Il 28 aprile 2006 la Corte di appello di Reggio Calabria rigettava una istanza di riparazione per ingiusta detenzione, proposta da R.G., sottoposto a misura di custodia cautelare in carcere per imputazioni di associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio volontario, porto e detenzione aggravati di armi da fuoco ed associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, per le quali (condannato in primo grado alla pena dell’ergastolo) era stato poi assolto in grado di appello per non avere commesso il fatto.
Riteneva la Corte territoriale che fossero utilizzabili nel giudizio di riparazione, al fine di accertare la sussistenza della colpa grave dell’istante nell’instaurazione del suo stato detentivo, gli esiti delle intercettazioni ambientali effettuate sulla autovettura Fiat Uno in uso all’imputato R.D. (germano dell’istante), ancorchè dichiarate inutilizzabili nel giudizio di merito ("per motivi legati al mancato rispetto delle formalità afferenti l’esecuzione delle operazioni"), ciò che aveva costituito una delle principali cause della totale revisione delle conclusioni affermative della penale responsabilità di R.G. in relazione a tutte le imputazioni ascrittegli.
Reputava inoltre che, anche a voler andare in contrario avviso, e dunque pur prescindendo dalle intercettazioni poi dichiarate inutilizzabili, le emergenze acquisite nell’ambito del procedimento e complessivamente desumibili dagli atti fossero in ogni caso più che sufficienti a concludere che certamente il R., con la sua aperta connivenza e con gli intensi legami "d’affari" (certamente non spiegabili con i normali rapporti affettivi derivanti dalle relazioni parentali) tenuti con il fratello D. ed i cugini A. e Ra.Gi., avesse dato causa alla sofferta detenzione, ascrivibile anche alla sua iniziale e protratta latitanza.
Il R. ha proposto ricorso per Cassazione lamentando vizi di violazione di legge e di motivazione, e sostenendo – in una successiva memoria di replica alla richiesta del P.G., in questa sede requirente, di inammissibilità dell’impugnazione – che la valorizzazione della portata dei risultati offerti dalle intercettazioni di cui si è detto non avrebbe potuto e dovuto trovare spazio nell’ambito del giudizio ex artt 314 e 315 c.p.p..
E’ intervenuta in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, chiedendo il rigetto del ricorso.
La quarta Sezione, alla quale il ricorso era stato assegnato, rilevato che, in merito alla utilizzabilità nel giudizio riparatorio di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito del giudizio di cognizione, sussiste un persistente contrasto nella giurisprudenza di legittimità, con ordinanza 28 luglio 2008 ne ha rimesso la soluzione alle Sezioni Unite.
Il Primo Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione, in data 15 luglio 2008, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l’odierna udienza in camera di consiglio.
Nelle more, il P.G., in data 25 settembre 2008, ha depositato nuova richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui è seguita ulteriore memoria difensiva nell’interesse del ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. E’ stata sottoposta all’esame delle Sezioni Unite la questione "se l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, dichiarata nel giudizio penale, abbia effetti anche nel giudizio promosso per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione", essendosi delineati sul tema due contrastanti indirizzi interpretativi nella giurisprudenza di legittimità.
Un primo orientamento (sent. nn. 1405/93, 21223/08, 24499/08, 25547/08, 30066/08, 32367/08, tutte della quarta Sezione), assolutamente maggioritario, da al quesito risposta decisamente negativa, fornendo le seguenti spiegazioni:
– la procedura riparatoria presenta connotazioni di natura marcatamente civilistica, e, quindi, nel suo ambito non possono operare ex abrupto i divieti previsti dal codice di rito per finalità tutte interne al processo penale, e tra di essi, ovviamente, anche il divieto di utilizzazione previsto dall’art. 271 c.p.p., comma 1, conseguendone che le conversazioni intercettate, ancorchè inutilizzabili in sede penale, ben possono trovare ingresso nell’alveo di una causa a prevalente impronta civilistica quali fonti di prova inquadrabili nella categoria delineata dall’art. 2712 c.c.;
– la nozione di inutilizzabilità concerne "la formazione della prova nel giudizio penale di cognizione" e non riguarda certo la condotta dell’imputato dal punto fattuale e storico, mentre il giudice della riparazione opera su un piano completamente diverso e deve valutare non gli elementi probatori di accusa a carico dell’imputato, bensì la condotta del soggetto interessato, desumendola evidentemente dallo stesso materiale già vagliato, ad altro fine, dal giudice della cognizione, eccezion fatta solo per quei comportamenti che siano stati espressamente esclusi in sede di cognizione: e le conversazioni telefoniche, ritenute irritualmente intercettate, per un ravvisato vizio di forma di natura motivazionale del decreto autorizzativo, non possono essere considerate "inesistenti" e non può di certo dirsi che siano state escluse dal giudice della cognizione come realtà fenomenica;
– sarebbe paradossale non negare l’equo indennizzo nemmeno ad un soggetto il quale, inoppugnabilmente e direttamente coinvolto sulla scorta di sue conversazioni captate a mezzo di intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria – nell’ambito di una gravissima vicenda delittuosa – sia stato poi (pur legittimamente) assolto unicamente in conseguenza della ritenuta inutilizzabilità di quelle conversazioni, a causa di vizi formali dei decreti autorizzativi.
A fronte dell’indirizzo prevalente, la medesima quarta Sezione penale, con sentenza del 9.4.2008, n. 21069, riportandosi ad un precedente relativo al procedimento di prevenzione (sent. Sez. 1, 15 giugno 2007, n. 29688), ha invece affermato che "l’inutilizzabilità degli atti di indagine, e segnatamente delle intercettazioni, derivante (nella fattispecie) dalla mancata enunciazione, nei decreti autorizzativi, delle ragioni del loro compimento con apparecchiature collocate in uffici diversi da quelli di procura, comporta anche il divieto di trarre da detti atti elementi dimostrativi del dolo o della colpa grave ostativi all’insorgere del diritto alla riparazione".
Trattasi di un orientamento certamente minoritario, del quale un primo enunciato si rinviene in Sez. 4, n. 31428/05, che si esprime nel senso che "deve escludersi che atti di indagine inutilizzabili ex art. 191 c.p.p., comma 1, quali indizi per giustificare una misura di cautela personale perchè acquisiti in violazione dell’art. 414 c.p.p., possano servire per trarre elementi da cui dedurre l’esistenza di condotte dolose o gravemente colpose causative della custodia cautelare subita e, come tali, ostative al riconoscimento del diritto alla riparazione".
2. Il contrasto giurisprudenziale deve essere composto con adesione al secondo dei riportati indirizzi, non potendo condividersi le premesse logico-giuridiche e i postulati ermeneutici del ragionamento che fonda l’opposto orientamento.
2.1. Pregiudiziale, sotto il profilo logico-sistematico, è la considerazione che, poichè, a norma dell’art. 314 c.p.p., il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano "dato causa" o abbiano "concorso a darvi causa" all’instaurazione dello stato privativo della libertà, si ponga come ineludibile l’accertamento del rapporto causale tra tali condotte e il provvedimento restrittivo della libertà personale.
In questa prospettiva, va ricordato che l’art. 271 c.p.p. sancisce il "divieto di utilizzazione" dei risultati delle intercettazioni "qualora non siano state osservate le disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p., e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3": trattasi di previsione che quella sanzione commina in tutti i casi in cui vi siano violazioni di quelle disposizioni, tutte, evidentemente, ritenute definitivamente "patologiche".
Costituisce, invero, ius receptum che:
– in tema di inutilizzabilità, la disciplina applicabile nella materia delle intercettazioni è quella contenuta nell’art. 271 c.p.p., norma a carattere specifico che prevale, perciò, su quella generale di cui all’art. 191 c.p.p.;
– l’inutilizzabilità colpisce non l’intercettazione in quanto mezzo di ricerca della prova, bensì i suoi risultati, che a loro volta possono rivestire sia la natura di prova, tipica della fase del giudizio, sia quella di indizio, tipica della fase delle indagini preliminari;
– l’art. 271 c.p.p. accomuna tutte le violazioni ivi indicate nell’unica sanzione dell’inutilizzabilità, per cui è irragionevole operare qualsivoglia distinzione tra tipi diversi di violazione (sostanziale-formale) al fine di collegare la sanzione processuale solo ad alcuni di essi ed è altresì irragionevole ricollegare la sanzione stessa (inutilizzabilità) alla fase del procedimento.
La ragionevolezza di tale equiparazione ha trovato autorevole conferma nella giurisprudenza costituzionale (sent. n. 443/04), la quale ha da tempo chiarito che ogni compressione del diritto alla riservatezza, tutelato dall’art. 15 Cost, deve trovare la sua fonte di legittimazione in un provvedimento motivato del giudice, con la conseguenza che a tale garanzia non possono essere sottratte le modalità concrete con le quali si procede alle autorizzate intercettazioni (sent. n. 34/73, n. 81/93; ord. n. 275/04; v. anche Sez. Un. n. 2737/06).
Ciò non altro può significare che, al cospetto di intercettazioni eseguite fuori dei casi previsti dalla legge ovvero in violazione dell’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, si versa in ipotesi di chiara "illegalità", al di là della sanzione che il legislatore denomina inutilizzabilità, donde la condivisibile affermazione che, costituendo la disciplina delle intercettazioni concreta attuazione del precetto costituzionale, in quanto attuativa delle garanzie da esso richieste a presidio della libertà e della segretezza delle comunicazioni, la sua inosservanza deve determinare la totale "espunzione" del materiale processuale delle intercettazioni illegittime, che si concreta nella loro giuridica inutilizzabilità e nella "fisica eliminazione" (C. Cost. sent. n. 720/75; Sez. Un. n. 3/96). Eliminazione ora esplicitamente codificata, attraverso la modificazione dell’art. 240 c.p.p., che, predisponendo un’apposita disciplina in materia di "atti relativi a intercettazioni illegali", e, più in particolare, di "atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi al traffico telefonico e tematico, illegalmente formati o acquisiti", ne ha sancito la "distruzione", ossia l’eliminazione irreversibile da ogni protocollo giudiziario.
Fissati tali principi fondamentali, le conseguenze che ne derivano, per quanto qui ne occupa, appaiono implicite ed inequivocabili.
Se è vero che il "divieto di utilizzazione" dei risultati comporta che essi siano del tutto "espunti" dalla realtà procedimentale, è arduo ritenere che, pur tamquam non essent, possano egualmente essere legittimamente ritenuti eziologicamente connessi al provvedimento cautelare, determinativi dello stesso, emesso, in sostanza, sulla base di risultati acquisitivi che devono, invece considerarsi insussistenti sul piano fattuale perchè inutilizzabili. In definitiva, la espunzione del dato dalla realtà procedimentale non può che comportare la assoluta irrilevanza dello stesso, anche sul piano fattuale, sotto il profilo causale e genetico, rispetto ad un successivo atto procedimentale poichè non appare possibile ritenere che una prova illegale (perchè di tanto, come si è visto, si tratta) possa legittimamente assumere rilevanza causale rispetto ad un successivo atto determinativo dello stato di detenzione.
Che anzi, ove il procedimento cautelare sia stato emesso solo alla stregua di tali risultati captativi, dichiarati inutilizzabili e quindi del tutto espunti dalla realtà procedimentale, le relative fattispecie possono essere idonee anche a rifluire nella previsione dell’art. 314 c.p.p., comma 2, in riferimento all’art. 273 c.p.p.: i gravi indizi di colpevolezza, difatti, sarebbero in tal caso rinvenibili solo in elementi di valutazione e di giudizio che non avrebbero dovuto trovare affatto ingresso nella realtà procedimentale, sostanziandosi in una prova illegale, e che perciò giammai avrebbero potuto casualmente giustificare il provvedimento restrittivo.
Sicchè deve convenirsi che all’autonomia dei due giudizi di riparazione e di cognizione, pur indiscutibile, data la differenza dei presupposti e dei fini, non discende automaticamente anche il principio in base al quale il giudizio di riparazione sarebbe affrancato da ogni regola probatoria propria del processo penale di cognizione, e, conseguentemente, che non può derubricarsi – se non in termini costituzionalmente discutibili – a mero connotato endoprocessuale, tutt’interno, cioè, al processo penale, la sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 271 c.p.p..
2.2. Valido argomento in contrario non è dato trarre dal connotato di natura marcatamente civilistica che l’orientamento maggioritario, al fine di meglio sorreggere la tesi propugnata, ritiene di poter attribuire alla procedura riparatoria.
A parte che la riconducibilità del giudizio di riparazione al procedimento civile è stata in più occasioni esclusa dalle Sezioni Unite penali (orientata, ormai, nel configurarlo, pur pronunciando a diversi fini, quale procedimento penale autonomo, non incidentale:
v., tra le altre, sent. nn. 14/98, 3435/01, 34559/01, 35760/03), resterebbe pur sempre da risolvere la questione della rilevanza ed utilizzabilità nel processo civile di prove illegalmente assunte nel processo penale di cognizione.
Questione neppure affrontata dalle decisioni che fanno leva sull’anzidetta "impronta civilistica" e che, per il vero, in termini che presentano evidente attinenza con la problematica qui in esame, si è già posta in sede civile, precisamente in tema di accertamento tributario, ed è stata definita del pari negativamente, affermandosi che le prove acquisite attraverso una illegittima autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare o alla perquisizione personale comportano "l’inesistenza" del materiale probatorio utilizzato dall’Ufficio e non possono perciò essere valutate dal giudice tributario, con la pregnante considerazione che, quand’anche non sia rinvenibile nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità della prova "contra legem" analogo a quello fissato per il processo penale, la soluzione (negativa) discende dal valore stesso dell’inviolabilità della "libertà personale" solennemente consacrata negli artt. 13 e 14 Cost., alla cui stregua un atto quale la perquisizione personale o domiciliare può compiersi solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria e "nei soli casi e modi previsti dalla legge".
Sono questi, rilievi che travolgono inesorabilmente anche il richiamo del disposto dell’art. 2712 c.c..
Le riproduzioni meccaniche e le registrazioni fonografiche di cui si occupa tale disposizione sono quelle "precostituite" al processo – contrapponendosi a quelle disciplinate dall’art. 261 c.p.c., che costituiscono prove che si formano nel processo – e, se tra di esse si volessero ricomprendere anche le riproduzioni e le registrazioni acquisite in un processo diverso da quello civile (ad es. penale), la possibilità della loro utilizzazione in sede civile sarebbe pur sempre subordinata alla condizione di essere state assunte (nel diverso processo) "nel rispetto e con le garanzie previste dalla legge processuale".
2.3. Infine, solo apparentemente suasiva, prestandosi ad agevole confutazione, è la considerazione circa il "paradossale risultato" cui condurrebbe la soluzione qui privilegiata.
E’ sufficiente sul punto richiamare la esaustiva replica esibita al riguardo dall’ordinanza di rimessione, la quale, nel considerare che la suggestiva riflessione potrebbe rilevare solo al fine della proposizione di una questione di costituzionalità dello stesso art. 271 c.p.p. (ripetutamente disattesa, sotto vari profili, dal giudice delle leggi: sent. n. 81/1993; ord. n. 304/00; sent. n. 135/02; ord. nn. 472/02, 209/04 e 443/04), perspicuamente e condivisibilmente argomenta che la valutazione del "risultato" si appartiene al discrezionale apprezzamento del legislatore, con l’eventuale limite solo della ragionevolezza, questa, poi, in subiecta materia, dovendosi porre in relazione, e quindi commisurare, a profili di garanzia e di tutela di diritti costituzionalmente presidiati, in primis l’art. 15 Cost.), per concludere efficacemente che la ritenuta preminenza della esigenza di salvaguardia di tali diritti comporta perfino, sotto il profilo del merito, la rinuncia da parte dello Stato all’esercizio della sua potestà punitiva ove quei diritti non siano salvaguardati secondo norma.
2.4. Le considerazioni fin qui svolte avvalorano dunque la linearità logica e sistematica della più rigorosa soluzione ermeneutica e consentono di enunciare il seguente principio di diritto:
"l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale, ha effetti anche nel giudizio promosso per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione".
3. Risolta così la prospettata quaestio iuris, occorre verificare se, pur prescindendo dalle intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel processo di cognizione, il provvedimento impugnato si giustifichi egualmente.
La Corte territoriale, come si è anticipato, ha prospettato la possibile incidenza, quanto alla ritenuta sussistenza della colpa grave, anche di altri elementi di giudizio, diversi da quelli costituenti compendio dei risultati delle intercettazioni dichiarate inutilizzabili.
L’assunto, però, non è allo stato idoneo a concretizzare la c.d.
prova di resistenza sotto tale profilo.
I giudici del merito, difatti, non spiegano adeguatamente, si da consentire il conseguente controllo di legittimità, quali siano le "emergenze acquisite nell’ambito del procedimento e complessivamente desumibili dagli atti….", che abbiano dato o concorso a dare causa alla instaurazione dello stato detentivo per colpa grave dell’istante; che siano, cioè, poste, unitamente al curriculum criminale di costui, in relazione causale col provvedimento cautelare emesso, in relazione – è bene puntualizzare – a quegli specifici addebiti che con lo stesso venivano contestati. E a concretizzare tale prova di resistenza non è certo idonea la evocazione dei giudici di merito dello stato di latitanza dell’istante, essendosi già ritenuto da questa Suprema Corte che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la decisione dell’imputato di sottrarsi alla cattura e di darsi alla latitanza non costituisce di per sè elemento per l’individuazione della colpa grave di cui all’art. 314 c.p.p. (Sez. 4, n. 42746/07).
Da ciò consegue la necessità che la Corte di appello di Reggio Calabria proceda, in sede di rinvio, ad un nuovo esame della istanza che, nell’osservanza del principio affermato in questa sentenza di annullamento, tenga conto autonomamente di tutti gli elementi, eccezion fatta per i risultati delle intercettazioni dichiarate inutilizzabili, al fine di verificare, con onere di indicazione specifica, l’esistenza di quegli altri fatti e/o di quelle altre condotte sinergici alla detenzione, dai quali è desumibile la causa ostativa al riconoscimento del diritto vantato dal R..
P.Q.M.
La Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Reggio Calabria.
Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2008.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2009