1. Con ricorso del 13.02.1996 M.G. aveva adito il Pretore del Lavoro di Salerno per ottenere gli interessi e la rivalutazione sulle somme per indennità di disoccupazione e di mobilità al medesimo corrisposte in ritardo.
La domanda era stata accolta con sentenza depositata in data 23.01.98, ma poichè la sentenza non aveva proceduto alla liquidazione delle somme dovute, l’istante, in data 15.06.01, aveva proposto ricorso per la relativa quantificazione dinanzi al Tribunale di Salerno.
2. Essendo la causa ancora pendente, in data 2.03.05, il M. proponeva ricorso per equa riparazione per il superamento del termine ragionevole di durata del processo.
Il Ministero della Giustizia, nel costituirsi, contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto.
La Corte d’Appello di Napoli, con decreto del 5.10.05, riteneva che il tempo eccedente la ragionevole durata fosse pari ad un anno e 3 mesi e condannava, quindi, il Ministero della Giustizia al pagamento a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale della somma di Euro 1.250,00, oltre Euro 250,00 per spese processuali in favore di M.G..
3. Avverso tale decreto, quest’ultimo proponeva ricorso per Cassazione, notificato in data 14.10.06, esponendo 3 motivi di gravame.
Dopo aver riassunto lo svolgimento del processo, il ricorrente deduceva, come primo motivo di ricorso, l’errore nella liquidazione della somma di Euro 1.250,00, conseguente ad un’errata determinazione del termine ragionevole.
La somma avrebbe dovuto essere pari ad Euro 5.625,00 (e cioè Euro 125,00 al mese per 45 mesi) + Euro 2000,00 di bonus, essendo il processo durato 45 mesi ed in considerazione della materia previdenziale trattata.
Come secondo motivo di gravame la difesa di M. deduceva la violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 1 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e la violazione della L. n. 89 del 2001 per il rapporto tra normativa nazionale e sopranazionale.
Come terzo motivo di gravame la stessa difesa deduceva l’errata liquidazione delle spese processuali in relazione all’applicabilità delle tariffe professionali per i procedimenti ordinari innanzi alla Corte d’Appello, la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e degli artt. 91 e 92 c.p.c., sulla normativa in materia di tariffe professionali, ex art. 6 CEDU art. 1 prot. add.
CEDU e per motivazione incongrua in relazione agli artt. 112 e 132 c.p.c..
Le spese, infatti, dovevano essere valutate e liquidate in base alle voci di tariffa per il giudizio contenzioso ordinario e non per un procedimento di volontaria giurisdizione.
Chiedeva quindi di cassare l’impugnato provvedimento con rinvio, stante l’insufficienza della somma liquidata quale equo indennizzo.
4. Il Ministero della Giustizia, proponeva controricorso e ricorso incidentale, notificato il 28.11.2006. Secondo il Ministero il ricorso del M. era da considerarsi inammissibile, ancor prima che infondato.
Con il proposto ricorso incidentale, il Ministero deduceva, come unico motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il Ministero sottolineava che non era stato valutato il comportamento soggettivo della parte che aveva adito una prima volta la sede contenziosa a distanza di oltre cinque anni dai fatti e successivamente a distanza di dieci anni dal giudizio presupposto.
Era, altresì, rilevante la limitata entità della posta in gioco e il disinteresse mostrato non avendo presentato neppure istanza per l’anticipazione dell’udienza.
L’Avvocato dello Stato formulava Quindi due quesiti. Nel primo chiedeva alla Suprema Corte se la richiesta di ristoro, in quanto effetto naturale della durata non ragionevole del processo, non fosse da escludere in caso di mancanza di un interesse specifico, rectius apprezzabile, ad una definizione in tempi ragionevoli del processo anche a fronte della limitata rilevanza della posta in gioco.
Nel secondo, la difesa del Ministero domandava se la tipizzazione dei parametri legislativi quali la complessità del caso, il comportamento delle parti e della autorità, ai fini della individuazione del rispetto del termine ragionevole non sia, mediante interpretazione estensiva, applicabile ad altre ipotesi quali i fattori "ambientali", come tali non prevedibili e/o non prevenibili, determinanti un non naturale innalzamento dei ricorsi presentati in un certo arco temporale con conseguente ampliamento del tempo intercorrente nell’ambito del rito del lavoro tra la data di deposito del ricorso e la data di fissazione dell’udienza di prima comparizione.
Concludeva chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso principale e, in accoglimento del ricorso incidentale, di dichiarare inammissibile e/o infondata la domanda azionata con tutte le conseguenze di legge e con il favore delle spese.
5. I due ricorsi così proposti devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., e devono essere entrambi disattesi.
Quanto al ricorso principale, i motivi dedotti appaiono manifestamente infondati sia in relazione alla indicata violazione di legge, sia in relazione alla pretesa carenza o contraddittorietà della motivazione.
Contrariamente a quanto asserito dalla difesa ricorrente, la Corte d’appello di Napoli ha fatto puntuale applicazione della normativa di rilievo nella specie e della interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo e dai giudici nazionali. La motivazione resa è coerente e puntuale, sorretta da argomentazioni logiche che vanno esenti da censure di legittimità, deducibili nella presente sede.
Esaminando i motivi che investono la statuizione sul risarcimento del danno si deve innanzitutto confermare la scelta attuata dal decreto impugnato di considerare, ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, il solo periodo eccedente il termine ragionevole di durata e non l’intero periodo di durata del processo presupposto. A tale riguardo non appare risolutivo il contrario orientamento manifestato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, poichè il giudice nazionale è tenuto ad applicare le norme dello Stato e, quindi, il disposto dell’art. 2, comma 3, lett. a) della citata legge; non può, infatti, ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dei criteri di determinazione della riparazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, attraverso una disapplicazione della norma nazionale, avendo la Corte costituzionale chiarito, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, essendo piuttosto configurabile come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, "omisso medio", per tutte le autorità interne (in tal senso, questa Corte, sez. 1, sentenze n. 14 del 03/01/2008, rv. 601232; n. 1354 del 22/1/2008, rv.
601254; n. 23844 del 19.11.2007, rv. 601203).
Ciò premesso, questo Collegio ritiene che nella specie si debba condividere e confermare anche la valutazione del risarcimento fatta dalla Corte d’appello di Napoli. Innanzitutto, si deve considerare che nessun profilo di danno patrimoniale è stato dedotto dal ricorrente, che si è limitato a chiedere il risarcimento del danno morale in maggior misura per ciascun anno.
La sola voce di danno che può essere riconosciuta attiene quindi al c.d. danno non patrimoniale, da individuarsi in quelle sofferenze di tipo psichico che in via presuntiva può ritenersi derivino a chi, avendo proposto una domanda in giudizio, non veda in tempi ragionevoli intervenire una decisione sulle proprie istanze, positiva o negativa che sia.
Procedendo quindi alla verifica della liquidazione di tale danno, secondo le indicazioni di cui alla stessa L. n. 89, necessariamente in via equitativa, e facendo riferimento ai criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo per tale tipo di danno ed ai parametri utilizzati da questa Corte in casi analoghi, si ritiene che la somma liquidata in favore di M.G., nell’ammontare di Euro 1.000,00 per ciascun anno di ritardo, e così 1.250,00 Euro per un anno e tre mesi di ritardo, sia pienamente congrua ed in linea con le indicazioni della già richiamata giurisprudenza.
Va altresì escluso che possa procedersi alla liquidazione del bonus, in aggiunta alla liquidazione del risarcimento del danno non patrimoniale, per la semplice ragione che si tratti di causa in materia previdenziale, posto che ciò non costituisce fondamento per un’automatica dazione ulteriore, che non trova alcun fondamento precipuo in un disagio maggiore per la durata del processo rispetto a quello connesso a simile situazione in altre fattispecie. Il risarcimento, infatti, non può essere ragguagliato alla tipologia dei diritti per cui si procede o alla situazione di minore o maggiore indigenza o necessità dell’accipiens, bensì al disagio avvertito in relazione al ritardo nella decisione, disagio che in relazioni a somme modeste non può certo essere sopravvalutato.
6. Per quanto riguarda la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte partenopea, si deve rilevare come la difesa ricorrente incentri la sua doglianza nel rilievo che avrebbero dovuto essere applicate le tariffe professionali per i procedimenti ordinari innanzi alla Corte d’appello, sostenendo che il procedimento de quo non potrebbe essere considerato di volontaria giurisdizione in quanto sicuramente a carattere contenzioso e destinato ad una pronuncia giudiziale suscettibile di essere impugnata per cassazione a norma dell’art. 360 c.p.c.; considera ancora che non sarebbe risolutiva la disposizione che rinvia al rito in camera di consiglio al fine di applicare la voce di tariffa destinata ai procedimenti camerali.
Rileva questo Collegio come le censure non siano puntuali, dal momento che parte ricorrente avrebbe dovuto indicare nel medesimo ricorso quali voci della tariffa, diverse da quelle utilizzate, avrebbero determinato a suo vantaggio una liquidazione superiore rispetto a quella operata dai giudici partenopei, non essendosi fatta carico la parte neppure di indicare in modo più preciso quale voce di quelle liquidate avrebbe contravvenuto ai minimi tariffari previsti per l’indicata voce tabellare.
Parimenti infondato è l’assunto che si sarebbe dovuto procedere secondo gli onorari liquidati dalla Corte CEDU. Tali onorari attengono al regime del procedimento davanti alla Corte di Strasburgo e, quindi, nulla hanno a che vedere con il presente procedimento che, svoltosi davanti a giudici dello Stato, non può che essere sottoposto alle tariffe professionali che disciplinano le spese della professione legale davanti ai tribunali e alle corti dello Stato.
Il motivo è, quindi, nel suo complesso inammissibile.
7. Quanto al ricorso incidentale proposto per il Ministero della Giustizia, il primo motivo di censura va disatteso nel rilievo che la durata del processo non può essere imputata al dedotto comportamento della parte che non si sarebbe attivata con istanze di anticipazione dell’udienza. Non si ravvisa infatti alcun obbligo a carico della parte di dare specifico impulso al processo durante il suo corso, chiedendo anticipazioni di udienza o presentando istanze dirette in qualche modo a velocizzarne i tempi, non essendo neppure previsti espressi strumenti sollecitatori ed essendo al contrario a carico del giudice il compito di impartire la direzione del processo per espresso disposto dell’art. 175 c.p.c. ("Il giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento"). A carico della parte è si il dovere di non porre in essere comportamenti dilatori, ma quest’ultimo onere non giunge fino al punto da imporre alla parte istanze acceleratorie. Del resto nel caso in esame non sono stati descritti comportamenti dilatori posti in essere dalla parte.
8. Quanto al secondo quesito formulato dall’Avvocato dello Stato – al fine di accertare se la tipizzazione dei parametri legislativi quali la complessità del caso, il comportamento delle parti e dell’autorità, ai fini della individuazione del rispetto del termine ragionevole non possa essere considerata applicabile, mediante interpretazione estensiva, ad altre ipotesi quali i fattori "ambientali", come tali non prevedibili e/o non prevenibili, determinanti un non naturale innalzamento dei ricorsi presentati in un certo arco temporale con conseguente ampliamento del tempo intercorrente nell’ambito del rito del lavoro tra la data di deposito del ricorso e la data di fissazione dell’udienza di prima comparizione – deve premettersi che la L. n. 89 del 2001, ed in particolare il disposto dell’art. 2, comma 2, dispone che nell’accertare la violazione il giudice considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione". Ritiene questa Corte che la ratio della L. n. 89 del 2001 non sia quella di richiedere un’indagine circa le ragioni che di volta in volta hanno determinato il protrarsi del giudizio sottoposto a critica, al fine di accertare se i ritardi possano o meno dirsi giustificati, ma solo quella di verificare se le tappe successive attraverso le quali il giudizio è stato condotto dall’amministrazione giudiziaria abbiano richiesto tempi che per i singoli passaggi e/o nel complesso si siano risolti in un vano ed infruttuoso trascorrere del tempo.
Quanto alla ragionevole durata del procedimento nel caso in esame, non essendo stata addotta una particolare complessità della materia, si deve considerare che gli elementi obiettivi considerati dalla difesa del Ministero sono già valsi a fare innalzare il tempo ritenuto ragionevole dai pochi mesi supposti dalla difesa del ricorrente e previsti dal rito del lavoro, ai tre anni di fatto considerati. Non ritiene, invece, la Corte che possa andare a discapito del diritto della parte alla ragionevole durata del processo l’esigenza in cui lo Stato si è venuto a trovare a causa dell’elevato numero dei ricorsi e del conseguente arretrato dei processi in materia laburistica pendenti, ai quali fattori non è stato in grado di porre adeguato rimedio.
9. Entrambi i ricorsi non meritano, pertanto, accoglimento e vanno respinti, in quanto manifestamente infondati. Consegue, ricorrendone giusti motivi, la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
LA CORTE Riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa le spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2008