N.G., in relazione alla asserita irragionevole protrazione di sei giudizi relativi all’impugnazione di avvisi di accertamento per Irpef ed Ilor concernenti gli anni dal 1975 al 1980, adiva la Corte d’appello di Lecce, chiedendo la condanna del Ministero delle Finanze al risarcimento dei danni L. n. 89 del 2001, ex art. 2 oltre interessi e spese. La Corte d’appello di Lecce rigettava il ricorso con decreto, rilevando che la legge invocata dal G. non trova applicazione nei giudizi tributari e che, in ogni caso, il pregiudizio lamentato non era stato sufficientemente provato nè era confortato dai presupposti richiesti dalla legge per la risarcibilità.
Avverso tale Decreto N.G. propone ricorso per cassazione successivamente illustrato da memoria; resiste con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 3 il ricorrente rileva che, affermando che il processo tributario non è compreso tra quelli per la cui irragionevole durata la L. n. 89 citata prevede il diritto all’indennizzo o risarcimento, la Corte d’Appello ha violato il citato art. 3 di tale cit. Legge che espressamente indica il Ministro delle Finanze come legittimato passivo nei procedimenti proposti per il risarcimento in ipotesi di irragionevole durata del processo tributario.
Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 101 Cost. e dell’art. 53 della CEDU, il ricorrente rileva che avrebbero errato i giudici della Corte d’appello nell’affermare che la L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 3 si pone in contrasto con l’art. 6 della CEDU, posto che tale articolo prevede solo una forma di tutela minima, ben potendo il legislatore italiano affiancare ad essa la tutela per l’irragionevole durata del processo tributario.
Secondo i ricorrenti i giudici a quo non applicando la L. n. 89 del 2001, art. 3, citato comma 3 avrebbero violato l’art. 101 Cost. che prevede la soggezione del giudice soltanto alla legge e non consente di far derivare dalle pronunce della Corte Europea l’obbligo per il giudice italiano di disapplicare una legge interna, dovendo peraltro rilevarsi che, secondo l’art. 53 CEDU, nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata in modo da ridurre o limitare i diritti o le garanzie riconosciute in base a norme degli ordinamenti giuridici nazionali.
Secondo il ricorrente, pertanto, il fatto che la legge nazionale preveda quale presupposto dell’equa riparazione la violazione dell’art. 6, p. 1 della Convenzione potrebbe essere letto come un rinvio alla giurisprudenza delle Corte Europea non per l’ambito di applicazione delle garanzie sul giusto processo, bensì per i criteri da utilizzare ai fini della determinazione della ragionevole durata.
Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 12 disp. gen., il ricorrente rileva che i giudici a quo avrebbero disapplicato la L. n. 89 del 2001, art. 3, cit. comma 3 omettendo di attribuire alla norma il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e postulando, al di là dell’inequivoco dato testuale, una erronea interpretazione dell’art. 6, p. 1 della Convenzione da parte del legislatore nazionale.
Col quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 111, 24 e 3 Cost., il ricorrente afferma che la disposizione dell’art. 111 Cost. in ordine alla ragionevole durata del processo è applicabile a qualunque tipo di processo, non facendo la citata norma che ribadire principi già espressi dagli artt. 3 e 24 Cost. e che, anche senza la cd. Legge Pinto, chiunque avesse visto violato il proprio diritto alla ragionevole durata del processo avrebbe potuto farlo valere nelle forme ordinarie davanti al giudice civile.
Col quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 56, L. n. 516 del 1982, art. 1 e L. n. 4 del 1929, art. 20, il ricorrente rileva che i giudici a quo avrebbero errato nell’affermare l’insussistenza della rilevanza penale dei fatti argomentando L. n. 516 del 1982, ex art. 1 che subordina l’illiceità penale della omessa dichiarazione dei redditi al raggiungimento di determinate soglie, nella specie insussistenti, dovendo invece fare riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 56 (applicabile nella specie ratione temporis) che riconnette rilevanza penale al raggiungimento della soglia di imposta evasa di L. 5.000.000, nella specie raggiunta per tutte le violazioni oggetto dei processi de quibus, mentre, applicando la norma successiva più favorevole dal punto di vista penale, i giudici a quo avrebbero omesso di applicare la L. n. 4 del 1929, art. 20 (ora abrogato dalla L. n. 507 del 1999, art. 24) prevedente l’irretroattività delle norme penali finanziarie.
Col sesto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 6, p. 1 della CEDU il ricorrente rileva che i giudici a quo, errando nella rilevanza penale delle violazioni finanziarie dei processi de quibus, avrebbero errato nel non applicare nella specie il rimedio previsto dall’art. 6, p. 1 CEDU, posto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea è orientata nel ritenere esperibile il rimedio che conduce all’equa riparazione in ipotesi di lite fiscale riconducibile ad una controversia sulla fondatezza di un’accusa penale.
Col settimo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 378 c.p.c., art. 24 Cost., L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 5, L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, art. 6 CEDU, artt. 2059, 2056 e 1226 c.c. il ricorrente rileva che i giudici d’appello avrebbero errato nel non riconoscere, in ordine al pregiudizio lamentato, l’incidenza causale di alcune circostanze solo dedotte, sia perchè nella memoria integrativa L. n. 89 del 2001, ex art. 3, comma 5 erano state avanzate richieste istruttorie non ammesse, sia perchè, ex art. 738 c.p.c., il giudice può assumere informazioni, sia perchè, infine, come affermato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 1339 del 2004, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione è costituito dalla violazione della Convenzione, sotto il profilo del mancato rispetto del termine di ragionevole durata.
Le censure esposte nei primi quattro motivi di ricorso, da trattare congiuntamente perchè connesse, sono infondate.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (v.
tra le altre Cass. n. 11350 del 2004), la questione proposta nei motivi in esame – se sia o meno applicabile anche ai giudizi in materia tributaria la disciplina dell’equa riparazione "per mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, p. 1 della CEDU", quale introdotta dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 e ss. – deve essere risolta in senso negativo, per le ragioni e nei limiti di cui in seguito.
Conducono infatti a tale soluzione:
A) la considerazione del collegamento genetico (quale reiteratamente sottolineato pure nei lavori preparatori della L. n. 89 del 2001) e funzionale (testualmente ed univocamente postulato dall’art. 2 stessa Legge) della citata Legge nazionale con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
B) il valore conformativo, in termini di diritto vivente (o del valore di cosa interpretata) che riveste la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, relativamente alla definizione e delimitazione della portata applicativa della fattispecie disciplinata dalla norma europea (art. 6, p. 1 cit.), alla cui violazione, appunto, il nostro legislatore ha inteso porre rimedio con il meccanismo riparatorio che qui viene in discussione;
C) le chiare indicazioni emergenti dalla giurisprudenza della stessa Corte Europea (anche di recente ribadite) nel senso della non estensibilità del campo di applicazione dell’art. 6, p. 1 CEDU alle controversie tra il cittadino ed il Fisco, aventi ad oggetto provvedimenti impositivi.
Le sintetiche osservazioni sopra esposte devono essere più analiticamente esplicitate nei termini che seguono.
Come rammentato anche nelle recenti pronunzie delle Sezioni Unite di questa Corte (sentenze nn. 1338 e 1340 del 2004), l’approvazione della L. n. 89 del 2001 è stata "determinata dalla necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi in modo da realizzare quel principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo sul quale si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo" e dal quale deriva che gli Stati che hanno ratificato la Convenzione devono riconoscere a tali diritti una "protezione effettiva (art. 13 CEDU) e cioè tale da porre rimedio alle eventuali violazioni senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo".
Un tale rimedio in precedenza non esisteva nell’ordinamento italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l’Italia per violazione dell’art. 6 della CEDU avevano "intasato" (è il termine usato dal relatore Volimi nella seduta del Senato del 28.9.2000) il giudice europeo. Rilevava la Corte di Strasburgo, prima della L. n. 89 del 2001, che le dette inadempienze dell’Italia "riflettono una situazione che perdura, alla quale non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna.
Tale accumulo di inadempienze è pertanto costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione (quattro sentenze della Corte in data 28 luglio 1999, su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferrari e A.P.)" (Così S.U. 1340/04).
La L. n. 89 del 2001 ha dunque posto riparo a quelle precedenti inadempienze dell’Italia, restituendo all’intervento della Corte Europea il carattere suo proprio di sussidiarietà (e non di supplenza) rispetto all’intervento interno.
Da ciò la perfetta simmetria di contenuto della norma nazionale rispetto al precetto comunitario, nel senso e per la ragione (chiaramente esplicitati nei lavori preparatori: v. relazione alla L. Pinto, in atti Senato n. 3813 del 16.2.1999) che il meccanismo riparatorio introdotto dal Legislatore italiano del 2001 mira ad assicurare al ricorrente "una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro della istanza internazionale", poichè il riferimento diretto all’art. 6, quale all’uopo inserito nel testo della L. n. 89 del 2001, art. 2 consente di trasferire sul piano interno "i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale".
Questa simmetria tra i due piani (interno ed internazionale) di tutela dei diritti dell’uomo coessenziale, come detto, all’attuazione del principio di sussidiarietà che deve ricondurli a sistema – si realizza, appunto, conformando la fattispecie violativa cui è ricollegata l’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 a quella disegnata dalla norma comunitaria di riferimento, come in concreto (quest’ultima) vive attraverso l’esegesi della Corte di Strasburgo.
Come rammentato nei richiamati arresti delle S.U., infatti, poichè il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla L. n. 89 del 2001 consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al Giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che, pertanto, finisce per essere "conformato" dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della L. n. 89 del 2001, ai giudici italiani.
Con riguardo specifico alla questione posta nei motivi di ricorso in esame, la Corte dei Diritti dell’Uomo, dopo aver premesso che la nozione di controversia in materia civile e di controversia in materia penale (in relazione e nei limiti delle quali è tutelato dall’art. 6, p. 1 CEDU il diritto alla ragionevole durata del processo) va determinata "in modo autonomo" da essa Corte, poichè qualsiasi altra soluzione rischierebbe di portare a risultati incompatibili con l’oggetto e la portata della Convenzione (vd.
sentenze in cause Konig. C. R.F.T. del 28.6.78 – Baraona c. Portogallo del 8.7.87 – Maaonia c. Francia n. 39652/98 Pierre Bloch c. Francia del 21.10.97), ha già avuto a tal fine occasione di escludere che rientrino nella sfera di applicazione della Convenzione le controversie relative ad obbligazioni – pur di natura patrimoniale – che "risultino da una legislazione fiscale" ed attengano, invece che a diritti di natura civile, a doveri civici imposti in una società democratica (vd. decisione in causa Schontene Meldrum c. Paesi Bassi del 9.12.94). Del resto, nella più recente sentenza in causa Ferrazzini c. Italia del 12.7.2001 quella stessa Corte – ripropostasi di (e dopo aver provveduto a) "verificare", alla luce dei cambiamenti intervenuti nella società con riguardo alla tutela concessa agli individui nei loro rapporti con lo Stato, se il campo di applicazione dell’art. 6, p. 1 CEDU dovesse o meno estendersi alle vertenze relative alla legittimità dei provvedimenti dell’amministrazione finanziaria – ha ancora una volta ribadito la estraneità ed irriducibilità delle suddette vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile, cui ha riguardo il più volte citato art. 6 CEDU, ed ha all’uopo sottolineato che "le evoluzioni verificatesi nelle società democratiche non riguardano la natura essenziale dell’obbligazione per gli individui di pagare le tasse" poichè "la materia fiscale fa parte ancora del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica".
Da ciò, quindi, la conclusione, per quel che qui rileva, che l’equa riparazione prevista dalla legge nazionale per le violazione dell’art. 6, p. 1 CEDU non è riferibile alla eventuale eccessiva protrazione della durata di controversie, involgenti la potestà positiva dello Stato, che dal quadro di tutela della norma comunitaria restano – per come visto – escluse. Nè è sostenibile (come fa parte ricorrente) che siffatta conclusione sia contraddetta dalla previsione della L. n. 89 del 2001, art. 3 che include, tra i soggetti legittimati passivi rispetto all’azione di riparazione, anche il Ministero delle Finanze quando si tratti di procedimenti tributari.
Detta ultima disposizione – che per la sua natura di norma processuale attinente alle forme di esercizio del diritto non potrebbe immutare ed ampliare i contenuti della tutela, quale definita e circoscritta dalla normativa di portata sostanziale di cui al precedente art. 2 della stessa Legge – va infatti letta in modo assolutamente coerente con il complessivo impianto sistematico della legge nazionale e della Convenzione, nel senso della sua riferibilità a quelle (e soltanto a quelle) controversie di competenza del giudice tributario, che siano riferibili: A) alla materia civile, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo ma solo aspetti a questa consequenziali, come, esemplificando, nel caso del giudizio di ottemperanza ad un giudicato del giudice tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 70 od in quello (anch’esso di competenza di quel Giudice come rammentato da S.U. 18208/03) del giudizio vertente sull’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza; B) alla materia penale, intesa quest’ultima – secondo la "nozione autonoma" elaborata anche per tal profilo dalla giurisprudenza della CEDU, di cui il giudice nazionale deve tenere conto come comprensiva anche delle controversie relative alla applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro "gravità", assimilabili sul piano della afflittività ad una sanzione penale (vd. Affare Janoseviv c. Suede del 23.7.2002).
Priva di alcun rilievo è, a questo punto, anche l’argomentazione per la quale nulla avrebbe impedito al legislatore nazionale di ampliare l’ambito della tutela predisposto dalla Convenzione, estendendo l’equa riparazione anche alle procedure tributarie in senso stretto.
Infatti, quel che vincola l’interprete non è ciò che il legislatore avrebbe in astratto potuto ma ciò che esso ha in concreto voluto disporre. Ed il Legislatore del 2001 (come inequivocabilmente si è visto emergere dalla lettera, dalla ratio, dal sistema e dai fini della L. n. 89) ha inteso propriamente, ed esclusivamente, far coincidere l’area di operatività dell’equa riparazione con quella (di violazione) delle garanzie assicurate dalla CEDU. Nè, da ultimo, la L. n. 89 del 2001, così come interpretata in correlazione e piena sintonia con l’art. 6, p. 1 della CEDU, autorizza il dubbio di un suo possibile contrasto con il novellato art. 111 Cost. che, nel tutelare a sua volta la ragionevole durata come elemento del giusto processo, fa riferimento ad ogni tipologia di processo, non escluso quello tributario, posto che una siffatta questione di legittimità costituzionale sarebbe infatti, per definizione, inammissibile con riguardo ai limiti istituzionali della funzione sindacatoria della Corte Costituzionale in rapporto alla funzione legislativa, non essendo richiedibile a quella Corte un intervento volto ad elevare il tasso di costituzionalità di norme che siano (come si prospetta per quelle in esame) non integralmente attuative o comunque non pienamente in sintonia con il precetto costituzionale; in tali ipotesi resta in premessa escluso un vulnus alla Costituzione, restando la possibile correzione migliorativa della norma – in direzione di una integrale o più completa realizzazione del valore costituzionale – di esclusiva competenza del legislatore (v. Corte Cost. n. 188/95).
Con riguardo ai motivi quinto e sesto, da esaminare congiuntamente perchè connessi, deve rilevarsi che le censure in essi proposte sono in parte infondate e in parte inammissibili.
Infatti, prescindendo da ogni altra considerazione, giova rilevare che, come già sopra esposto, la materia penale – secondo la "nozione autonoma" elaborata anche per tal profilo dalla giurisprudenza della CEDU, di cui il giudice nazionale deve tenere conto – deve essere intesa come comprensiva anche delle controversie relative alla applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro "gravità", assimilabili sul piano della afflittività ad una sanzione penale, e che pertanto, in relazione ai profili che in questa sede rilevano, per ritenere assimilabile una controversia tributaria ad una causa penale, occorre che la controversia tributaria concerna l’irrogazione di sanzioni amministrative aventi le caratteristiche sopra descritte (commutabilità e particolare afflittività), prescindendo dalla soglia di imposta evasa e indipendentemente dalla sussistenza (o meno) di una rilevanza anche penale dei fatti per i quali si controverte nel giudizio tributario.
Tanto premesso, nella specie le sanzioni irrogate negli avvisi impugnati nei procedimenti per la cui eccessiva durata si chiede il risarcimento (come riportate nel ricorso e singolarmente considerate – dovendo la valutazione effettuarsi per ciascun processo) non solo non sono commutabili in pena detentiva, ma non risultano neppure particolarmente afflittive.
Alla luce di quanto sopra esposto, i primi sei motivi di ricorso devono essere rigettati e il settimo, in quanto concernente ratio decidendi concorrente, deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, posto che anche un suo eventuale accoglimento non potrebbe giammai condurre alla cassazione della sentenza impugnata, che resterebbe pur sempre sorretta dalle rationes decidendi ritenute corrette o non adeguatamente censurate.
In relazione agli aspetti sostanziali e allo sviluppo processuale della vicenda, va disposta la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 30 aprile 2008.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2008