Con l’ordinanza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Roma dichiarava l’inammissibilità della istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione presentata da B.F., agli arresti domiciliari dal 21.4.1994 al 12.5.2004 nel corso del procedimento penale in cui era stato imputato di reati di associazione a delinquere e concussione, successivamente configurati come corruzione ex artt 319 e 321 c.p. e frode fiscale ex L. n. 516 del 1982, art. 4.
La Corte rilevava che tale procedimento si era concluso, quanto al reato di corruzione, con sentenza di assoluzione con la formula perchè il fatto non sussiste della Corte di appello di Roma del 26.10.2004 (divenuta definitiva il 25.2.2005) e, per il reato di frode fiscale, con sentenza divenuta definitiva del Tribunale di Roma in data 3 giugno 2003 di assoluzione perchè il fatto non era più previsto come reato a seguito del D.Lgs. n. 74 del 2000, che ha abrogato il titolo 1 della L. n. 516 del 1982.
Da tale modifica legislativa, con conseguente abrogazione della fattispecie prevista dalla L. n. 516 del 1982, art. 4, conseguiva, ad avviso della Corte, l’applicabilità dell’art. 314 c.p.p., comma 5, che esclude l’ingiustificata detenzione ed il conseguente diritto alla riparazione, in quanto l’ordinanza di custodia cautelare, risalente ad epoca antecedente la modifica normativa, contestava al B. anche il reato di frode fiscale per il quale era previsto l’arresto.
Poichè l’assoluzione era stata pronunciata solo per l’intervenuta modifica legislativa e non per l’insussistenza della condotta allo stesso addebitata, il diritto di riparazione non era configurabile.
Propone ricorso per Cassazione, tramite difensore, B. F., articolando un unico motivo con il quale lamenta la nullità della ordinanza di inammissibilità per violazione delle norme processuali.
Si duole della dichiarazione di inammissibilità pronunciata dal giudice della riparazione, sostenendone l’erroneità, in quanto la valutazione del giudice della riparazione, nella fattispecie, atteneva alla fondatezza della domanda non ai requisiti che, per legge, ne determinano l’ammissibilità.
Nel merito, lamenta l’erroneità della decisione, sostenendo che la Corte di merito aveva il potere di valutare il materiale acquisito nel processo penale allo scopo di controllare l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione.
Ciò sul rilievo che, contrariamente a quanto affermato nel provvedimento impugnato, non era vero che la frode fiscale sarebbe stata pacificamente ammessa e riscontrata nel giudizio di secondo grado.
Inoltre, il reato ipotizzato era stato contestato nella sua ipotesi base, laddove la pena applicabile non avrebbe neppure consentito la privazione preventiva della libertà personale.
Il Ministero dell’economia e della Finanze, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato una memoria difensiva con la quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità o il rigetto del ricorso.
Il ricorso è infondato, non risultando condivisibili i rilievi con esso formulati.
Sulla prima questione di carattere procedurale, è evidente la carenza di interesse a far valere l’eventuale violazione, offendo, comunque, la pronuncia, la possibilità al difensore di impugnazione, senza alcuna violazione delle garanzie difensive.
Nel merito, è corretto il ragionamento della Corte di appello di Roma che ha ritenuto di escludere il diritto alla riparazione per il periodo di detenzione subito dal B. per i reati di corruzione e frode fiscale sul rilievo che l’assoluzione del ricorrente dal secondo reato era derivata dalla circostanza che, nonostante la verificata illegittimità della condotta contestata – pacificamente ammessa e riscontrata – la fattispecie rientrava nella previsione della norma incriminatrice, solo in epoca successiva parzialmente abrogata.
In proposito, va del resto ricordato che, a seguito delle nuove norme in materia di reati tributari, introdotte con il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non costituisce più reato, infatti, l’utilizzazione di fatture o di altri documenti relative ad operazioni inesistenti mediante il loro mero inserimento in contabilità (già prevista e punita dalla D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 4, lettera d), convertito nella L. 7 agosto 1982, n. 516), trattandosi di una condotta solo prodromica o strumentale rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto.
Trattasi però di abrogazione solo parziale, in quanto, qualora i dati delle fatture o degli altri documenti per operazioni inesistenti siano stati recepiti in una delle dichiarazioni annuale relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, della quale costituiscano il presupposto fraudolento per la mendace indicazione di componenti negativi in misura diversa da quella effettiva, tale condotta – già sanzionata dal D.L. n. 429 del 1982, art. 4, lettera f), convertito nella L. n. 516 del 1982 – mantiene rilevanza penale e integra ancora reato, segnatamente quello previsto e punito dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 (v. Sezione 3, 28 aprile 2005 Proc. gen., App. Venezia in proc. Bianchin).
Il giudice della riparazione, così argomentando, ha fatto corretta applicazione dell’art. 314 c.p.p., comma 5, – che esclude il diritto alla riparazione quando la sentenza abbia affermato che il fatto non è previsto dalla legge come reato – essendo stata l’assoluzione del B. effetto della parziale abrogazione della norma originariamente incriminatrice.
Al riguardo appare opportuno sottolineare che il procedimento logico adottato dai giudici di merito è conforme al consolidato orientamento di questa Corte (v. Sezione 4, 2 luglio 2004, Chiarelli;
Sezione 4, 23 aprile 2001, Patti).
Anche le altre censure sono infondate.
Sul primo punto (omessa valutazione da parte del giudice della riparazione del materiale acquisito al processo penale), oltre la genericità della censura, che non documenta l’asserita assoluzione nel merito, è sufficiente osservare che il sindacato del giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del suddetto beneficio. Nel caso in esame la Corte di merito ha espressamente escluso, come sopra esposto, che la formula di proscioglimento adottata per il reato di frode fiscale rientrasse tra quelle previste dall’art. 314 c.p.p., comma 1, e poichè tale affermazione non è risultata fondatamente smentita, le decisione è incensurabile in questa sede.
Sul secondo punto (asserita ingiustizia della detenzione, in quanto la pena applicabile non avrebbe consentito la privazione preventiva della libertà personale), la doglianza è parimenti infondata, come emerge con evidenza dal tenore letterale della norma ora abrogata, che prevedeva la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni, oltre la sanzione pecuniaria (v. L. 7 agosto 1982, n. 516, art. 4), essendo rimasta a livello di mera asserzione l’asserita contestazione del solo fatto di lieve entità, di cui al citato articolo, comma 2.
Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali; compensa tra le parti, per intero,le spese relative al presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2008