La Corte d’appello di Genova, col decreto in esame n. 124 depositato il 14 febbraio 2005, ha respinto la domanda di equo indennizzo per danno morale proposta da D.F.G., odierno ricorrente, in relazione a processo promosso innanzi al Tar Toscana avente ad oggetto riconoscimento del diritto al computo dell’impiego operativo o di polizia da liquidarsi nella buonuscita, rilevando che il carattere collettivo dell’azione, e la sua palese infondatezza escluderebbero un qualunque coinvolgimento emotivo da parte del ricorrente, che non avrebbe altresì addotto alcun segno personalizzante, comprovante un qualche sintomo concreto di ansia o stress nell’attesa, labilmente assunto.
Il predetto istante ricorre per cassazione contro tale decreto con tre mezzi non resistiti dalla P.D.C.M. intimata.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 6 par. 1 della CEDU e della L. n. 89 del 2001, art. 2, e correlato vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, lamentando l’erroneità della decisione impugnata che, attestata su principi ormai disattesi, ha disapplicato l’interpretazione, ormai consolidata, secondo cui il danno non patrimoniale rappresenta conseguenza normale dell’irragionevole durata del processo, a meno di circostanze particolari di cui occorre che il giudice dia conto specificamente.
In linea preliminare devesi disporre, a mente dell’art. 335 c.p.c., la riunione al presente dei ricorsi iscritti ai nn. 11099 e 11114 del R.G. relativo all’anno 2006, proposti rispettivamente da L. G. e A.T., in quanti indirizzati contro il medesimo decreto.
Il ricorso, come da conforme richiesta del P.G., appare manifestamente fondato.
La Corte territoriale ha rigettato l’istanza di equa riparazione avendo escluso il pregiudizio invocato sulla scorta di tutte le considerazioni riferite – palese infondatezza della pretesa esercitata alla luce della giurisprudenza consolidata, non fatta segno di censure nella causa presupposta natura stessa dell’azione, di estrema semplicità e di esito scontato-natura collettiva della stessa, omettendo finanche di verificare se la durata del processo presupposto fosse adeguata al metro reputato di massima congruo, avuto riguardo a tutte le componenti valutabili.
La censura in esame critica specificamente ed a ragione il passaggio logico conclusivo di tale approdo che contraddice radicalmente, e senza dare conto di adeguate e valide ragioni di divergenza, l’esegesi consacrata nel principio ormai consolidato e costantemente ribadito nella giurisprudenza di questa Corte, formatosi sul solco degli enunciati di cui alle pronunce delle SS.UU. n. 1338 – 1339 – 1340 e 1341 del 26.1.2004 e n. 15093 del 5 agosto 2004, secondo cui il danno non patrimoniale rappresenta conseguenza normale, ancorchè non automatica nè necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo di cui all’art. 6 della Convezione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, che deve ritenersi normalmente sussistente, seppur non in re ipsa, a meno della prova contraria dell’esistenza di elementi contrari di smentita, reputati ostativi nel caso concreto secondo il giudizio, insindacabile nel merito, dell’organo giudicante, tenendo conto delle peculiarità della singola concreta fattispecie portata al suo esame, incidenti sull’"an debeatur" (cfr. Cass. nn. 8852/2005, 8600/05, 15093/2005)).
Secondo questa esegesi, la funzione indennitaria compensativa del pregiudizio determinato da attività che è comunque lecita, comporta che esista tale danno cagionato dalla durata irragionevole del processo, che in chiave non patrimoniale devesi ritenere presente secondo l’id quod plurumque accidit nella normalità dei casi, siccome ha natura psicologica, manifestandosi nell’ansia e nel turbamento connessi alla durata del processo, che rappresentano componenti non suscettibili di essere obiettivamente dimostrate, a meno di prova contraria, ricavabile però da specifici elementi indicatori, di cui, come si è detto, il giudice che procede alla liquidazione deve dare precisa indicazione (cfr. Cass. n. 15106/04).
Non occorreva pertanto nel caso di specie che l’istante ne desse la prova della stessa effettiva sussistenza, dovendosi essa ritenersi correlata alla mera verifica della irragionevole durata.
Nella specie la conclusione censurata si fonda sull’apprezzamento di elementi di smentita che non possono assumere alcun rilievo ai fini della negazione della stessa presunzione di danno, di regola conseguente alla irragionevole durata del processo, a meno della prova dell’abuso del processo, consistente ex parte actoris nella temerarietà della lite, introdotta nella consapevole certezza dell’infondatezza della pretesa esercitata, che la Corte genovese ha espressamente escluso laddove ha sostenuto che non fosse in discussione la buona fede dei ricorrenti, ovvero dell’assunzione di attività processuale improntata a tattica dilatoria, tesa volontariamente a ritardarne la definizione ovvero a giovarsene (cfr.
Cass. n. 21088/2005).
Il decreto in esame, che non espone alcuna di tali circostanze, valorizza solo, e in senso sfavorevole all’istante, l’asserita consapevolezza della scarsa probabilità di successo della sua iniziativa giudiziaria, desumendola dal costante orientamento contrario assunto dall’autorità amministrativa, che di certo rappresenta fatto irrilevante, e da apodittico richiamo all’esegesi giurisprudenziale, non supportato però da alcun riferimento di riscontro, ed invece contrastante, come emerge dai precedenti citati nel ricorso in esame. Suddetta ratio decidendi consuma disobbedienza all’obbligo di conformazione di cui sopra si è riferito, che rappresenta espressione del canone che impone alla giurisdizione nazionale d’interpretare ed applicare il diritto interno alla luce dei principi enunciati nella Convenzione letti alla luce dell’esegesi che ne abbia offerto la CEDU, e dunque è regola giuridica la cui violazione è denunciabile in questa sede.
Essa è pertanto non si sottrae a censura.
Le considerazioni che precedono assorbono l’esame delle restanti censure.
Tutto ciò premesso, il ricorso deve essere accolto nei sensi che precedono ed il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio degli atti ad altra sezione della corte d’appello di Genova che avrà anche il compito di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie i ricorsi nei sensi di cui in motivazione; cassa il decreto impugnato e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Genova anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2008