1.- C.P., con ricorso depositato il 6 novembre 2004, conveniva in giudizio innanzi alla Corte d’appello di Potenza il Ministero della giustizia, chiedendone la condanna a pagare la complessiva somma di Euro 2 milioni, a titolo di equa riparazione, per la non ragionevole durata del processo penale celebrato a suo carico per i reati di cui agli artt. 110, 353, 479, 317 c.p., definito con sentenza di questa Corte pronunciata il 30 gennaio 2004, depositata l’il maggio 2004.
La Corte adita, con decreto del 21/22 dicembre 2004, dichiarava la propria incompetenza, fissando il termine di mesi sei per la riassunzione del giudizio innanzi alla competente Corte d’appello di Catanzaro.
Il ricorrente riassumeva il giudizio innanzi a detta Corte territoriale, con ricorso depositato il 28 aprile 2005.
Si costituiva nel giudizio il convenuto Ministero, resistendo alla domanda.
La Corte d’appello di Catanzaro, con decreto del 14 luglio 2005, dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto proposto oltre sei mesi dopo la definizione del giudizio principale.
Siffatto giudizio era stato infatti definito con sentenza di questa Corte pronunciata il 30 gennaio 2004 e da tale data decorreva il termine della L. n. 89 del 2001, art. 4, "a nulla rilevando che detto momento non coincida – perchè precedente – con il deposito della sentenza (o della ordinanza) con cui l’iter processuale si è concluso innanzi al giudice di legittimità".
Per la cassazione di detto decreto ha proposto ricorso C.P., affidato ad un motivo; ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia. 

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- C.P., con un unico motivo, articolato in molteplici profili, denuncia violazione e falsa applicazione: della L. n. 89 del 2001, art. 4; dell’art. 111 Cost.; della L. n. 848 del 1955; dell’art. 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (CEDU), degli artt. 3 e 24 Cost..
A suo avviso, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’espressione "la sentenza è divenuta definitiva», recata dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, non corrisponde a quella «sentenza passata in giudicato", sussistendo detta coincidenza soltanto in riferimento al caso della pronuncia che definisce un giudizio civile a cognizione ordinaria.
Nella specie, concernente un processo penale, dagli artt. 545 e 548 c.p.p., si evince che la sentenza è pubblicata mediante lettura del dispositivo in udienza, ma che "solo la pubblicazione avvenuta mediante lettura della motivazione redatta a norma dell’art. 544, comma 1, equivale a notificazione della sentenza per le parti che sono presenti all’udienza", mentre l’avviso di deposito deve essere notificato al difensore dell’imputato e all’imputato contumace.
Secondo il ricorrente, la sentenza penale, anche di legittimità, ex art. 615 c.p.p., qualora, come nella specie, l’imputato sia contumace e sia stata data soltanto lettura del dispositivo, deve ritenersi conosciuta soltanto a seguito della notificazione dell’avviso di deposito al difensore dell’imputato, ovvero all’imputato contumace, nel caso in esame neppure effettuata, con la conseguenza che il termine di decadenza semestrale, al più, può farsi decorrere dalla data del deposito della motivazione, avvenuta il 15 maggio 2004.
Pertanto, secondo il C., la Corte territoriale avrebbe erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso, anche in quanto l’interpretazione da lui sostenuta sarebbe l’unica costituzionalmente adeguata, in grado di scongiurare la lesione del diritto all’equa riparazione nel caso di non ragionevole durata del processo. Peraltro, la distinzione tra il momento in cui la decisione deve ritenersi definitiva, in quanto non più revocabile e modificabile, rispetto al giudice e rispetto alla parte, neppure sarebbe estranea al sistema, come dimostra la dissociazione esistente in ordine al tempo in cui un atto può ritenersi notificato nei confronti del notificante e del destinatario dello stesso.
Infine, il ricorrente deduce che una differente interpretazione renderebbe costituzionalmente illegittimo la L. n. 89 del 2001, art. 4, in riferimento agli artt. 3, 24 e 11 Cost., in quanto realizzerebbe "una vanificazione della tutela costituzionalmente sancita del diritto alla ragionevole durata del processo e del diritto" all’equa riparazione, nonchè una disparità di trattamento rispetto al giudizio civile.
2.- Il ricorso è manifestamente infondato.
2.1.- La questione posta dal ricorrente richiede di accertare da quale giorno decorra il termine semestrale entro cui deve essere proposta la domanda di equa riparazione, qualora il giudizio presupposto consista in un processo penale definito, all’esito dell’impugnazione di legittimità, con sentenza di rigetto dei ricorsi proposti dal P.M. e dall’imputato.
Siffatta questione, di recente, è stata decisa da questa Corte, affermando che occorre fare riferimento alla data "della lettura del dispositivo della pronunzia della Cassazione penale e non già di quella del deposito della pronunzia", in quanto è "con la lettura del dispositivo di rigetto, pubblicamente effettuata", che acquista "ad ogni effetto definitività la decisione di merito impugnata", quindi si conclude l’intero giudizio (Cass. n. 3264 del 2007).
2.2.- Il principio così enunciato deve essere qui ribadito.
La L. n. 89 del 2001, art. 4, stabilisce che "la domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva".
Il riferimento alla nozione di "decisione definitiva", allo scopo di identificare il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione, corrisponde all’omologa espressione contenuta nell’art. 35, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848. Detto art. 35 (nel testo sostituito dal Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l’il maggio 1994 e ratificato con L. 28 agosto 1997, n. 296), nel disciplinare le condizioni di ricevibilità del ricorso individuale alla Corte europea, al comma 1, stabilisce infatti: "la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qual è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva".
L’art. 4 cit. ricalca, quindi, la disposizione sovranazionale, in coerenza con l’esigenza di avere riguardo ad ogni tipo di procedimento nel quale sia ipotizzabile una violazione del principio di ragionevole durata e ad ogni possibile epilogo della vicenda processuale.
Questa espressione – appunto per la vasta gamma di processi ai quali è applicabile la L. n. 89 del 2001, e per la diversità della tipologia dei provvedimenti che possono definirli e degli effetti a questi riconducibili – non equivale a quella di "sentenza passata in giudicato", ma è riferibile a qualsiasi provvedimento giurisdizionale idoneo (ex se, ovvero a seguito dell’inutile decorso dei termini per l’esperimento dei rimedi prefigurati dall’ordinamento al fine di rimuoverlo) a porre formalmente termine al processo, escludendo che possa considerarsi ancora pendente (Cass. n. 12858 del 2006; n. 1184 del 2006).
Nell’ interpretare detta norma, questa Corte, con orientamento al quale va data continuità, ha quindi affermato che il termine "non decorre dalla data del provvedimento conclusivo del processo della cui durata ci si dolga, e neppure da quella in cui detto provvedimento è stato portato a conoscenza dell’interessato nelle forme eventualmente a ciò prescritte dall’ordinamento" (così a partire da n. 17261 del 2002; in senso conforme, successivamente, Cass. n. 14987 del 2006; n. 13287 del 2006; n. 19526 del 2004).
Il termine decorre invece "da quando quel provvedimento conclusivo è divenuto definitivo; e con tale espressione il legislatore ha inteso riferirsi al significato che comunemente si assegna alla nozione di definitività di un provvedimento giurisdizionale: vale a dire al fatto che quel provvedimento non sia più suscettibile di essere revocato, modificato o riformato dal medesimo giudice che lo ha emesso o da altro giudice chiamato a provvedere in un grado successivo" (cfr. le sentenze supra richiamate).
Il riferimento è, quindi, alla decisione "finale" che, appunto perchè tale, è in linea di principio immutabile, perchè non suscettibile di impugnazione, ovvero perchè non impugnabile con i mezzi ordinari (Cass. n. 17818 del 2004; n. 13163 del 2004), con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, deve ritenersi definitiva – come è stato precisato – al momento stesso del suo deposito (ovvero al momento della pubblicazione), con conseguente tardività della domanda, se proposta dopo sei mesi dal deposito (Cass. n. 7874 del 2006).
2.3.- Nel caso della sentenza che definisce un processo penale all’esito della trattazione della causa in pubblica udienza, occorre considerare che, almeno trenta giorni prima della data dell’udienza, della stessa è dato avviso al difensore della parte (art. 615 c.p.p., comma 5; anche all’imputato, nel caso non sia assistito da un difensore di fiducia, art. 613 c.p.p., comma 4); la regolarità dell’avviso è verificata dal presidente, che ne da atto a verbale (art. 614 c.p.p., comma 3); davanti alla Corte la parte è rappresentata dal difensore (art. 613 c.p.p., comma 1); la parte può comparire soltanto per mezzo del difensore (art. 614 c.p.p., comma 2) e – contrariamente alla deduzione del ricorrente – in riferimento a tale fase non può argomentarsi di contumacia dell’imputato, dato che questi non partecipa personalmente al processo e la sua difesa è affidata esclusivamente al difensore (Cass. 4^ Sez. pen. n. 28559 del 2005; n. 7063 del 2000).
La Corte di cassazione delibera, quindi, la sentenza in camera di consiglio, subito dopo terminata la pubblica udienza (art. 615 c.p.p., comma 1, salvo differimento, che non risulta vi sia stato nella specie): "la sentenza è pubblicata in udienza subito dopo la deliberazione, mediante lettura del dispositivo fatta dal presidente o da un consigliere da lui delegato", recita l’art. 615 c.p.p..
Le norme di riferimento rendono chiaro che la sentenza viene ad esistenza con la lettura del dispositivo.
Infatti, è questo il momento in cui, nel caso di rigetto del ricorso – ipotesi qui rilevante -, la sentenza di merito diviene irrevocabile (art. 648 c.p.p.) e la cancelleria è onerata della trasmissione degli "atti e della copia del solo dispositivo al giudice che ha emesso la decisione impugnata» (art. 625, comma 2), che spiega immediatamente effetti anche prima che sia redatta la motivazione (incidendo immediatamente sui provvedimenti di natura personale o reale, art. 626 c.p.p., Cass. 1^ Sez. pen. n. 21385 del 2007).
La disciplina è, quindi, differente rispetto a quella stabilita per il processo civile, dato che in quest’ultimo il giudizio di legittimità deve ritenersi pendente sino a quando non siano state completate le formalità di pubblicazione della relativa sentenza, con la conseguenza che, qualora sia stato proposto ricorso per cassazione, il processo può ritenersi definito soltanto all’esito delle medesime (salvo che, ovviamente, la sentenza non sia stata cassata con rinvio) (Cass. n. 16081 del 2004; n. 5884 del 1999).
Dunque, risulta chiaro che il provvedimento conclusivo viene ad esistenza e diviene immodificabile, ed è inoppugnabile, con la lettura del dispositivo, con la conseguenza che è necessariamente da questa data che inizia a decorrere il termine semestrale per la proposizione della domanda di riparazione, in quanto è dalla stessa che "la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva" (L. n. 89 del 2001, art. 4).
2.4.- Questa interpretazione non si pone in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., ed è quindi manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale avente ad oggetto la L. n. 89 del 2001, art. 4, proposta dal ricorrente in riferimento a detti parametri.
Al riguardo, va anzitutto osservato che è erronea la premessa dell’eccezione, che prospetta la violazione dei suindicati parametri costituzionali nella parte in cui la norma censurata, nell’interpretazione qui accolta, comporta la decorrenza del termine di decadenza dalla data della lettura del dispositivo "anche per le decisioni rese all’esito di un processo penale con imputato non presente in udienza". Infatti, sul punto è sufficiente sottolineare, come sopra indicato, che nel caso del giudizio di legittimità penale -unica ipotesi rilevante nella specie – l’imputato non partecipa personalmente al processo e la sua difesa è affidata esclusivamente al difensore che, nella specie, risulta anche avere preso parte all’udienza innanzi a questa Corte, all’esito della quale è stato definito il processo penale oggetto della domanda di equa riparazione.
Relativamente al termine di decadenza, occorre invece ricordare che, come sopra sottolineato, la disposizione interna riproduce, in parte qua, l’art. 35 della CEDU, che pure stabilisce quale condizione di ricevibilità del ricorso la sua proposizione "entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva secondo la giurisprudenza costituzionale" (cfr. anche Corte europea diritti dell’uomo, 18 luglio 1994, V. v. Gov. Italia), essendo pacifico che l’esercizio di determinati diritti bene può essere subordinato alla previsione di un termine di decadenza.
Nella giurisprudenza del giudice delle leggi è, quindi, risalente e consolidato il principio secondo il quale le norme della Costituzione, come non affermano "che il cittadino possa conseguire la protezione giudiziaria sempre nella stessa maniera e con i medesimi effetti (sentenza n. 87 del 1962), così non vietano che la legge ordinaria possa regolare il modo di esercizio del diritto a quella protezione (sentenza n. 1 del 1956), purchè, si intende, non siano scelte modalità che rendano impossibile o difficile l’esercizio del diritto". Infatti, sono "numerose le situazioni soggettive che l’ordinamento sottopone ad un regime di decadenza, per il mancato esercizio entro un breve termine dei poteri che attribuisce, o per il mancato compimento di un determinato atto. (…)", in quanto "sarebbe assurdo intendere" che le norme costituzionali "assicurano sempre la tutela giurisdizionale, per affermarne la perpetuità, che vorrebbe dire per proclamare la perennità di ogni diritto soggettivo e l’impossibilità di assoggettarlo a decadenza o prescrizione" (sentenza n. 47 del 1964, in riferimento all’art. 113 Cost.).
Le norme costituzionali – in particolare, l’art. 24 Cost., ed anche l’art. 111 Cost., che, per il profilo qui di interesse, costituisce specificazione e svolgimento del primo – non vietano dunque "che l’esercizio di tale tutela sia sottoposto a termini di decadenza o di prescrizione", ma richiedono «che l’accennata regolamentazione non imponga oneri tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa» (sentenza n. 85 del 1968; n. 159 del 1969, sino all’ordinanza n. 382 del 2005).
La congruità di un termine di decadenza attiene, inoltre, "alla sfera della discrezionalità legislativa" (sentenza n. 185 del 1988; ordinanza n. 382 del 2005), fermo restando che il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.): in primo luogo, esige che la sua fissazione non sia tale da rendere "oltremodo difficoltosa la tutela giurisdizionale" (ordinanza n. 382 del 2005; sentenza n. 228 del 1990) e da tradursi "nell’esclusione della effettiva possibilità dell’esercizio di esso" (sentenza n. 192 del 2005); in secondo luogo, implica che la parte debba avere conoscenza del momento iniziale da cui decorre il termine (sentenze n. 185 del 1988; n. 134 del 1985; n. 14 del 1977).
Tuttavia, a quest’ultimo scopo – ha precisato la Corte delle leggi in una fattispecie per certi profili omologa a quella in esame – è necessario e sufficiente che l’interessato sia "posto in condizione di conoscerne la decorrenza iniziale, senza l’imposizione di oneri eccedenti la normale diligenza" (ordinanza n. 59 del 2005, che ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 315 c.p.p., nella parte in cui prevede che il termine per proporre la richiesta di riparazione per l’ingiusta detenzione prevista dall’art. 314 c.p.p. decorra da quando la sentenza di non doversi procedere di cui all’art. 378 c.p.p., del 1930 è divenuta inoppugnabile, anzichè dal giorno in cui ne è stata effettuata la notifica direttamente alla persona sottoposta alle indagini o da quando questi ne ha avuto effettiva conoscenza).
Nel quadro di siffatti principi, enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal ricorrente è manifestamente infondata.
La circostanza che la parte ha conoscenza del giorno in cui è trattato il processo, partecipa, a mezzo del suo difensore, all’udienza all’esito della quale viene ad esistenza la sentenza che egli sa definisce il giudizio, dimostra, all’evidenza, che è posta in condizioni di conoscere il giorno dal quale decorre il termine iniziale, senza essere gravata da oneri eccedenti l’ordinaria diligenza e, comunque, tali da rendere difficoltosa o da pregiudicare la tutela del diritto.
Infatti, come sopra precisato, dell’udienza nella quale deve essere pronunciata la sentenza che definisce il processo è avvisato il difensore (e lo è anche l’imputato, personalmente, nel caso dell’art. 613 c.p.p., comma 4) e tanto basta a far ritenere che la parte, sostanzialmente, è posta in condizioni di conoscere il termine dal quale potrà essere esercitato il diritto, avendo comunicazione del giorno dell’udienza (circostanza insussistente, invece, nel caso esaminato da Cass. n. 8856 del 2005, in riferimento ad un provvedimento del quale la parte non ha appunto possibilità di avere conoscenza). Peraltro, in tale valutazione, ed al fine di escludere l’esistenza di oneri inesigibili o eccessivamente gravosi per la parte, occorre considerare che la domanda di equa riparazione può essere proposta anche "durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata", con la conseguenza che il diritto risulta esercitabile entro termini e con modalità tali da fare escludere il vulnus denunciato dal ricorrente.
In definitiva, il legislatore ha realizzato un bilanciamento non irragionevole tra l’esigenza di celerità e di speditezza, che connota anche la regolamentazione del giudizio di equa riparazione (in punto di natura, forme e termini del processo), e l’esigenza di garantire congrua tutela del diritto della parte, stabilendo una disciplina che manifestamente non viola i parametri costituzionali evocati dal rimettente.
2.5.- In applicazione della surriferita interpretazione, non in contrasto con i succitati parametri costituzionali, il ricorso è manifestamente infondato.
Il giudizio penale presupposto è stato, infatti, definito con sentenza di questa Corte, della quale è stato letto il dispositivo all’udienza del 30 gennaio 2004.
Pertanto, poichè la domanda di equa riparazione è stata formulata con ricorso depositato innanzi alla Corte d’appello di Potenza il 6 novembre 2004, benchè la proposizione del ricorso a giudice incompetente sia idonea ad impedire la decadenza, a detta data era comunque già decorso il termine di sei mesi di stabilito dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, come correttamente affermato dalla Corte d’appello di Catanzaro.
2.6.- Le spese della presente; fase seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese della presente fase, che liquida in Euro 1.500,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2008