P.G.M., tratto in arresto a seguito di ordinanza di custodia cautelare in carcere, veniva poi posto in regime di arresti domiciliari e quindi scarcerato.
Con domanda presentata alla Corte di Appello di Bari il P. – assolto dai reati ascrittigli con sentenza del Tribunale di Foggia passata in giudicato – chiedeva quindi l’equa riparazione, per l’ingiusta detenzione subita, quantificandola nella misura di Euro 250.000,00.
La Corte d’Appello adita, provvedendo con ordinanza depositata il 23/5/2006, rigettava la domanda, ravvisando nel comportamento del P. gli estremi di una condotta sinergica, per colpa grave, alla produzione dell’evento restrittivo della libertà personale. La Corte stessa motivava il proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi: a) il coinvolgimento del P., nell’ambito di indagini circa attività non regolari presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari di Foggia, era risultato dal contenuto di telefonate intercettate, da cui erano emerse anche le modalità seguite per l’acquisizione dei certificati presso la predetta Conservatoria; b) le telefonate intercettate avevano trovato riscontro negli accertamenti eseguiti dagli investigatori; c) il P. era stato assolto dal Tribunale, dal reato di cui all’art. 416 c.p. e da quello di cui all’art. 323 c.p., perchè gli elementi di accusa erano scaturiti da dichiarazioni rese da vari soggetti, ritenute inutilizzabili ex art. 513 c.p.p.; d) lo stesso P. aveva ammesso, nel corso dell’interrogatorio reso al G.I.P., di aver richiesto alcuni certificati, a titolo di cortesia, ricevendo in cambio solo piccole somme di denaro non a titolo di compenso bensì come rimborso spese; e) pur pervenendo ad una sentenza di assoluzione, il Tribunale aveva evidenziato che "l’essersi adoperato per procurare certificati a titolo di cortesia per amici" avrebbe potuto avere rilievo disciplinare; f) atti ritenuti non utilizzabili dal giudice della cognizione, ben potevano essere valutati in sede di equa riparazione al fine di accertare la sussistenza di condotte sinergiche all’evento detenzione; g) il tenore di talune telefonate evidenziava che il P. era venuto meno al suo dovere di diligenza e correttezza di pubblico impiegato, così determinando, per colpa grave, un intervento dell’Autorità nei suoi confronti.
Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione il P., tramite il difensore, deducendo vizio motivazionale e violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza della colpa grave, sostenendo che la Corte territoriale sarebbe incorsa in errore posto che: a) la Corte distrettuale avrebbe erroneamente sottolineato, traendone indicazioni negative, la qualifica del P. come impiegato alla Conservatoria: il P. era invece dipendente del Catasto, per cui nulla poteva esservi di illecito nelle sue richieste di certificazioni presso la Conservatoria, in relazione alle quali riceveva dagli interessati solo le relative spese; b) non avrebbe significativo rilievo l’argomentazione del Tribunale circa la ravvisabilità di estremi di carattere disciplinare nella condotta del P., non essendo riuscito neanche il Tribunale stesso a ben delineare la figura dell’imputato; c) la Corte di merito avrebbe errato nel porre a fondamento della propria decisione le considerazioni del Tribunale – espressamente richiamate nell’impugnata ordinanza – relative alla inutilizzabilità delle intercettazioni e di determinati atti, dal momento che "proprio la lettura di quegli atti chiarisce la posizione di assoluta estraneità del P." (così testualmente a pag. 2 del ricorso).
Il Procuratore Generale presso questa Corte, con la sua requisitoria scritta, ha richiesto l’annullamento, con rinvio, dell’impugnata ordinanza. Il gravame deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate. Quanto alla inutilizzabilità delle telefonate e di taluni documenti, dichiarata dal Tribunale di Foggia, deve innanzi tutto evidenziarsi che il ricorrente non si è doluto del fatto che la Corte di merito abbia ritenuto di poter valutare, ai fini del decidere, atti ritenuti inutilizzabili dal giudice della cognizione:
ed invero, lo stesso sostiene che proprio da tali atti il giudice della riparazione avrebbe dovuto trarre elementi significativamente dimostrativi della sua estraneità ai fatti addebitatigli con il provvedimento restrittivo.
Orbene, il fatto che il P. abbia egli stesso evocato tali atti per dar corpo alle proprie doglianze – accettando in proposito il contraddittorio, anche sul contenuto degli atti stessi, con la controparte rappresentata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (nell’ottica di una natura prevalentemente privatistica della domanda introduttiva della procedura di equa riparazione per ingiusta detenzione) – ben potrebbe esonerare il Collegio dall’affrontare la questione di diritto (già qualche volta esaminata nella giurisprudenza di legittimità, con decisioni non sempre omogenee) circa la possibilità o meno per il giudice della riparazione di tener conto, ai fini del decidere, di atti dichiarati inutilizzabili dal giudice della cognizione, con particolare riferimento alla inutilizzabilità di intercettazioni telefoniche. Ritiene tuttavia la Corte, per completezza argomentativa – ed avendo il Procuratore Generale esplicitamente affermato, nella sua requisitoria scritta e nel richiedere l’annullamento con rinvio dell’impugnata ordinanza, che la Corte d’Appello non avrebbe potuto trarre elementi di valutazione da atti ritenuti inutilizzabili nel processo a carico del P. – di dover comunque pronunciarsi su detta questione.
Innanzi tutto giova, anche in questa occasione, ricordare che la procedura per l’equa riparazione per ingiusta detenzione presenta connotazioni di natura marcatamente civilistica, come più volte riconosciuto nella giurisprudenza di legittimità, nonostante qualche decisione abbia ritenuto di dover sottolineare che il procedimento che qui interessa risulta pur sempre inserito nell’ambito della procedura penale. Sulla natura civilistica/o comunque di forte significato civilistico, si è espressa questa Corte anche a Sezioni Unite: "nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico- motivazionale del tutto autonomo, perchè è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento detenzione ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione" (Cass. SU 13 dicembre 1995, Sarnataro, RV 203638); "il rapporto processuale relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione ha natura civile, anche se inserito in una procedura che si svolge dinanzi al giudice penale, trattandosi di controversia concernente il regolamento di interessi patrimoniali (attribuzione di una somma di danaro) tra il privato, titolare del diritto alla riparazione, e lo Stato. Conseguentemente il carico delle spese va regolato secondo il principio della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c. (Cass. SU 12 marzo 1999, Sciamanna, RV 213509).
Le precisazioni di cui sopra agevolano certamente l’individuazione di quella che è la "ratio" dell’istituto dell’equa riparazione: la necessità, cioè, di indennizzare con un riconoscimento di natura patrimoniale un soggetto – il quale abbia richiesto l’indennizzo assumendo di essere stato ingiustamente raggiunto da un provvedimento restrittivo della libertà personale – ove il giudice della riparazione accerti che quel soggetto effettivamente non aveva in alcun modo dato luogo, con il suo comportamento (immune anche da atteggiamenti di grave superficialità o trascuratezza) all’emissione dell’ordinanza coercitiva: in poche parole, deve trattarsi di un periodo di detenzione sofferto da una persona rimasta assolutamente estranea – da un punto di vista reale e storico, e non solo processuale – alla vicenda delittuosa nella quale era stato viceversa ritenuto, dunque ingiustamente, coinvolto. Non pare che possa ritenersi rispondente a siffatta "ratio", e a detti canoni ermeneutici, il riconoscimento di un indennizzo ad un soggetto il quale con il proprio comportamento – voluto ed intenzionalmente finalizzato alla realizzazione di un reato, per il quale è prevista la custodia cautelare, comportamento non escluso storicamente – abbia creato tutti i presupposti, con il contenuto di sue conversazioni oggetto di intercettazione, per indurre l’autorità ad intervenire nei suoi confronti con un provvedimento di rigore, e sia poi stato assolto, certo doverosamente e legittimamente, in conseguenza dell’applicazione di norme e principi che regolano specificamente ed esclusivamente il giudizio penale.
Ciò posto, mette conto sottolineare che la nozione di inutilizzabilità concerne la formazione della prova nel giudizio penale di cognizione, e non riguarda certo la condotta dell’imputato dal punto di vista fattuale e storico. Il giudice della riparazione opera su un piano completamente diverso rispetto al giudice della cognizione, e deve valutare non gli elementi probatori di accusa a carico dell’imputato – la cui ritenuta insussistenza processuale (eventualmente anche a causa di inutilizzabilità) in sede di cognizione, costituisce il presupposto per l’equa riparazione – bensì la condotta del soggetto interessato, desumendola evidentemente dallo stesso materiale già vagliato, ad altro fine, dal giudice della cognizione, eccezion fatta solo per quei comportamenti che siano stati espressamente esclusi dal giudice della cognizione (Sez. 3, n. 20128 del 26/03/2004 Cc. – dep. 29/04/2004 – imp. Clerico, Rv. 228883; Sez. 4, n. 8163 del 12/12/2001 Cc. – dep. 28/02/2002 – imp. Pavone, Rv. 220984); le conversazioni telefoniche, ritenute irritualmente intercettate, per un ravvisato vizio di forma di natura motivazionale del decreto autorizzativo, non possono essere utilizzate dal giudice della cognizione ai fini dell’affermazione della colpevolezza; ma non può certo dirsi che dette conversazioni siano state espressamente escluse, dal giudice stesso, come realtà fenomenica: l’inutilizzabilità esprime un concetto assolutamente diverso dall’inesistenza.
Dunque, tra il materiale acquisito al processo di cognizione figura in primo piano – proprio con particolare riferimento all’equa riparazione – l’ordinanza cautelare nella quale sono riportati, appunto, gli esiti delle intercettazioni telefoniche, e cioè l’indicazione dei brani di conversazione di più significativa pregnanza accusatoria, che costituiscono elementi idonei a porsi come sicuro punto di riferimento per la valutazione della condotta del soggetto attinto dal provvedimento coercitivo stesso, anche ai fini della individuazione delle frequentazioni (desumibili, queste, già dal solo esame dei tabulati). Non vi è ragione, pertanto, per ritenere preclusa al giudice della riparazione la possibilità di trarre, da un atto (l’ordinanza cautelare) che esiste nel procedimento, gli elementi di valutazione della condotta sinergica all’evento detenzione, trattandosi di un provvedimento che da conto dell’esistenza reale, e ben collocabile cronologicamente nel tempo, di un comportamento non escluso storicamente dal giudice della cognizione ma riconducibile ad intercettazioni ritenute da detto giudice solo processualmente inutilizzabili ai fini dell’affermazione di colpevolezza dell’imputato (cfr. Sez. 4, n. 19253 del 2003 – cc 3 dicembre 2002, dep. 24 aprile 2003, Plaikner M ed altro, RV. 224501, secondo cui "….la sussistenza di colpa grave sinergica alla perdita della libertà, quale presupposto dell’esclusione del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, deve risultare o desumersi in primo luogo dal provvedimento con il quale la misura è stata disposta…."). E ciò, in particolare, giova sottolinearlo, nel caso in cui la (successiva) dichiarazione di inutilizzabilità da parte del giudice della cognizione sia riconducibile ad un mero vizio di forma, motivazionale, nel provvedimento autorizzativo delle intercettazioni (il più delle volte per intercettazioni con l’uso di impianti diversi da quelli esistenti negli uffici della Procura della Repubblica).
Affermare che l’inutilizzabilità di intercettazioni – dichiarata dal giudice della cognizione (attraverso una interpretazione di diritto) per sanzionare un vizio formale che si è ritenuto di ravvisare nella motivazione del decreto autorizzativo delle captazioni – possa impedire al giudice della riparazione di trarre da quelle stesse conversazioni, non escluse come fatto storico e cristallizzate nell’ordinanza cautelare, elementi di valutazione per l’accertamento degli estremi di una condotta sinergica alla detenzione, finirebbe con il legittimare una conseguenza che appare, francamente, paradossale: l’equo indennizzo non potrebbe essere negato nemmeno ad un soggetto il quale, inoppugnabilmente e direttamente coinvolto – sulla scorta di sue conversazioni captate a mezzo di intercettazioni disposte dall’Autorità Giudiziaria – nell’ambito di una gravissima vicenda delittuosa (si pensi, ad esempio, all’omicidio volontario di persona sequestrata a scopo di estorsione, oggetto di procedimento caratterizzato da un compendio probatorio costituito dalle telefonate, intercettate, relative alle richieste di denaro ai congiunti del sequestrato), sia stato poi (pur legittimamente) assolto con sentenza del giudice penale unicamente in conseguenza della ritenuta inutilizzabilità di quelle conversazioni, a causa di vizi formali dei decreti autorizzativi che il giudice della cognizione, in base alla propria interpretazione di diritto, ha ritenuto sussistenti; quasi che quei dati di fatto acquisiti – significativamente rivelatori del pieno coinvolgimento in prima persona nel grave delitto, posti a base del provvedimento coercitivo e specificamente indicati in tale provvedimento – non fossero nella realtà fenomenica mai esistiti. Non si ritiene che questo possa essere stato l’intento del legislatore nell’introdurre l’istituto dell’equa riparazione per ingiusta detenzione i cui principi cardini sono, invero, quelli dell’equità e della solidarietà.
L’opzione ermeneutica che questo Collegio ritiene di dover privilegiare trova anche riscontro in uno dei due indirizzi interpretativi delineatisi nell’ambito di un contrasto giurisprudenziale che si registra in materia di misure di prevenzione. Ed invero, ad una decisione (Sez. 1, n. 29688 del 2007 – ud. 15 giugno 2007, dep. 20 luglio 2007 – ric. Muscolino, RV. 236670) con la quale è stato affermato che le intercettazioni ritenute inutilizzabili a norma dell’art. 271 c.p.p. non sono utilizzabili in alcun modo, e non solo nell’ambito del processo penale (muovendo, come si legge nella sentenza stessa, dal presupposto della equiparazione della "inutilizzabilità" alla "illegalità" anche per il caso di vizi motivazionali dei decreti autorizzativi delle captazioni), si contrappone altro orientamento secondo cui la inutilizzabilità di intercettazioni, dichiarata nel giudizio di cognizione per difetto del provvedimento autorizzativo dell’uso di impianti diversi da quelli installati presso la Procura della Repubblica, non rileva ai fini dell’acquisizione nel giudizio di prevenzione: e ciò in quanto detta inutilizzabilità "riguarda una regola interna al processo penale, che non è in grado di proiettare i suoi effetti nell’ambito delle regole probatorie del regime della prevenzione" (Sez. 6, n. 1161 del 2008 – ud. 25 ottobre 2007, dep. 10 gennaio 2008, ric. Cicino, RV. 238837; Sez. 6, n. 39953 del 2005 – ud. 30 settembre 2006, dep. 3 novembre 2005 – ric. Nicastro, RV. 236596). Va, ancora, ricordato che questa Corte ha affermato, in tema di inutilizzabilità di prove nel giudizio abbreviato, e pur in epoca ben successiva alla pronuncia Tammaro delle Sezioni Unite (e non mancando di evocare esplicitamente detta sentenza), che "….il compimento di operazioni di captazione telefonica o ambientale per mezzo di impianti non installati nella Procura della Repubblica (art. 268 c.p.p., comma 3), costituisce un chiaro esempio di inutilizzabilità cd. fisiologica, perchè l’utilizzazione di impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica non è vietata dalla legge, che, al contrario, la consente esigendo soltanto che le relative operazioni siano circondate da particolari garanzie…"; con la conseguenza che "….l’acquisizione dei risultati di intercettazioni telefoniche o ambientali fatta in modo irregolare non rileva in sede di giudizio abbreviato, salvo che si tratti di inutilizzabilità patologica (ad esempio, di acquisizione dei risultati di intercettazioni di conversazioni telefoniche o ambientali disposte fuori dei limiti di ammissibilità fissati dall’art. 266 c.p.p.)" (in termini, Sez. 1, n. 3005 del 31 gennaio 2005, cc. 13 gennaio 2005).
Conclusivamente, sulla scorta di tutte le suesposte considerazioni, deve escludersi che nel procedimento di equa riparazione possa operare automaticamente, ed in maniera assoluta, il divieto di cui all’art. 271 c.p.p., in relazione a meri vizi motivazionali dei decreti autorizzativi delle intercettazioni, previsto dal codice di procedura penale per finalità completamente diverse e del tutto interne al processo penale. Quanto fin qui detto vale ancor più, ed a maggior ragione, per la inutilizzabilità di dichiarazioni ex artt. 513 e 526 c.p.p.: ed invero in tal caso, la decisione, con la quale il giudice della cognizione sanziona il vizio della prova, scaturisce solo da un evento successivo a quello in cui le dichiarazioni (poi dichiarate inutilizzabili) erano state rese, ed addirittura in conseguenza di una scelta processuale di un determinato soggetto.
Ritiene pertanto il Collegio che, nella concreta fattispecie, legittimamente la Corte d’Appello ha desunto gli elementi ritenuti idonei ad integrare gli estremi di una condotta sinergica all’arresto, da atti pur dichiarati inutilizzabili nel processo di cognizione. Ed invero, a nulla rileva, ai fini della procedura per l’equa riparazione avviata dal P., e per tutto quanto sopra detto, che poi il Tribunale di Foggia sia pervenuto all’assoluzione dello stesso per effetto della ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni e di talune dichiarazioni; ciò che il legislatore ha voluto, infatti, è che non sia riconosciuto il diritto alla riparazione a chi, pur ritenuto non colpevole nel processo penale, sia stato arrestato per aver tenuto una condotta tale da legittimare il provvedimento dell’autorità inquirente (così, Sez. 4, n. 440/94, RV. 197652). La Corte territoriale, muovendo evidentemente dal presupposto dell’impronta privatistica della pretesa all’equa riparazione ex art. 314 cod. proc. pen., ha conseguentemente, e correttamente, ritenuto non operanti, nell’ambito del relativo procedimento, il disposto del codice di rito penale (art. 191) che prevede i casi di non utilizzabilità delle prove nel processo penale volto all’accertamento della responsabilità dell’imputato. Ciò premesso, e passando al vaglio del percorso argomentativo seguito dalla Corte distrettuale in ordine alla ritenuta sussistenza della colpa ostativa al diritto all’equa riparazione, il Collegio rileva la congruità dell’apparato motivazionale dell’impugnato provvedimento, avendo la Corte di merito interpretato la condotta del P., quale desumibile dalle telefonate intercettate, con criteri di logicità ed adeguatezza, dando esaurientemente conto del proprio convincimento, attraverso l’esame delle telefonate e degli altri elementi che avevano caratterizzato il comportamento del P..
E muovendo da tali presupposti fattuali, la Corte d’Appello ha individuato in detta condotta – da valutare con riferimento al momento dell’arresto – gli elementi della colpa sinergica alla detenzione: l’intervento dell’Autorità scaturì proprio dalle telefonate intercettate, nonchè, evidentemente, dal contesto ambientale in cui il P. si era mosso.
Nè, chiaramente, può avere rilievo, per escludere la colpa grave dell’interessato, l’avvenuta assoluzione, che rappresenta, ovviamente, proprio il presupposto indispensabile del giudizio della riparazione.
Del tutto generica, e comunque infondata alla luce di tutto quanto sopra evidenziato, è la doglianza del ricorrente circa l’asserito vizio motivazionale in ordine alla valutazione, da parte della Corte di merito, del contenuto delle telefonate, nonchè del comportamento del P. concernente le modalità per richiedere ed ottenere i certificati presso la Conservatoria.
Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, 17 aprile 2008.
Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2008