L.A. chiede, per sei motivi, la cassazione del decreto 20 aprile 2005 con cui la Corte di appello di Roma ne ha respinto la domanda di equa riparazione relativa a un processo promosso l’8 aprile 1998 davanti al Tribunale di Nola nei confronti dell’I.n.p.s. per ritardato pagamento di prestazioni previdenziali e definito con sentenza dell’8 maggio 2003.
Resiste con controricorso il Ministero della giustizia.
Il ricorso viene trattato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulle conclusioni del P.G. in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e art. 6, paragrafo 1, CEDU, imputando alla Corte territoriale di avere, in aperto contrasto con la giurisprudenza comunitaria e nazionale, apoditticamente escluso la sussistenza di un patema d’animo e quindi di un danno morale per la modesta entità del valore della controversia.
Con il secondo motivo, la ricorrente, denunziati gli stessi vizi, ascrive alla Corte di non avere considerato che la violazione del termine ragionevole genera ex se il diritto al risarcimento del danno morale.
Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia ancora i medesimi vizi, rilevando che la motivazione "è omessa e insufficiente".
Con il quarto motivo, la L. denuncia la violazione della L. n. 1034 del 1971, sostenendo che, ai fini della valutazione del ritardo, deve tenersi conto anche della fase stragiudiziale di costituzione in mora della P.A., necessaria in quanto strettamente collegata a quella giurisdizionale, nel senso che occorre notificare la diffida e attendere i termini di legge e solo successivamente, perdurando il silenzio, si può introdurre il ricorso al T.A.R. Erroneamente la corte territoriale ha escluso dal calcolo della durata del giudizio il tempo necessario a che, dopo la notifica di un atto di messa in mora, si formi il silenzio-rigetto della pubblica amministrazione, essendo questo invece presupposto necessario perchè l’interessato possa poi invocare la tutela giurisdizionale.
Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, artt. 132 e 112 c.p.c., rilevando di avere diritto, per il danno morale patito, a Euro 1.500,00 per ogni anno di durata del processo presupposto.
Con l’ultimo motivo, la L. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e violazione della L. n. 89 del 2001, sottolineando la necessità che i giudici nazionali applichino le norme della CEDU secondo i principi di ermeneutica espressi nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, recepiti dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione anche per quanto riguarda la valutazione dei danni morali.
I primi tre motivi, congiuntamente esaminabili prospettando la medesima questione, traguardata ora sotto il profilo della violazione di legge ora sotto il profilo motivazionale, sono, all’evidenza, inammissibili.
Tenuti presenti i principi di Strasburgo e di questa Corte in punto di calcolo della durata ragionevole del processo e di prova del danno non patrimoniale, il giudice a quo ha determinato quanto meno in due anni e sei mesi il segmento temporale in cui il processo presupposto si era ingiustificatamente protratto, attesa anche l’estrema semplicità delle questioni dibattutevi. Epperò, in sintonia con i principi enunciati da questa Corte a sezioni unite con le sentenze nn. 1338 e 1339 del 2004, ha escluso che il danno non patrimoniale possa considerarsi sempre come conseguenza automatica del ritardo. Con riferimento al caso di specie, ha ravvisato una serie di ragioni atte a ritenere vinta la presunzione che la L. abbia risentito particolare disagio nel non vedere soddisfatta tempestivamente la sua domanda di giustizia, ovverosia che l’ansia per la durata del giudizio possa aver creato nella di lei esistenza uno sconvolgimento psicologico di tale entità da potersi considerare meritevole di apprezzamento in termini di danno morale. Ha rimarcato, al riguardo, che l’azione giudiziaria non appariva essenziale neppure per le presumibili modeste condizioni economiche nè per le vitali esigenze della L., essendo stata esperita non solo per il conseguimento di somma incontestabilmente modesta (L. 232,319) e relativa a interessi di mora su prestazioni previdenziali erogate con pochi mesi di ritardo nel corso degli anni 1994 e 1996, ma per di più a notevole distanza di tempo dalla maturazione del relativo credito.
Quindi, la corte territoriale ha valutato l’assoluta peculiarità del caso correlata alla particolare irrisorietà della posta in gioco – tenuto conto, diversamente da quanto lamenta l’odierna ricorrente, anche delle presumibili modeste condizioni economiche dell’attrice – e al contegno di quest’ultima, risolutasi con notevole ritardo ad azionare giudiziariamente la pretesa degli accessori. Tale decisivo passaggio motivazionale non è stato specificamente investito dalle doglianze di cui al ricorso, che si rivela seriale e stereotipo, esponendo un ventaglio di censure prive del carattere della specificità in quanto genericamente prospettabili per tutte i provvedimenti resi in materia. A riprova di ciò, vale a dire della assoluta genericità delle censure espresse con i mezzi in esame, può additarsi la sintesi del provvedimento impugnato leggibile a pag. 1 (in fine) e 2 (all’inizio) del ricorso, in quanto essa non riporta la lettera del decisum nè contiene una enucleazione dei suoi passaggi fondamentali e in particolare del punto decisivo riguardante la determinazione della corte di desumere elementi sintomatici della mancata prova di un patema d’animo (anche) dal comportamento della parte. Addirittura, poi, con il quarto motivo di ricorso si ascrive alla corte di non avere preso in considerazione, ai fini del calcolo del ritardo, il periodo prodromico alla formazione del silenzio rifiuto, necessaria prima di impugnare il provvedimento davanti al T.a.r., laddove nella specie il giudizio presupposto aveva ad oggetto la condanna dell’I.n.p.s. al pagamento di interessi su trattamento di disoccupazione corrisposto con ritardo, ovviamente richiesta al competente giudice ordinario.
Della totale estraneità alla res controversa del quarto motivo, e quindi della sua patente inammissibilità, si è or ora detto.
Del pari inammissibili si appalesano il quinto motivo, concernente la liquidazione del danno morale, invece escluso in radice dal decreto impugnato, e l’ultimo, formulato in maniera generica e comunque senza alcuna concreta censura al decreto impugnato, compendiandosi nella elencazione di principi affermati da questa Corte e dalla Corte EDU sul danno morale da durata irragionevole del processo.
Al rigetto del ricorso segue la condanna della sua proponente alle spese di questa fase.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 800,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2008