 3070).
Detto orientamento determina un probabile mutamento della giurisprudenza dei giudici amministrativi sulla autonomia dei due processi, di cognizione e di ottemperanza, rispetto all’indirizzo tradizionale che configura il secondo come mera attuazione della decisione in sede cognitoria e rileva un giudicato a formazione progressiva, con la seconda sentenza che integra e completa la pronuncia emessa nel primo processo (Cons. St. Sez. 6^ 3 marzo 2008 n. 796), sottolineando maggiormente l’autonomia funzionale dei due processi per la diversità delle situazioni tutelate, che consente di domandare in sede di ottemperanza statuizioni non chieste in sede cognitoria.
A tale dualità di procedimenti pervengono le citate sentenze del 2009 favorevoli alla separatezza dei due giudizi, che si collegano tutte alla n. 1732 del 2009, la quale, dopo un ampia e dotta analisi, storica e giuridica, del processo di ottemperanza, anche in rapporto alla funzione e struttura di esso, conclude per la sua autonomia ai fini della ragionevole durata rispetto al giudizio amministrativo di cognizione e per la individuazione dei termini da cui far decorre quello semestrale di proponibilità della domanda, aderendo, per tale profilo, all’analoga valutazione operata da Cass. n. 25529 del 2006 del processo di esecuzione del libro terzo del c.p.c..
Solo il superamento del concetto di ottemperanza come fase meramente integrativa della cognizione e l’autonomia del relativo processo rispetto a quello che lo precede, rende possibile la questione di giurisdizione nella impugnazione per cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c., della decisione in sede di ottemperanza, per violazione dei limiti esterni della giurisdizione, indipendentemente dal passaggio in giudicato della pronuncia conclusiva in sede cognitoria.
Nel caso si trattasse di un solo processo costituito dai due indicati giudizi, il ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione avverso la sentenza di ottemperanza difficilmente potrebbe essere ammissibile (sul ricorso per violazione dei limiti esterni della giurisdizione di decisioni emesse in ottemperanza, cfr. S.U. 19 agosto 2009 n. 18375, 31 ottobre 2008 n. 26302, 9 giugno 2006 n. 13431); infatti difficilmente una soluzione unitaria potrebbe superare la preclusione del giudicato, implicito o esplicito, sulla questione di giurisdizione della sentenza conclusiva del giudizio di cognizione costituente fase dello stesso processo poi chiuso con la pronuncia sull’ottemperanza, di cui non potrebbero quindi rivalutarsi i poteri concretamente esercitati una volta affermata la conformità a legge di essi in rapporto alla prima fase dello stesso processo.
Pertanto, la decisione del giudice amministrativo in sede cognitoria, non più impugnabile o revocabile per il suo passaggio in giudicato e relativa alla controversia sorta a tutela di interessi legittimi del ricorrente, definita con sentenza da cui far decorrere i termini decadenziali dell’azione di equa riparazione ( Cass. 7 marzo 2007 n. 5212), va tenuta distinta da quella che conclude il processo di ottemperanza che segue all’altro al fine di imporre alla P.A. di conformarsi alle statuizioni esecutive emesse in sede cognitiva (L. n. 2258 del 1865, art. 4, comma 2, all. E).
Il processo di ottemperanza è del resto utilizzato per dare esecuzione alle pronunce esecutive e alle sentenze passate in giudicato dei giudici amministrativi, ma anche per "ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali" anche ordinari nelle sentenze emesse in sede cognitiva nel processo ai sensi del codice di rito (R.D. n. 1054 del 1924, art. 27, n. 4); esso non può però seguire alle pronunce solo esecutive e non definitive nel corso dei processi ora indicati e, per tale ipotesi appare ovviamente contraddittoria una considerazione unitaria di due giudizi, davanti a giudici appartenenti a giurisdizioni diverse (sulla legittimità costituzionale del diverso trattamento normativo nei casi di inadempimento della P.A. ai provvedimenti di costoro: C. Cost. ord. 8 febbraio 2006 n. 44 e 25 marzo 2005 n. 122).
La distinzione sussiste anche quando sìa necessario, dal giudice dell’ottemperanza, l’accertamento della portata e degli effetti della pronuncia del G.A. da attuare, per chiarire anzitutto se ad essa l’amministrazione si sia conformata, potendo solo tale giudice, in caso di inadempimento, dare le disposizioni che, pur tenendo conto dei poteri autoritativi della P.A. e degli interessi pubblici che essa ha da perseguire, possano dar luogo anche alla sostituzione della stessa P.A. nella emissione di atti con proprie disposizioni o con la nomina di un commissario ad acta, che si surroghi all’amministrazione inadempiente.
In rapporto alla durata del processo dinanzi al G.A., la valutazione di essa correttamente si opera solo per il processo di cognizione del giudice amministrativo, anche in rapporto a procedimenti amministrativi (non giurisdizionali) basati sul medesimo interesse legittimo su cui si è fondato il ricorso necessari per poter proporre la domanda di tutela in sede di processo di cognizione ( Cass. 17 novembre 2005 n. 23314 e 28 aprile 2006 n. 9853), dato che è la condotta della P.A. inadempiente, già prima del giudizio, a concorrere a determinare i ritardi ingiustificati della successiva tutela giurisdizionale dei medesimi interessi a base dell’istanze amministrative.
Tale conclusione, relativa ad una fase non giurisdizionale e solo amministrativa precedente al processo, cui si è giunti dopo varie incertezze per adeguarsi agli orientamenti della Corte sovranazionale, per la quale la lesione del diritto alla durata ragionevole deve comunque addebitarsi a inadeguatezza dell’apparato pubblico preposto alla soddisfazione delle posizioni azionate dai propri cittadini, di cui s’è invano chiesta tutela preventiva in sede di autotutela, non rileva in rapporto al successivo procedimento giurisdizionale di ottemperanza, che ha ad oggetto il diritto diverso, sorto dalla decisione da adempiere cui la P.A. deve conformarsi.
4. L’assunto da cui muovono le citate sentenza di questa Corte del 2009 sulla considerazione dualistica dei processi amministrativi di cognizione e di ottemperanza è in sostanza analogo e parallelo a quello della rilevata separazione tra i processi di cognizione e di esecuzione secondo il codice di rito, le cui differenze strutturali appaiono comunque molto più evidenti in ragione della diversità dei procedimenti esecutivi rispetto al processo di cognizione.
Le differenze esistenti tra processo di esecuzione in base al codice di procedura civile e quello di ottemperanza del giudice amministrativo si giustificano in sostanza per il soggetto inadempiente degli obblighi sorgenti dal giudicato nei due casi, dovendosi dare rilievo alla circostanza che nel secondo è inadempiente agli obblighi scaturenti dal giudicato la P.A. Analogamente a quanto previsto per notifica del precetto e del titolo nel processo d’esecuzione, anche in quello di ottemperanza è espressamente previsto che esso inizi con un ricorso proponibile "finchè duri l’azione di giudicato", cioè per i dieci anni necessari alla prescrizione di essa, sancendosi che lo stesso venga notificato "non prima di trenta giorni da quello in cui l’autorità amministrativa sia stata messa in mora di provvedere" ( R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 90, comma 2, sul procedimento dinanzi al Consiglio di Stato).
L’atto di messa in mora che precede, analogo alla notifica del precetto con il titolo esecutivo, conferma l’esistenza di un diritto alla ottemperanza – simmetrico e simile a quello all’esecuzione – che giustifica la distinzione anche nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo dei due processi, uno di accertamento della lesione degli interessi legittimi azionati in sede cognitoria e l’altro per l’inadempimento del giudicato da parte della P.A., che sono tra loro distinti e autonomi.
Vi sono differenze tra i due giudizi, bene individuate, dalle citate pronunce di questa Corte del 2009: 1) nella estensione al merito della cognizione del giudice dell’ottemperanza, che non compete a quello dell’esecuzione; 2) nella natura contestualmente cognitoria ed esecutiva del processo dinanzi al G.A. che non vi è, se non incidentalmente ed eccezionalmente, nel processo di esecuzione; 3) nella probabile mancanza in quest’ultimo, compatibilmente con i principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., del contraddittorio, essendo esso "informato al più blando principio dell’audizione" ( Cass. n. 1732/09 cit.). In realtà il dato normativo non prevede neppure la notifica del ricorso introduttivo del ricorso per l’ottemperanza alla P.A. ( R.D. n. 642 del 1907, artt. 90 e 91), ma è stato superato dalla giurisprudenza amministrativa che ha imposto tale notificazione a pena di inammissibilità e quindi il sostanziale rispetto del contraddittorio nel processo di ottemperanza, anche se la natura soprattutto esecutiva di questa emerge comunque nelle norme di procedura citate che non prevedono detta notificazione.
L’ampiezza maggiore dei poteri del giudice in sede di ottemperanza rispetto a quello dell’esecuzione, si ha anche rispetto al processo di cognizione del giudice amministrativo e non giustifica una concezione unitaria dei due processi di cui anzi sottolinea la differenza sostanziale, connessa ai fini da attuare con essi, anche a non considerare la rilevata esistenza, nei procedimenti tipici dell’esecuzione di cui al codice di rito, di alcuni di essi, nei quali si esercitano poteri cognitivi, per cui, sul piano astratto e dogmatico, tali distinzioni non escludono comunque la diversità del giudizio di ottemperanza e di quello di cognizione.
La possibile adozione, nel processo di ottemperanza, di misure cautelari di cui alla L. n. 1034 del 1971, artt. 21 e 21 bis, connesse alla valutazione di merito di cui sopra dal giudice adito, conferma l’esigenza di mantenere distinto il processo di cui sopra da quello cognitorio, la cui considerazione unitaria comporterebbe un medesimo processo, articolato in due fasi di tre gradi ciascuna con misure cautelari astrattamente possibili in entrambi i procedimenti e assolutamente pletorico, destinato in ogni caso ad avere una durata irragionevole, ponendo in contrasto con l’art. 111 Cost., l’intero quadro normativo di riferimento.
Se vi sono sentenze che chiudono il processo cognitivo eseguibili immediatamente, soprattutto dopo le modifiche della L. 21 luglio 2000, n. 205, e in specie nei casi di giurisdizione esclusiva, di regola, nei casi di processo amministrativo limitato all’esame di interessi legittimi, il giudicato lascia permanere la stessa discrezionalità della P.A. in ordine alle modalità di esecuzione della statuizione del G.A. cui l’amministrazione non può derogare per esigenze di interesse pubblico, dovendosi ad essa conformare, anche se ciò può avvenire in modi non necessariamente unici, che lo stesso giudice dovrà individuare in sede di ottemperanza.
Pure a ritenere il giudizio amministrativo non relativo al solo atto ma esteso ai rapporti, come sembra propendere la dottrina più recente e appare certo almeno in ordine al processo di ottemperanza, non si può correttamente affermare che il processo cognitivo del G.A. si conclude con l’attribuzione del bene della vita, strumentale o finale, agli interessi legittimi azionati, alla parte che ha agito, limitandosi solo a decidere sulla situazione soggettiva eventualmente lesa dalla P.A..
Nel diverso giudizio di ottemperanza, dovuto all’inadempimento degli obblighi di conformarsi al giudicato da parte della P.A., deve essere individuato il bene della vita di cui era chiesta originariamente tutela, azionando gli interessi legittimi, con specificazione conseguente della regola iuris adottata dal giudicato della sede cognitiva, che definisce la controversia sostanziale esaminata con l’affermazione o negazione della esistenza delle posizioni soggettive controverse, la cui natura particolare non costituente un diritto soggettivo, comporta la esigenza della cognizione, dal giudice addetto all’ottemperanza, per la stessa individuazione dei beni della vita sottostanti a tali posizioni soggettive.
La differenze indicate del processo di ottemperanza rispetto a quello di esecuzione, in nessun caso impongono la considerazione unitaria del primo con quello di cognizione amministrativa, come chiarito dalla approfondita disanima della pronuncia di questa Corte n. 1732/09, che sottolinea la chiara discontinuità tra i due giudizi, per la possibile partecipazione al procedimento successivo a quello cognitorio di soggetti che non hanno partecipato allo stesso, quando questo è concluso da un giudicato con efficacia ultra partes.
L’ottemperanza può infatti chiedersi da soggetti che non sono stati parti nella fase cognitiva e nei confronti di un’amministrazione diversa da quella resistente in quella sede, con condotte processuali incompatibili con la pretesa esistenza di un unico processo nel quale, salvo il caso di litisconsorzio necessario, nessun intervento di terzi potrebbe configurarsi.
La rilevata differenza non ha rilievo essenziale anche se le citate decisioni del 2005 e del 2008 che adottano la considerazione unitaria dei due processi, la applicano solo quando essi abbiano le stesse parti; l’intervento o l’iniziativa del terzo non rileva ai fini della ragionevole durata, perchè lo stesso comunque non può congiungere la durata dell’ottemperanza a quella dell’altro processo cui egli non ha partecipato.
Peraltro vi sono dubbi rilevanti in dottrina sulla ammissibilità del ricorso in ottemperanza di terzi, nel caso di annullamento di atti normativi o con più destinatari, la cui invalidità si riflette anche su tali soggetti, ma solo in ordine allo annullamento di tali provvedimenti e non ai conseguenti atti attuativi da decidere in favore delle sole parti del giudizio cognitorio e a carico della P.A. soccombente.
I terzi potranno far valere l’inefficacia dell’atto nelle sedi competenti, ferma restando l’actio iudicati per le sole parti del giudizio di cognizione, legittimate ad agire in ottemperanza, con conseguente irrilevanza della argomentazione per sostenere l’una o l’altra tesi sul rapporto tra i due processi, che restano distinti anche quando non vi siano interventi di terzi.
La impugnabilità della sentenza emessa in sede di ottemperanza conferma, come già etto, la duplicità dei giudizi, così come la estensione del giudizio di ottemperanza anche a sentenze esecutive e non passate in giudicato, in pendenza di gravame, o a provvedimenti cautelari, sono argomenti che sul piano pratico rafforzano la tesi della dualità dei processi di cui alle numerose pronunce di questa Corte del 2009.
I limiti dell’appello delle sentenze emesse in sede di ottemperanza, comunque relativi alla cognizione esercitata in esse, secondo la giurisprudenza amministrativa, non escludono il regime distinto di esso da quello di cognizione, ma anzi, per quanto sopra rilevato, confermano la teoria dualistica.
L’ottemperanza estesa anche alle misure cautelari del giudizio di cognizione dalla L. n. 1034 del 1971, che hanno un proprio regime di impugnazione e mai possono acquisire idoneità a divenire giudicato, conferma la differenza dei due giudizi, potendo essa intervenire anche in rapporto a fasi meramente incidentali e non necessarie del processo cognitorio, con contemporanea pendenza con esso e sviluppo parallelo all’altro giudizio.
Anche la prevista regressione al Tar della ottemperanza delle sentenze del Consiglio di Stato, confermative di quelle di primo grado (L. n. 1034 del 1971, art. 37, u.c.), sarebbe incompatibile, secondo le decisioni richiamate del 2009, con ogni considerazione unitaria dei due processi, essendo fisiologica la "evoluzione ascensionale" dal giudice di primo a quello di secondo grado interrotta nel caso; ma tale argomento appare compatibile con la libertà di scelta del legislatore nell’attribuzione delle competenze funzionali nel processo amministrativo.
In tale ambito assume rilievo dirimente la circostanza che lo stesso legislatore non ha modificato le norme sulla ottemperanza delle sole sentenze passate in giudicato del giudice emesse nel processo di cognizione di cui al codice di procedura civile, consentendo che permanga un organo di diversa giurisdizione, cioè il giudice amministrativo, a stabilire le modalità di attuazione di sentenze del giudice ordinario: in tal caso sembra indispensabile una considerazione distinta dei due processi non potendosi gli stessi considerarsi fasi del medesimo procedimento perchè può escludersi che permanga nel secondo la medesima situazione giuridica azionata nel primo nè vi può essere una translatio iudicii che si attui su domande diverse da quelle originariamente proposte da far valutare al giudice che si ritiene avere giurisdizione su di esse (S.U. 22 febbraio 2007 n. 4109 e Cass. 6 agosto 2009 n. 18015).
Rileva solo in fatto,per considerare separati i due giudizi la esperibilità dell’azione di ottemperanza per un lungo tempo, cioè per il periodo prescrizionale di dieci anni proprio di ogni actio iudicati, consentendo tale evenienza di procrastinare oltre ogni limite il termine di decadenza di cui all’art. 4 della Legge Pinto, non potendosi detrarre il tempo antecedente all’azione per ottenere l’adempimento della P.A. degli obblighi sorti dalla decisione in sede cognitoria dal computo complessivo di durata del processo, per la natura extraprocessuale dell’inerzia del legittimato; anche a non tener conto del divieto di abuso del processo che potrebbe sanzionare siffatto comportamento, appare ovvio che l’argomentazione non determina la necessaria considerazione unitaria dei processi indicati.
5. In conclusione, appare opportuno enunciare il seguente principio di diritto: "In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo va identificato, in base all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sulla base delle situazioni soggettive controverse e azionate su cui il giudice adito deve decidere, che,per la citata norma sovranazionale, sono diritti e obblighi, cui (per gli artt. 24, 111, e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici amministrativi.
In rapporto al criterio di distinzione della Convenzione sopra richiamato il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile e quello cognitivo del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi tra loro autonomi, in rapporto alle situazioni soggettive distinte azionate in ciascuno di essi (nei primi cognitori diritti o interessi legittimi e nei secondi esclusivamente diritti all’adempimento).
Dalla differenza funzionale richiamata deriva la diversità di struttura di ognuno dei detti processi, nascendo il processo di cognizione da una domanda di accertamento di un diritto, obbligo o interesse legittimo controverso e il secondo dalla valutazione positiva di tali situazioni rilevata con pronuncia esecutiva, la cui inadempienza dal convenuto o resistente soccombente, comporta che la decisione costituisca o il titolo esecutivo che, notificato con il precetto, introduce i procedimenti (alcuni anche cognitori) tesi a soddisfare quanto accertato dal giudice della cognizione (cfr. libro terzo del c.p.c.), potendosi, qualora soccombente sia una pubblica amministrazione agire in ottemperanza perchè la stessa si conformi al giudicato, ponendo in essere eventualmente atti sostitutivi di quelli annullati perchè illegittimi, a seguito di notifica della messa in mora della P.A. a provvedere nei sensi della decisione emessa in sede cognitoria e non osservata.
Consegue a detta autonomia dei giudizi che le loro durate non possono sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi, di cognizione da un canto e di esecuzione o di ottemperanza dall’altro, e che solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuno di essi sarà possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nei termini della L. n. 89 del 2001, art. 4, l’equa riparazione per violazione dell’art. 6 della Convenzione".
5. I primi due motivi di ricorso devono quindi essere rigettati, perchè correttamente i giudici di merito hanno ritenuto distinti nel caso processo di cognizione e processo di esecuzione, affermando la improponibilità della domanda di equa riparazione perchè proposta oltre sei mesi dopo la definizione del processo cognitorio, con implicito rigetto della stessa per la durata di quello di esecuzione ritenuta giustificata.
I residui due motivi di ricorso relativi alla seconda ratio decidendi del decreto impugnato che nel merito riteneva infondata la domanda, restano assorbiti.
In conclusione, il ricorso deve rigettarsi e le spese del presente giudizio di cassazione possono equamente compensarsi tra le parti, in ragione delle incertezze sulla questione preliminare relativa alla considerazione dei due processi nel caso concreto, che ha determinato l’intervento di queste sezioni unite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, il 1 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2009