1. Il processo presupposto era stato introdotto da R.N. con ricorso depositato in data 17.1.1996 presso il Giudice del Lavoro di Napoli, con il quale si chiedeva il pagamento degli interessi e della rivalutazione monetaria dovuti sulle prestazioni corrisposte in ritardo relative ai benefici connessi alla riconosciuta invalidità civile.
La sentenza veniva depositata il 26.7.02, essendo stata fissata la prima udienza di detto procedimento il 5.10.2000, e cioè 57 mesi dopo il deposito del ricorso.
2. La ricorrente proponeva giudizio per equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001. La Corte d’appello di Roma, con Decreto 6 giugno 2005 – Decreto 8 novembre 2005, condannava il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di complessivi Euro 900,00, cioè Euro 300,00, per ogni anno di ritardo, per tre anni, a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale subito, e condannava lo stesso Ministero al pagamento della somma di Euro 750,00, per le spese processuali.
3. Avverso la citata pronunzia veniva presentato ricorso in Cassazione deducendo che i tempi di ragionevole durata di tre anni (per il primo grado, 1,5 e 1,5 per i gradi successivi) erano eccessivi per il processo davanti al Giudice del Lavoro.
Veniva dedotto altresì che, in relazione alla determinazione dell’entità della liquidazione, la Corte d’appello non si era attenuta ai parametri minimi sanciti dalla CEDU, che prevedevano un indennizzo pari ad Euro 1.500,00, per ogni anno di ritardo.
Asseriva inoltre la ricorrente che la Corte avesse errato nel non tenere conto dell’intera durata del processo, anzichè considerare il solo periodo eccedente.
La ricorrente chiedeva inoltre a questa Corte, in relazione alla liquidazione delle spese, di applicare la tabella B, par 1, per i diritti di procuratore e la tabella A, par. 3^ per gli onorari, in base alla nota spese di primo grado (Euro 1.535,87). Quanto al risarcimento chiedeva che le fosse riconosciuta la somma di Euro 125 al mese per 72 mesi, e cioè complessivi Euro 10.875.
4. Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, nelle sue conclusioni, affermava che, in tema di durata ragionevole del processo, ai sensi della L. n. 89 del 2001, i criteri di determinazione dell’entità della riparazione, applicati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, non potevano essere ignorati dal giudice nazionale; il mancato rispetto della regola predetta da parte del giudice di merito concretizzava il vizio di violazione di legge denunciabile in sede di legittimità, cosi come in Cass. 1630/2006 e 9692/2006.
5. Questo Collegio ritiene che il ricorso sia manifestamente fondato con riferimento alle censure che attengono all’ammontare del risarcimento liquidato. Ed invero, la somma liquidata dalla Corte territoriale appare eccessivamente ridotta con riferimento alla somma liquidata per ciascun anno.
E’ invece infondato il motivo che attiene al termine di ragionevole durata, posto che la Corte ha puntualmente ed efficacemente motivato le ragioni che inducono a considerare come ragionevole il termine di tre anni per il primo grado, di due e di due anni per i successivi gradi di giudizio, in relazione alla inedia complessità del giudizio, valutata dalla medesima Corte romana. Del resto tale indicazione appare in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte.
Quanto alle censure di parte ricorrente circa la durata del giudizio presupposto, ritiene la Corte che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, debba aversi riguardo al solo periodo eccedente il termine ragionevole di durata e non all’intero periodo di durata del processo presupposto. A tale riguardo non appare risolutivo il contrario orientamento manifestato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, poichè il giudice nazionale è tenuto ad applicare le norme dello Stato e, quindi, il disposto dell’art. 2, comma 3, lett. a), della citata legge; non può, infatti, ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dei criteri di determinazione della riparazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, attraverso una disapplicazione della norma nazionale, avendo la Corte costituzionale chiarito, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, essendo piuttosto configurabile come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, "omisso medio", per tutte le autorità interne (in tal senso: sez. 1^, sentenza n. 14 del 03/01/2008, rv. 601232; n. 1354 del 22/1/2008, rv. 601254; n. 23844 del 19.11.2007, rv. 601203).
Ciò premesso, questo Collegio ritiene tuttavia che appaia eccessivamente ridotto l’ammontare del risarcimento che è stato attribuito per ciascun anno (Euro 300,00), dove si è fatto riferimento ai parametri della C.E.D.U., ma ci si è espressi per una quantificazione assolutamente non consona rispetto alle indicazioni della Corte di Strasburgo e della giurisprudenza di questa Corte di Cassazione. Tale valutazione riduttiva è stata formulata in maniera immotivata ed irragionevole, tanto da costituire violazione di legge.
Deve, pertanto, procedersi alla cassazione del provvedimento impugnato, ritenendosi che, a norma dell’art. 384 c.p.c, possa seguire la decisione nel merito. A tale riguardo si deve altresì aver presente che proprio in base ai rilievi della Corte d’appello, non contestati nel presente giudizio, può affermarsi la media complessità del giudizio svoltosi davanti ai giudici del lavoro, per il quale quindi può confermarsi un eccedenza rispetto al termine ragionevole di durata in anni tre.
Nessun profilo di danno patrimoniale è stato dedotto dalla difesa ricorrente, che si è limitata a chiedere il risarcimento del danno morale. La sola voce di danno che può essere riconosciuta attiene quindi al c.d. danno non patrimoniale, da individuarsi in quelle sofferenze di tipo psichico che in via presuntiva può ritenersi derivino a chi, avendo proposto una domanda in giudizio, non veda in tempi ragionevoli intervenire una decisione sulle proprie istanze, positiva o negativa che sia. Ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’ambito della valutazione equitativa, affidato al giudice del merito, è segnato dal rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale, di tal che è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati dalla Corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purchè in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate dalla Corte europea, la quale (con ripetute decisioni adottate a carico dell’Italia) ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00, ed Euro 1.500,00, per anno la base di partenza per la quantificazione di tale indennizzo, ferma restando la possibilità di superare tali limiti, minimo e massimo, in relazione alla particolarità delle fattispecie. La precettività, per il giudice nazionale, di tale indirizzo non concerne tuttavia anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo: mentre, infatti, per la CEDU l’importo come sopra quantificato va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale nonna con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione medesima (art. 111 Cost., comma 2, nel testo fissato dalla Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2).
6. Procedendo quindi alla liquidazione di tale danno, secondo le indicazioni di cui alla stessa legge n. 89, necessariamente in via equitativa, e facendo riferimento ai criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo per tale tipo di danno ed ai parametri utilizzati da questa Corte in casi analoghi, si ritiene di liquidare in favore della ricorrente la somma di Euro 3.000,00, (Euro 1.000,00, per ciascun anno), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.
Va poi disattesa la pretesa alla liquidazione del bonus, in aggiunta al risarcimento del danno non patrimoniale, per la semplice ragione che si tratti di causa in materia previdenziale, posto che ciò non costituisce fondamento per un’automatica dazione ulteriore, che non trova alcun fondamento precipuo in un disagio maggiore per la durata del processo rispetto a quello connesso a simile situazione in altre fattispecie. Il risarcimento, infatti, non può essere ragguagliato alla tipologia dei diritti per cui si procede o alla situazione di minore o maggiore indigenza o necessità dell’accipiens, bensi al disagio avvertito in relazione al ritardo nella decisione, disagio che in relazioni a somme modeste non può certo essere sopravvalutato.
7. Per quanto riguarda la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte d’appello, deve procedersi ad una nuova liquidazione di dette spese rispetto a quella operata dalla Corte romana, posto che va considerato il valore della causa in relazione alla somma attribuita in questa sede.
Devono, invece, essere disattese le censure riguardanti l’applicazione delle tariffe utilizzate dalla Corte territoriale, nel rilievo che avrebbero dovuto utilizzarsi parametri confrontabili con gli standard europei. Parimenti infondato è l’assunto che si sarebbe dovuto procedere secondo gli onorari liquidati dalla Corte CEDU. Tali onorari attengono al regime del procedimento davanti alla Corte di Strasburgo e, quindi, nulla hanno a che vedere con il presente procedimento; analogamente per quanto riguarda gli invocati standard europei, l’attività professionale attuata in un procedimento svoltosi davanti ai giudici dello Stato, non può che essere sottoposta alle tariffe professionali che disciplinano la professione legale davanti ai tribunali e alle Corti dello Stato.
L’accoglimento sia pure parziale della domanda determina la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento della spese processuali, oltre che del primo grado, anche del presente procedimento. Tali spese sono liquidate come in dispositivo.
Ritiene poi la Corte di non poter accogliere anche il profilo inerente la liquidazione delle spese processuali del giudizio davanti alla Corte d’appello, che detta Corte ha ritenuto di compensare in base alla considerazione della mancata costituzione dell’Amministrazione. Non si ritiene infatti che simile comportamento processuale possa valere a disattendere l’aspettativa della parte ricorrente a vedersi riconoscere le spese processuali necessariamente affrontate per il riconoscimento della propria pretesa all’equo indennizzo.
L’accoglimento della domanda determina la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento della spese processuali anche per il primo grado, oltre che per quelle del presente procedimento. Tali spese sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte:
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito ex art. 384 c.p.c., condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 3.000,00, (tremila) a titolo di equa riparazione, oltre interessi al tasso legale dalla domanda; condanna il Ministero al pagamento delle spese processuali del giudizio di primo grado, che liquida in Euro 385 per diritti, Euro 600,00, per onorari e Euro 100,00, per spese, per il giudizio di legittimità in Euro 500,00, per onorari ed Euro 100,00, per spese, oltre rimborso spese generali ed accessori di legge, spese tutte che attribuisce all’avv. MARRA Alfonso Luigi, che ne ha fatto richiesta in quanto antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2008