Con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Roma N. F. chiedeva l’equa riparazione del danno sofferto per la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea 4 Novembre 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ratificata con L. 4 Novembre 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del processo da lei instaurato dinanzi al giudice del lavoro di nola per il riconoscimento dei benefici dovuti agli invalidi civili.
Esponeva che il processo di appello in punto an debeatur, proposto con ricorso dinanzi al Tribunale di Napoli, depositato il 28 Dicembre 1996, era stato deciso quattro anni dopo, con sentenza emessa all’udienza del 17 novembre 2000 e depositata il 9 gennaio 2001;
laddove il successivo processo per la determinazione del quantum debeatur, promosso con ricorso depositato il 22 marzo 2001, era tuttora pendente.
Con decreto 31 Gennaio – 14 Marzo 2005 la Corte d’appello di Roma rigettava il ricorso, compensando tra le parti le spese processuali.
Motivava che, contrariamente alla ricostruzione unitaria offerta dalla N., i due processi – rispettivamente sull’an e sul quantum debeatur – dovevano essere valutati separatamente: con la conseguenza che, per il primo, la domanda di equa riparazione era preclusa per tardività L. 24 marzo 2001, n. 89, ex art. 4; mentre, nessuna violazione rispetto al termine ragionevole ordinario di tre anni era ravvisabile, allo stato, per il secondo processo.
Avverso la decisione proponeva ricorso per cassazione della N., deducendo:
1) la violazione di legge e il vizio di motivazione nell’omesso accertamento del danno non patrimoniale, che era invece in re ipsa, quale diretta conseguenza delle lungaggini processuali: come più volte affermato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo;
2) l’inosservanza della Convenzione europea, dato che il processo doveva intendersi definito solo quando vi fosse l’effettiva soddisfazione del diritto, e nella specie era stato necessario proporre una seconda domanda tendente alla quantificazione del credito, accertato solo con sentenza di condanna generica: onde, era illegittima la scissione dei due procedimenti ai fini della valutazione del termine ragionevole;
3) la violazione di legge nel ritenere non violato il termine ragionevole in un processo durato, in grado d’appello, 47 mesi: e quindi, ben più della durata canonica di un processo civile, e tanto più in materia assistenziale, caratterizzata, per la disciplina stessa del rito, da maggiore celerità;
4) la falsa applicazione di legge per contrasto con la giurisprudenza europea nell’omessa liquidazione dell’equa riparazione rapportata all’intera durata del processo, e non solo, in ipotesi, per gli anni di ritardo;
5) la violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea, per il mancato riconoscimento della somma di Euro 1.000,00, – 1.500,00, per ogni anno di durata della causa, oltre Euro 2.000,00, a titolo di bonus forfettario, in ragione della materia.
Resisteva con controricorso il Ministero della giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
Il nucleo centrale della ratio decidendi del decreto impugnato è il carattere non unitario dei due processi: separatamente e consecutivamente promossi per l’accertamento, dapprima, del diritto di credito (an debeatur), e poi per la liquidazione della somma (quantum debeatur). La scissione in due momenti processuali distinti – che non poteva non comportare un inevitabile prolungamento del contenzioso, è dipesa da una scelta della stessa N., che in sede di edictio actionis si era limitata a chiedere una sentenza di condanna generica – e cioè, in sostanza, il mero accertamento del diritto vantato – riservando, all’esito, la successiva iniziativa processuale per ottenere il titolo esecutivo.
Si tratta di una scelta rimessa all’esclusiva e insindacabile volontà della parte – non essendo ammissibile, al riguardo, alcun potere officioso del giudice – che comporta la reciproca autonomia dei processi, anche sotto il profilo del rispetto del termine di ragionevole durata, distintamente valutabile.
Appare quindi corretta la dichiarazione d’inammissibilità, per decadenza dall’azione di equa riparazione in ordine al primo processo, conclusosi, in grado d’appello, con sentenza depositata il 9 Gennaio 2001; dal momento che il ricorso L. 24 Marzo 2001, n. 289, ex art. 2, è stato presentato ben oltre il termine di sei mesi prescritto.
Pure corretta, nel merito, è la decisione di rigetto in ordine al secondo processo, che, al momento della domanda di riparazione non aveva ancora ecceduto il termine di durata di tre anni ritenuto ragionevole per giurisprudenza costante: non sussistendo specifiche ragioni per derogare ad esso in ragione di una particolare semplicità del caso.
Il ricorso deve essere dunque rigettato, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio liquidate come in dispositivo, tenuto conto del valore della causa e del numero e complessità delle questioni trattate.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in Euro 600,00, per onorari, oltre le spese prenotate a debito Così deciso in Roma, il 20 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2008