I. La ricorrente è proprietaria di un immobile, ricadente nel Comune di Furnari e confinante con l’immobile di proprietà della ditta M. L..
Quest’ultimo edificio è stato realizzato di seguito a demolizione di un vecchio fabbricato e ricostruzione a due elevazioni f.t., autorizzate con concessione edilizia n. 268 del 27.5.1978.
Quest’ultima era stata rilasciata in forza di una disposizione del R.E. (art. 60), che così recita:"In questa zona sono ammesse opere di consolidamento e restauro conservativo, senza alterazione dei volumi. Nel caso in cui l’edificio non presenti alcun valore storico-artistico o presenti precarie condizioni di conservazione e stabilità è ammessa la ricostruzione. In quest’ultimo caso è consentita l’edificazione di due piani fuori terra e, nel caso che gli edifici adiacenti presentino altezze superiori, è consentita l’edificazione di tre piani fuori terra per un’altezza non superiore a quella degli edifici adiacenti nonché in ogni caso a mt. 10,50".
Successivamente, il Comune di Furnari, senza tenere conto del disposto dell’art. 60 in esame, rilasciava alla ditta M. concessione edilizia n. 7/93 per la realizzazione della terza elevazione f.t..
Avvedutasi dell’errore, l’Amministrazione comunale, dapprima, sospendeva i lavori e, subito dopo, annullava d’ufficio la C.E. n. 7/93 con ordinanza n. 70 del 18.6.1997, adottata sul presupposto che l’art. 60 del R.E. ammette la possibilità di realizzare una terza elevazione f.t. esclusivamente nell’ipotesi in cui vi sia stata una richiesta autorizzata contestualmente alla istanza volta alla realizzazione di due sottostanti elevazioni.
La illustrata interpretazione dell’art. 60 del R.E. veniva accolta da questo stesso Tribunale con la sentenza n. 2210 del 23.10.2001, non appellata e, quindi, passata in cosa giudicata.
Per effetto del giudicato nascente dalla citata sentenza, quindi, la situazione giuridica dei luoghi sarebbe la seguente: il fabbricato di proprietà della ditta M. sarebbe stato regolarmente realizzato a due elevazioni f.t. in forza della concessione edilizia n. 268/78; su tale fabbricato non sarebbe assentibile alcuna terza elevazione, alla luce del disposto dell’art. 60 R.E. e della statuizione contenuta nella sentenza dell’On. T.A.R. passata in giudicato.
Ciononostante, e malgrado l’esistenza di diversi atti di diffida con i quali la ricorrente ha reiteratamente invitato il Comune di Furnari a fornire piena esecuzione al giudicato nascente dalla sentenza n. 2210/01, l’Area tecnica del Comune, tramite il provvedimento impugnato, ha ritenuto, in asserito contrasto con il predetto giudicato, di rilasciare a favore della ditta M. la concessione edilizia n. 12/2006 avente ad oggetto, per l’appunto, la realizzazione di quella "terza elevazione fuori terra" giudicata non essere giuridicamente assentibile.
Avverso la concessione edilizia da ultimo rilasciata e tutti gli atti ad essa presupposti, la ricorrente ha presentato il ricorso in esame, affidandolo ai seguenti motivi di gravame:
1.- Violazione dell’art. 21-septies L. 241/90 e s.m.i..
La C.E. n. 12/2006 è stata adottata dal Comune di Furnari in palese violazione del giudicato formatosi sulla sentenza dell’On. T.A.R. n. 2210/01.
Ne conseguirebbe la nullità ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-septies della L. 241/90 e s.m.i..
2.- Violazione dell’art. 60 R.E.. Difetto di motivazione e di istruttoria. Eccesso di potere per contraddittorietà con precedenti provvedimenti, per travisamento dei presupposti, per sviamento.
Nel caso di specie, questo Tribunale avrebbe negato espressamente la sussistenza di entrambi i requisiti prescritti per un legittimo assenso alle richieste di realizzazione del terzo piano f.t., vale a dire un’istanza di autorizzazione contestuale a quella originaria e l’insussistenza di un’"ipotesi di ricostruzione di un precedente fabbricato"(pag. 13 della sentenza n. 2210/01, passata in cosa giudicata).
Alla luce delle dette considerazioni, non potrebbe avere alcun rilievo il presunto "fatto nuovo" sul quale il Comune di Furnari avrebbe fondato la concessione edilizia impugnata, vale a dire (cfr. pag. 2 della C.E. n. 12/06), che la ditta M. avrebbe titolo a realizzare la terza elevazione f.t. in virtù della circostanza che, con atto di compravendita del 20.9.2000, ha acquistato un terreno limitrofo.
In disparte la considerazione che né l’Area tecnica né la C.E.C. avrebbero espresso le ragioni in forza delle quali l’acquisto di un terreno limitrofo consentirebbe alla ditta M. di "superare" il divieto imposto dall’art. 60 del R.E., di tal guisa che la C.E. n. 12/06 sarebbe viziata per oscurità della motivazione e per difetto di istruttoria, la facoltà concessa dall’art. 60 R.E. sarebbe eccezionale, non estensibile quindi a ipotesi distinte, e, soprattutto, proprio perché espressamente qualificata come "deroga", presupponente un generale divieto, nelle zone B, di edificare tre elevazioni fuori terra.
In somma sintesi, il divieto di elevare il terzo piano f.t., derogabile solo in presenza di domanda contestuale ai lavori, non sarebbe superabile dall’eventuale aumento della superficie sulla quale calcolare la volumetria (ove questo fosse l’intento perseguito dalla ditta M. tramite l’acquisto di un terreno limitrofo), poiché la ragione ostativa non consiste in una deficienza di volumetria ma dalla norma di cui all’art. 60 del R.E..
3.- Domanda risarcitoria.
La ricorrente ha chiesto la condanna del Comune resistente alla rifusione di tutti i danni, subiti e subendi, cagionati dall’illegittima adozione a favore della ditta controinteressata di un titolo concessorio privo di qualsivoglia requisito per il suo rilascio.
II. Con il ricorso in esame, parte ricorrente si duole del rilascio di una concessione edilizia in capo alla controinteressata in spregio all’art. 60 del Regolamento Edilizio ed alla decisione resa da questo stesso Tribunale con sentenza n. 2210/2001, con la quale, è stata dichiarata non assentibile, proprio per effetto dell’applicazione della detta disposizione, in zona B la terza elevazione f.t., oggetto della concessione edilizia adesso contestata con il ricorso in esame.
Preliminarmente, precisa il Collegio, il ricorso appare tempestivo, posto che l’Amministrazione, seppur costituita, non ha dedotto la tardività del gravame e che "la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica" (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 05 gennaio 2011, n. 18) e, quindi, non dal momento della pubblicazione all’albo pretorio (T.A.R. Sicilia Catania, sez. I, 27 settembre 2010, n. 3835).
III. Le premesse circa la mancata resistenza in giudizio anticipate al punto II, vanno meglio precisate al fine di dirimere la controversia nel merito.
L’impianto motivazionale del ricorso su appunta su due elementi fondamentali:
a) difetterebbe una congrua motivazione nel provvedimento impugnato circa le ragioni secondo le quali l’aumento di superficie utile (e, quindi, di volumetria) consentirebbero il rilascio della concessione edilizia relativamente al richiesto piano terzo f.t., in precedenza negato sulla scorta dell’art. 60 del Regolamento edilizio;
b) la bontà della tesi sostenuta sub a) sarebbe confermata da una decisione di questo Tribunale passata in cosa giudicata.
Il Comune si è costituito con una costituzione praticamente formale.
Parte controinteressata non si è costituita.
Il provvedimento impugnato contiene il riferimento al parere espresso dalla C.E.C. il 29.7.2005 ed a quello reso il 28.6.2006 dal medesimo UTC.
Gli atti non sono stati depositati in giudizio.
Il Collegio, quindi, esamina se gli stessi debbano essere acquisiti ai sensi dell’art. 64, comma 3, c.p.a. o se si possa prescindere e, quindi, decidere il ricorso.
Il Tribunale ritiene quanto segue.
L’art. 46 c.p.a. stabilisce che:
"Nel termine di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso, le parti intimate possono costituirsi, presentare memorie, fare istanze, indicare i mezzi di prova di cui intendono valersi e produrre documenti.
2. L’amministrazione, nel termine di cui al comma 1, deve produrre l’eventuale provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio".
L’Amministrazione non ha prodotto alcun atto, neanche quello impugnato né quelli in esso richiamati.
L’art. 64 c.p.a., intitolato "Disponibilità, onere e valutazione della prova" così recita:
"Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni.
2. Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite.
3. Il giudice amministrativo può disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione.
4. Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento e può desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo".
Premette il Collegio che è stato sostenuto (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 11 febbraio 2011, n. 924) che "nel processo amministrativo, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice approvato con D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104 (cfr. art. 64, comma 3, cod. proc. amm.), il sistema probatorio è fondamentalmente retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, il quale comporta l’onere per il ricorrente di presentare almeno un indizio di prova perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 7 ottobre 2009, n. 6118): e ciò, per l’appunto, è contemplato dal "sistema" proprio in quanto il ricorrente, di per sé, non ha la disponibilità delle prove, essendo queste nell’esclusivo possesso dell’amministrazione ed essendo quindi sufficiente che egli fornisca un principio di prova".
È stato, altresì, precisato che "l’assenza di ogni difesa da parte dell’Amministrazione comporta l’applicazione del principio di non contestazione ex art. 64, comma 2, D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, cd. "Codice del processo amministrativo", ovvero, argomenti di prova sfavorevoli ex art. 64, co. 4, medesimo testo, dovendosi ricavare che, rispetto a quanto dedotto in ricorso e asserito da questo Collegio, l’Amministrazione non avesse alcuna difesa utile da opporre" (cfr. T.A.R. Piemonte Torino, sez. II, 25 febbraio 2011, n. 196).
Il Collegio esamina le due tesi appena prospettate.
Chiaro è che l’acquisizione giudiziale va disposta quando parte ricorrente abbia difficoltà, per non avere la disponibilità degli atti, di comprovare l’assunto dedotto in giudizio.
Il principio è confermato dal comma 1 del citato art. 64 c.p.a., che onera le parti a fornire gli elementi di prova "che siano nella loro disponibilità" e "posti a fondamento delle domande e delle eccezioni" e dal comma 3 del medesimo articolo, che consente che il giudice possa disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione.
È da ritenere, pertanto, che il consolidato principio dispositivo con metodo acquisitivo sopra succintamente richiamato, che ha caratterizzato il processo prima dell’introduzione del codice, abbia ricevuto un’importante precisazione, con l’introduzione di un onere probatorio pieno per le parti che abbiano la disponibilità degli atti.
Sicché la potestà del Collegio di disporre gli opportuni mezzi probatori è meramente residuale e circoscritta alle sole ipotesi in cui la parte diversa dall’Amministrazione non abbia la disponibilità degli atti posti a fondamento delle doglianze trasfuse nel giudizio o necessiti la prova che atti di parte siano stati dalla stessa acquisiti (si pensi, ad esempio, alle istanze di condono edilizio, atti ad impulso privato, ma per i quali, in assenza di alcuna formalizzazione di ricezione, può essere scrutinato, a diversi fini, il loro effettivo deposito).
In tal senso va interpretato anche il primo comma dell’art. 63 che sancisce che "fermo restando l’onere della prova a loro carico, il giudice può chiedere alle parti anche d’ufficio chiarimenti o documenti", in quanto non avrebbe senso alcuno tenere fermo il principio dell’onere della prova se il potere di indagine fosse comunque "libero" o limitato solo dalla necessità di indicare un principio di prova.
In ogni caso, il libero scrutinio probatorio da parte del Giudice sarebbe contraddittorio con i principi espressi dai primi tre commi dell’art. 64.
È da sottolineare, infatti, che il potere di indagine è rilasciato ad una mera "possibilità" (come il termine "può disporre" di cui al terzo comma dell’art. 64), recessiva rispetto alla doverosità sancita al secondo comma, ove viene stabilito che il "giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite".
Sicché, se vi sia un fatto incerto, in quanto contestato dalla stessa Amministrazione costituita, ma non supportato da documenti dalla stessa prodotti in giudizio, il giudice, al fine di chiarire i contorni del giudizio, potrà disporre l’acquisizione di cui al comma 3; analogamente, potrà farlo ove le contrapposte produzioni documentali non siano sufficienti a chiarire i contorni del giudizio.
Se il medesimo fatto, invece, seppur non corroborato da una esaustiva produzione documentale, sia posto a fondamento delle doglianze e l’Amministrazione, seppur costituita, non lo contesti, per il disposto di cui al comma 2, va ritenuto provato e, quindi, a fronte della doverosità di formazione del convincimento ivi espressa, non è dato al giudice accedere alla possibilità di acquisizione documentale.
In altri termini, quest’ultima, in quanto meramente possibile è recessiva non solo rispetto alla produzione documentale fornita dalle parti, ma lo è anche nell’ipotesi in cui la prova debba essere raggiunta mediante documenti detenuti dall’Amministrazione, ove quest’ultima, costituita in giudizio, non abbia contestato i fatti dedotti in giudizio contenuti in detta documentazione, la cui esibizione, dunque, diventa inutile (e impedita ex lege) per effetto dell’ammissione implicita della stessa Amministrazione.
Infine, in parziale dissenso dalla decisione del TAR Piemonte n. 196/2011 in premessa citata, il potere di indagine del giudice non è interdetto nelle ipotesi in cui l’Amministrazione non sia costituita, appunto, per il sol fatto che la stessa non sia intervenuta nel processo, posto che il giudizio deve fondarsi, ex art. 64, comma 2, c.p.a., sulle prove fornite dalle parti e sui fatti non "specificamente" contestati dalle parti che siano costituite.
L’utilizzo del termine specificamente, ad avviso del Collegio, sta ad indicare che dalla mancata costituzione dell’Amministrazione non possano ricavarsi elementi di prova quali l’ammissione implicita delle ragioni altrui, sicché il Giudice , in questo caso, potrà avvalersi del suo potere di indagine, ove le prove fornite dalle altre parti non siano sufficienti a determinare il suo giudizio.
IV. Facendo uso dei predetti principi, il Collegio ritiene che la mancata concreta contestazione da parte dell’Amministrazione, costituita in giudizio e regolarmente informata dell’udienza di discussione, del motivo di gravame secondo il quale il provvedimento impugnato sarebbe affetto da difetto di adeguata motivazione (eventualmente rinvenibile negli atti non esibiti dall’Amministrazione e richiamati nel provvedimento impugnato) va interpretata come conferma dell’assunto di parte ricorrente, sicchè è da ritenere che l’ampliamento della superficie e dei volumi utili non possano costituire motivo di deroga dell’art. 60 del Regolamento edilizio.
In altri termini, la mancata contestazione dell’altro assunto motivazionale del ricorso, vale a dire l’insussistenza di una norma, diversa dall’art. 60 del R.E., che consenta la realizzazione della terza elevazione f.t., determina la sua ammissione e, dunque, l’inutilità di acquisizione dei detti atti.
Ne consegue la fondatezza del ricorso e l’annullamento del provvedimento impugnato.
V. Parte ricorrente chiede risarcimento del danno, riservandosi la quantificazione.
Con memoria depositata in data 7.4.2011 chiede anche il risarcimento in forma specifica, vale a dire la demolizione del manufatto, nonché quello in via equitativa derivante dal disagio subito per la sopraelevazione illegittima accanto alla propria abitazione.
La memoria non risulta notificata,
All’udienza di discussione ha, altresì, richiesto l’applicazione dell’art. 26, comma 2, c.p.a. e, quindi, l’aggiunta alle spese di giudizio di una somma di danaro equitativamente determinata.
Ciò posto, il Collegio, conformemente alla giurisprudenza della Sezione e alla disposizione contenuta proprio nell’art. 64, comma 1, c.p.a. ritiene di non doversi discostare dall’arresto del Giudice di seconde cure (cfr. Consiglio di stato n. 924/2011, cit.), secondo il quale "la disciplina contenuta nell’art. 2697 cod. civ. (corrispondente, ora, all’art. 64, comma 1, cod. proc. amm.) secondo la quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti, deve trovare integrale applicazione anche nel processo amministrativo ogniqualvolta non ricorra tale disuguaglianza di posizioni tra Pubblica Amministrazione e privato, come – per l’appunto – nel caso di specie, laddove si verte esclusivamente sulla spettanza, o meno, di un risarcimento del danno: con la conseguenza che, a pena di un’inammissibile inversione del regime dell’onere della prova, non è consentito al giudice amministrativo di sostituirsi alla parte onerata quando quest’ultima si trovi nell’impossibilità di provare il fatto posto a base della sua azione (cfr., al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato , Sez. V, 10 novembre 2010 n. 8006)".
A tutta evidenza la domanda introdotta in giudizio appare assolutamente generica, mentre le successive specificazioni (risarcimento in forma specifica e in forma equitativa) sono state introdotte in giudizio soltanto con memoria depositata il 7.4.2011.
Ritiene il Collegio che non sia sufficiente il rispetto della notifica del ricorso, e della correlata domanda di risarcimento del danno, anche agli eventuali beneficiari del provvedimento illegittimo, come previsto dall’invocato art, 41, comma 2, del c.p.a., ove l’oggetto del ricorso notificato non sia determinato in maniera tale da consentire la percezione della domanda e, come sopra chiarito, non la stessa non sia adeguatamente supportata da elementi probatori o, quanto meno, da indizi esplorabili, in sede di consulenza tecnica d’ufficio.
In particolare, poi, l’art. 30, comma 2, del c.p.a. ammette espressamente la possibilità di richiesta, sussistendone i presupposti, di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c., purché, ritiene il Collegio, la stessa sia espressamente contenuta nella domanda, mentre, come premesso, l’azione è stata introdotta irritualmente solo con memoria non notificata.
Non può accedersi alla tesi di parte ricorrente del risarcimento del danno "in re ipsa" e, come tale, derivante dalla violazione oggetto del ricorso in esame.
Invero, la giurisprudenza richiamata a sostegno delle ragioni introdotte in giudizio (Cassazione civile, sez. II, 07 maggio 2010, n. 11196), limitano alla violazione delle distanze legali l’ipotesi della configurabilità del danno in re ipsa.
In maniera più dettagliata si esprime altra decisione della Suprema Corte (cfr. Cassazione civile, sez. II, 16 dicembre 2010, n. 25475), secondo la quale "in materia di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, e, determinando la suddetta violazione un asservimento di fatto del fondo, il danno deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria.
È vero che nella giurisprudenza di questa Corte è presente anche un indirizzo di segno diverso, a termini del quale la violazione delle norme codicistiche sulle distanze legali (ovvero delle norme locali richiamate dal codice), mentre legittima sempre la condanna alla riduzione in pristino, non costituisce di per sé fonte di danno risarcibile, essendo al riguardo necessario che chi agisca per la sua liquidazione deduca e dimostri l’esistenza, oltre che la misura, del pregiudizio effettivamente realizzatosi (Cass., Sez. 2^, 23 marzo 1982, n. 1838; Cass., Sez. 2^, Cass., Sez. 2^, 2 agosto 1990, n. 7747; Cass., Sez. 2^, 24 settembre 2009, n. 20608).
Quest’ultimo orientamento non è condiviso dal Collegio.
L’atto edificatorio del vicino in violazione delle norme, del codice o regolamentari comunali, sulle distanze, oltre a ledere gli interessi pubblici sottesi alla disciplina concernente l’assetto del territorio, pone in essere un’attività edilizia eccedente quanto è previsto, nei rapporti tra confinanti, dalla normativa conformativa del diritto di proprietà, sicché il privato che, nei confronti dell’edificante illegittimo, lamenti la lesione della sua sfera proprietaria, ha diritto, ai sensi dell’art. 872 c.c., comma 2, ad una doppia tutela: all’eliminazione dello stato di cose che si è illegittimamente creato e al risarcimento del danno patito medio tempore.
L’inosservanza delle distanze legali nelle costruzioni sui fondi finitimi costituisce per il vicino una limitazione al godimento del bene, e quindi all’esercizio di una delle facoltà che si riconnettono al diritto di proprietà: per questo il danno è in re ipsa, perché l’azione risarcitoria è volta a porre rimedio all’imposizione di una servitù di fatto e alla conseguente diminuzione di valore del fondo subita dal proprietario in conseguenza dell’edificazione illegittima del vicino, per il periodo di tempo anteriore all’eliminazione dell’abuso.
Il Collegio intende dare continuità al prevalente indirizzo – non soltanto risalente nella giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. 2^, 27 febbraio 1946, n. 201; Cass., Sez. 2^, 8 maggio 1946, n. 551; Cass., Sez. Un., 24 giugno 1961, n. 1520; Cass., Sez. 2^, 12 febbraio 1970, n. 341), ma anche ribadito negli arresti degli ultimi lustri (Cass., Sez. 2^, 15 dicembre 1994, n. 10775; Cass., Sez. 2^, 25 settembre 1999, n. 10600; Cass., Sez. 2^, 7 marzo 2002, n. 3341; Cass., Sez. 2^, 27 marzo 2008, n. 7972; Cass., Sez. 2^, 7 maggio 2010, n. 11196) – che, in caso di violazione delle norme sulle distanze, concede al proprietario, nei confronti dell’edificante illegittimo, l’azione risarcitoria per il danno determinatosi prima della riduzione in pristino, senza la necessità di una specifica attività probatoria.
Questa soluzione non determina un eccesso di tutela per il proprietario od uno snaturamento del sistema della responsabilità civile, che, com’è noto, ammette la risarcibilità del solo danno conseguenza (cfr., con riguardo al danno non patrimoniale, Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
Discorrere di danno in re ipsa, infatti, non significa riconoscere che il risarcimento venga accordato per il solo fatto del comportamento lesivo o si risolva in una pena privata nei confronti di chi violi l’altrui diritto di proprietà, in contrasto, tra l’altro, con la tavola dei valori espressa dalla Carta costituzionale, che riconosce e garantisce la proprietà privata, ma non la inquadra tra i diritti fondamentali della persona umana, per i quali soltanto è predicabile una connotazione di inviolabilità, di incondizionatezza e di primarietà.
Significa, piuttosto, ammettere che, nel caso di violazione di una norma relativa alle distanze tra edifici, il danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non danno evento) è l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima.
Il principio della immancabilità del risarcimento del danno non vale invece là dove si tratti di violazioni di disposizioni non integrative di quelle sulle distanze: in tale evenienza, mancando un asservimento di fatto del fondo contiguo, la prova del danno è richiesta ed il proprietario è tenuto a fornire una dimostrazione precisa dell’esistenza del danno, sia in ordine alla sua potenziale esistenza che alla sua entità obiettiva, in termini di amenità, comodità, tranquillità ed altro (tra le tante, Cass., Sez. 2^, 5 giugno 1998, n. 5514; Cass., Sez. 2^, 12 giugno 2001, n. 7909; Cass., Sez. 2^, 7 marzo 2002, n. 3341, cit.)".
Prendendo spunto da detta ultima affermazione, il Collegio ritiene che la sopraelevazione, oggetto della contestazione in esame, non necessariamente costituisca un nocumento (o un apprezzabile pregiudizio) per il fondo limitrofo, dovendosi dimostrare l’effettività del danno, quale, ad esempio, la limitazione del panorama o degli altri connotati del godimento immobiliare.
Basterebbe pensare all’immobile sovrastante quello abusivo o realizzato per effetto di titolo ritenuto, come nel caso in esame, illegittimo, di tal guisa che l’eventuale sopraelevazione di quest’ultimo non abbia affatto impedito al primo la vista e le comodità connesse all’uso del bene di proprietà.
Da qui la necessità della prova del pregiudizio, mancando la quale, non è possibile accedere ad alcun risarcimento e, comunque, a graduarlo.
VI. Analogamente, non può essere accolta l’ulteriore domanda di risarcimento dei danni esistenziali e morali lamentati genericamente dalla istante (sempre nella memoria del 7.4.2011), "in quanto trattasi di domanda che . . . non risulta assistita dalla prova concreta del danno non patrimoniale paventato, e, neppure, da un principio di prova in ordine ad eventuali ripercussioni negative . . . sulle consuetudini di vita degli istanti.
Infatti, come ribadito anche di recente dal Consiglio di Stato (cfr. decisione Sez. VI, 18 marzo 2011 n. 1672), la pretesa risarcitoria avente ad oggetto il danno non patrimoniale – ove non si sia verificato un mero disagio o fastidio, inidoneo, ex se, a fondare una domanda di risarcimento del danno – esige una allegazione di elementi concreti e specifici da cui desumere, secondo un criterio di valutazione oggettiva, l’esistenza e l’entità del pregiudizio subito, il quale non può essere ritenuto sussistente in re ipsa, nè è consentito l’automatico ricorso alla liquidazione equitativa" (cfr. T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 30 marzo 2011 , n. 854).
Secondo altro condivisibile arresto giurisprudenziale (cfr. T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste, sez. I, 26 maggio 2011 , n. 260), "la sussistenza di un danno non patrimoniale risarcibile di cui all’art. 2059 c.c., difatti, deve essere dimostrata, sempre secondo la Suprema Corte, anche quando derivi dalla lesione di diritti inviolabili della persona, dal momento che costituisce "danno conseguenza", e non "danno evento"; né può sostenersi fondatamente che "nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo" (Cass. Civ., SS.UU, sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008)".
Conclusivamente, la genericità della richiesta e la mancata dimostrazione del danno ricevuto determinano il rigetto della domanda risarcitoria.
VII. È possibile accedere, invece, alla richiesta di cui all’art. 26, comma 2, c.p.a., articolata in udienza pubblica, posto che la stessa può anche essere delibata d’ufficio e, pertanto, non richiede gli adempimenti ritenuti necessari sia per la corretta introduzione della domanda che per la dimostrazione del danno ricevuto.
Invero, il precedente giudicato formatosi di seguito alla sentenza n. 2210/01 di questo stesso Tribunale, in mancanza di altri apporti giustificativi e di una motivazione "forte", tali, cioè, da consentire la riedizione del medesimo provvedimento ritenuto dalla detta decisione in precedenza illegittimo, ha reso, così come richiesto dalla invocata norma del codice, manifeste le ragioni di parte ricorrente.
In dipendenza della detta considerazione va disposta la condanna, in via equitativa, del Comune intimato a favore della ricorrente, della somma di cinquemila/00.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così statuisce:
1) accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati;
2) rigetta la domanda di risarcimento del danno;
3) condanna l’Amministrazione intimata, ai sensi dell’art. 26, comma 2, c.p.a., al pagamento in favore della parte ricorrente della somma di cinquemila/00;
4) condanna l’Amministrazione intimata alle spese di giudizio che vengono liquidate in duemila/00, oltre spese generali, IVA, c.p.a..
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 12 maggio 2011 con l’intervento dei magistrati
Biagio Campanella, Presidente
Pancrazio Maria Savasta, Consigliere, Estensore
Francesco Bruno, Primo Referendario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 01 AGO. 2011.