1.- D.A., L.R. ed De.Al., con ricorso del 27 dicembre 2004, deducendo di avere subito danno per l’eccessiva durata di una procedura fallimentare instaurata in loro danno, con sentenze di Tribunale di Busto Arsizio dell’11 giugno 1993 (per i primi due) e del 18 novembre 1994 (per il secondo,) non ancora chiusa, chiedevano alla Corte d’appello di Brescia la condanna del Ministero della giustizia a pagare l’equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2.
Resisteva alla domanda la convenuta.
La Corte d’appello adita, con decreto del 7 luglio 2005, rigettava la domanda, condannando i ricorrenti a pagare le spese del giudizio.
La sentenza, premessa l’applicabilità della disciplina in tema di equa riparazione anche alla procedura fallimentare, osservava che, nella individuazione del termine di ragionevole durata della medesima, occorre considerare anche la complessità delle fasi contenziose dirette al recupero delle attività in favore della massa e "provare la semplicità dell’azione di responsabilità" o la "negligenza della parte attrice nel promuoverla o nel curarla, non essendo sufficiente l’allegazione della irragionevole durata della procedura".
Nella specie, dalle risultanze processuali risultava che la s.n.c. di cui erano soci i ricorrenti -ammessa prima alla procedura dell’amministrazione controllata, quindi al concordato preventivo- nell’imminenza del fallimento aveva ceduto i beni strumentali della società per centinaia di milioni ad una s.r.l. della quale era amministratore De.An., fratello di De.Al., che svolgeva la propria attività negli stessi locali della società fallita.
Il giudizio avente ad oggetto la rivendica dei beni fu transatto il 27 maggio 1995, ma la transazione non fu onorata, determinando la ripresa del giudizio.
Nella specie, osservava la Corte territoriale, l’azione diretta al recupero dei beni era stata tempestiva e doverosa; gli organi fallimentari avevano dimostrato disponibilità a definirla, autorizzando una transazione, nonostante il parere contrario di due componenti del comitato dei creditori. Tuttavia, la transazione non era stata adempiuta dalla "Linea Alexander s.r.l. che fa capo pur sempre alla famiglia D." ed il ritardo nella definizione della procedura era "imputabile al comportamento diretto" anche dei " D. (rinviati a giudizio per questo fatto)", e cioè per avere disposto la vendita dei beni.
Il mancato rispetto del termine di ragionevole durata era, quindi, addebitabile alla condotta degli istanti, nonchè ad una controversia in relazione alla quale non erano identificabili ritardi degli organi della procedura, mentre gli attori "nulla hanno addotto in ordine alla semplicità delle liti che hanno ritardato la chiusura della procedura".
2.- Per la cassazione di questo decreto hanno proposto ricorso D.A., L.R., De.Al., affidato ad un motivo; ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- I ricorrenti, con un unico motivo, denunciano violazione e/o mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, deducendo che la Corte territoriale non ha considerato che dalla relazione depositata dalla difesa erariale emergeva che dalla data della stipula della transazione al provvedimento del g.d. per il recupero della somma residua erano decorsi cinque anni.
Inoltre, la sentenza ha valorizzato la condotta della Linea Alexander s.r.l., a loro non imputabile, non risultando elementi per ritenere che dietro di essa "si nascondevano i tre falliti". Inoltre, la pronuncia non ha considerato l’inerzia degli organi della procedura nell’attivarsi per porre rimedio all’inadempimento di detta società, ha omesso ogni valutazione sulla complessità del caso e sui continui rinvii per la transazione con la medesima e, per escludere la denunciata violazione, ha valorizzato una controversia senza nulla dire in ordine alla durata della medesima.
Secondo i ricorrenti, nel valutare se possa ritenersi osservato il termine di ragionevole durata del processo, occorre che il giudice, "una volta considerato l’intero arco temporale del processo, operi una analitica selezione tra i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli attribuibili all’operato del giudice, sottraendo i primi alla durata complessiva del procedimento", operando una ponderazione che nella specie sarebbe mancata.
2.- Il motivo è fondato e va accolto.
2.1.- In linea preliminare va ribadito l’orientamento consolidato, secondo il quale l’inammissibilità della pronuncia in Camera di consiglio è ravvisabile solo ove questa Corte ritenga che non ricorrano le ipotesi di cui al primo e al secondo comma dell’art. 375 c.p.c., ovvero che emergano condizioni incompatibili con una trattazione abbreviata, nel qual caso la causa deve essere rinviata alla pubblica udienza; qualora questa Corte, invece, ritenga che la decisione del ricorso presenta aspetti di evidenza compatibili con l’immediata decisione, ben può pronunciarsi per la manifesta fondatezza dell’impugnazione, anche ove le conclusioni del P.M. fossero, all’opposto, per la manifesta infondatezza, e viceversa (tra le molte, Cass. n. 10212 del 2007; n. 17165 del 2006; n. 12384 del 2005).
Ed è questa appunto l’ipotesi sussistente nella specie.
2.2.- L’applicabilità della L. n. 89 del 2001, al procedimento esecutivo concorsuale cui da vita la dichiarazione di fallimento, anche in favore del fallito, è indubbia, in quanto questi è parte del processo fallimentare e titolare del diritto alla ragionevole durata dello stesso (Cass. n. 24040 del 2006; n. 18687 del 2005; n. 20086 del 2004; nella giurisprudenza della Corte europea, per tutte, sentenza 20 aprile 2004, Vadala c. Italia).
La nozione di ragionevole durata del processo, anche in riferimento a questo processo, non ha carattere assoluto, non si presta ad una predeterminazione certa ed è condizionata da parametri fattuali, strettamente legati alla singola fattispecie, che impediscono di fissarla facendo riferimento a cadenze temporali rigide ed a schemi valutativi standardizzati. La ragionevolezza della durata di un processo, in virtù della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, va verificata in concreto, applicando i criteri stabiliti da detta norma che, imponendo al giudice di accertare l’eventuale esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, richiedono di avere riguardo alla specificità del caso che è chiamato a valutare (per tutte, Cass. n. 17552 del 2006; n. 18687 del 2005; n. 7297 del 2005).
In questo senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha appunto affermato l’imprescindibilità della valutazione della ragionevole durata del giudizio con riferimento alle circostanze di causa, alla complessità della medesima, al comportamento della parte ed a quello delle autorità competenti (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98; 2^ Sezione dell’8 febbraio 2005, sul ricorso n. 52621/99).
La complessità della procedura non può perciò essere valutata in astratto e la violazione del termine ragionevole di durata della procedura può derivare dall’esistenza di procedimenti collegati, anche se il ritardo nella loro definizione non sia imputabile a negligenze della curatela (Cass., n. 2727 del 2005; n. 10122 del 2004; n. 12807 del 2003).
I criteri stabiliti dall’art. 2, comma 2, cit., e l’interpretazione della CEDU offerta dalla Corte europea, permettono di evitare che il valore della giustizia celere si trasformi in giustizia affrettata e sommaria, costituendo efficaci parametri per la corretta applicazione di un principio quale quello di ragionevolezza, che ha in sè insiti indubbi margini di elasticità (Cass., n. 1094 del 2005).
Tuttavia, il temperamento attingibile dai suddetti criteri non giustifica una radicale sterilizzazione del dato temporale. Il dato fondamentale da assumere a base dell’accertamento della violazione è infatti quello, di natura oggettiva, costituito dalla durata del processo, sul quale possono incidere i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, cit., senza peraltro eliminare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004).
La valutazione della ragionevolezza della durata del processo costituisce una tipica valutazione di merito e si risolve in un apprezzamento di fatto censurabile in sede di legittimità per vizi di motivazione (Cass. n. 17552 del 2006; n. 6939 del 2004). Peraltro, questa configurazione deve tenere conto anche del dovere del giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla legge n. 89 del 2001, di interpretarla in modo conforme alla CEDU, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal suo testo e sempre che un eventuale contrasto tra le norme della stessa e la CEDU non ponga una questione di conformità della stessa con la Costituzione, ovvero non ne sia possibile un’interpretazione adeguatrice alla Carta fondamentale (Sez. un., n. 1338 del 2004; n. 1340 del 2004).
Pertanto, in riferimento alla ragionevole durata del processo, occorre avere riguardo al parametro cronologico elaborato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dal quale è possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue.
Infine, nello svolgimento di siffatto accertamento, il giudice investito della domanda di equa riparazione del danno derivante dalla irragionevole durata del processo deve preliminarmente identificare quale sia la misura della durata ragionevole del processo in questione, elemento imprescindibile, logicamente e giuridicamente preliminare, per il corretto accertamento dell’eventuale esistenza del danno (Cass. n. 17999 del 2005).
2.3.- Nel quadro di questi principi, il decreto, con chiara evidenza, non è immune dalle censure svolte nel mezzo.
La pronuncia indica che la procedura fallimentare è iniziata l’11 giugno 1993 (per due dei ricorrenti) ed il 18 novembre 1994 e che alla data della decisione (7 luglio 2005, e cioè dopo oltre dieci anni) era "ancora pendente". Tuttavia, manca di ogni indicazione in ordine a quella che avrebbe dovuto essere la durata ragionevole della procedura in questione, rispetto alla quale ha operato la valutazione, per escludere la violazione denunciata, che pure, come sopra precisato, costituisce operazione preliminare imprescindibile per siffatta valutazione.
La Corte d’appello per escludere la violazione del termine di ragionevole durata, che non ha precisato, ha quindi valorizzato: a) la condotta dei ricorrenti anteriore alla procedura concorsuale, consistente nella vendita dei beni; b) la durata di una causa avente ad oggetto la rivendica dei beni; c) una controversia avente ad oggetto l’ammissione al passivo da parte di un creditore.
Relativamente all’argomento sub a), va ricordato che questa Corte, in riferimento alla procedura fallimentare, nell’indicare le circostanze valutabili sotto il profilo della complessità della vicenda processuale, ha precisato che non può attribuirsi rilevanza al fatto che la lunghezza della medesima sia stata provocata da giudizi promossi dalla curatela, anche se resi necessari dal comportamento del fallito anteriore all’apertura della procedura concorsuale (Cass., n. 12807 del 2003), dei quali, eventualmente, può tenersi conto, al fine della quantificazione della misura della riparazione (oltre che in caso di eventuale rilevanza sotto il profilo penale).
In ordine agli elementi sub b) e c) , questa Corte ha poi chiarito che la violazione del termine ragionevole di durata della procedura può derivare dall’esistenza di procedimenti collegati, anche se il ritardo nella loro definizione non sia imputabile a negligenze della curatela (Cass., n. 10122 del 2004; n. 12807 del 2003). Infatti, tra le autorità alla cui, condotta occorre avere riguardo L. n. 89 del 2001, ex art. 2, per accertare l’esistenza della violazione in questione, rientrano "anche gli uffici giudiziari investiti della decisione di cause pregiudiziali o collegate a quella di cui si discute (…), in quanto tali autorità non possono ritenersi perciò estranee al processo ed i ritardi a loro eventualmente addebitabili debbono essere computati al pari di quelli ascrivibili al giudice del processo" (Cass., n. 10122 del 2004; cfr. anche Cass., n. 12807 del 2003, in riferimento al caso dei procedimenti collegati). Le lunghe e complesse fasi contenziose, dirette alla acquisizione di attività alla massa ed alla definizione dei rapporti strumentali alla chiusura della procedura possono, tuttavia, trovare adeguata considerazione da parte del giudice dell’equa riparazione nell’ambito della valutazione di complessità del caso, ferma restando la necessità di estendere il sindacato anche alla durata di dette cause, avuto riguardo alla loro obiettiva difficoltà ed alla mole dei necessari incombenti (Cass. n. 20040 del 2006; n. 29285 del 2005).
Ne consegue che la condotta dei ricorrenti anteriori alla procedura avrebbe potuto essere valorizzata essenzialmente sotto il profilo indicato e, comunque, avrebbero dovuto essere esplicitate le ragioni della complessità della procedura collegata, come invece non è accaduto, risultando fondate sul punto le censure dei ricorrenti. Il provvedimento da infatti atto che la causa avente ad oggetto la rivendica dei beni fu transatta il 27 maggio 1995; a seguito dell’inadempimento della transazione "la causa riprendeva il suo corso", quindi il 29/9/1999 la società che aveva stipulato la transazione si rendeva disponibile ad accettare il pagamento dell’importo richiesto ed il 14 giugno 2000 il g.d. ha autorizzato la proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo. Tuttavia, il decreto non esplicita le ragioni di complessità della causa, nè quale sia stata l’attività espletata nell’arco di tempo dal 27 maggio 1995 al 29 settembre 1999 e, quindi, sino al giugno 2000, sicchè è chiara l’incongruità e l’insufficienza della motivazione, non essendo sufficiente l’affermazione che la curatela "tentò, in tutti i modi, di rientrare in possesso dei beni della società fallita".
Analoghe considerazioni vanno svolte in ordine alla controversia sub c), della quale nulla è precisato per apprezzarne la complessità e la durata ragionevole, tenendo peraltro conto che, come sopra precisato, il temperamento attingibile dai criteri della L. n. 89 del 2001, art. 2, neppure giustifica una radicale sterilizzazione del dato temporale.
Infine, per quanto sopra esposto, la rilevanza della condotta dei falliti avrebbe richiesto la più puntuale esplicitazione delle ragioni in grado di fondare il sicuro collegamento tra questi e la società che aveva concluso la transazione con il fallimento.
Il decreto deve essere quindi cassato e la causa rinviata alla Corte d’appello di Brescia che, in diversa composizione, procederà al riesame della controversia, attenendosi ai principi sopra enunciati, regolando anche le spese della presente fase.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnato decreto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, anche per le spese della presente fase.
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2008