Con ricorso alla Corte di appello di Campobasso, depositato il 7 marzo 2005, C.M. domandò l’equa riparazione per i danni patrimoniali e morali patiti in relazione alla durata, ritenuta irragionevole, di un processo da essa promosso con citazione notificata in data 12 ottobre 1989 nei confronti del Comune di Pescara innanzi al locale Tribunale e definito dalla Corte d’appello de L’Aquila con sentenza del 10 maggio 2004. La causa era stata intentata contro il predetto Comune per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni da occupazione appropriativa subiti dall’attrice in riferimento a un fondo di sua proprietà. Con il ricorso di cui in premessa la C. prospettò, con riguardo alla richiesta di ristoro del danno patrimoniale, che, ove il processo si fosse concluso in tempi ragionevoli, non si sarebbe dovuta applicare la disciplina introdotta dalla sopravvenuta L. n. 662 del 1996, in base alla quale era stato dimidiato il quantum del ristoro liquidabile ai proprietari dei suoli nei casi di occupazione acquisitiva per causa di pubblica utilità. Sulla base delle indicate premesse, chiese la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni patrimoniali e morali, nella misura, rispettivamente, di Euro 46.500,00 e di Euro 22.500,00, o in quella, maggiore o minore, ritenuta di giustizia.
Istituitosi il contraddittorio, la Corte di appello adita, dopo avere esaminato analiticamente fasi e momenti del giudizio svoltosi innanzi agli uffici giudiziari occupatisi della vicenda processuale, concluse che, avuto riguardo alla non particolare complessità del processo e al comportamento delle parti e dei giudici, il termine di ragionevole durata della causa era stato superato di sette anni e sei mesi, in relazione a ritardi ingiustificati, specie nella fissazione dell’udienza di discussione in primo come in secondo grado. Ritenne non provati i lamentati danni patrimoniali, negando rilevanza causale allo ius superveniens costituito dalla L. n. 662 del 1996, sul duplice rilievo che la lamentata decurtazione del risarcimento sarebbe stata ugualmente possibile anche in presenza di tempi normali di trattazione del giudizio e che, formulando la domanda, la ricorrente aveva assunto il rischio di una determinazione del quantum spettantele con differenti modalità di calcolo per effetto di nuove disposizioni. Negò anche il danno non patrimoniale, poichè, considerate l’inerzia dimostrata dall’interessata, astenutasi dal presentare istanze ai fini dell’accelerazione del processo, l’acquisita consapevolezza della sicura fondatezza della pretesa fin dal settembre 1990, data di deposito della prima relazione di consulenza, e la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, non poteva essersi realizzato quello stato di sofferenza psichica e di stress correlato al prolungarsi della ragionevole durata del processo, che legittima il riconoscimento del diritto a conseguire l’equa riparazione.
Di tale decreto, pubblicato il 16 giugno 2005, la C. ha chiesto la cassazione con ricorso sostenuto da quattro motivi.
Resiste con controricorso il Ministero della giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la C. denunzia la violazione e la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, artt. 2056, 1223, 1226 e 1227 c.c. art. 6, par. 1, CEDU e art. 111 Cost.. Imputa alla Corte molisana di non avere ravvisato il nesso di causalità tra il ritardo e il danno patrimoniale consistito nella decurtazione della somma liquidata dal primo giudice a seguito dell’applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65, che ha introdotto la L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis. Premessa la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il danno economico può ritenersi ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se ne sia l’effetto immediato sulla base di una normale sequenza causale, sicuramente interrotta da una disciplina normativa sopravvenuta nel corso del procedimento, lamenta la ricorrente che la Corte di merito ha rigettato la domanda in base a presupposti diversi, vale a dire la possibilità della dimidiazione della pretesa risarcitoria anche in presenza di tempi normali di trattazione del giudizio e il rischio assunto da essa attrice, al momento di proporre la domanda, di nuove disposizioni incidenti in negativo sulla determinazione del quantum.
Al contrario, la definizione in tempi ragionevoli del primo grado del giudizio non avrebbe consentito al Comune di proporre appello invocando le nuove disposizioni. Tale gravame, e non anche lo ius superveniens, ha rappresentato la conseguenza diretta e immediata della irragionevole durata del processo, e comportato il danno patrimoniale lamentato.
Con il secondo motivo, la C. denunzia "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione". La Corte del merito cade in contraddizione quando afferma che la decurtazione del ristoro sarebbe stata possibile anche in caso di rispetto del termine di ragionevole durata del giudizio, avendo nel contempo riconosciuto che la sentenza di primo grado doveva essere emanata entro il mese di ottobre 1992, data in cui in realtà il Comune di Pescara non avrebbe avuto motivo di impugnare la sentenza resa in prime cure. Tale contraddittorietà è evidente anche in relazione alla durata del giudizio di appello che, stando agli stessi calcoli della Corte territoriale, si sarebbe dovuto concludere nel dicembre 1996, ovverosia prima della entrata in vigore dello ius superveniens.
I due motivi vanno trattati congiuntamente inerendo entrambi alla tematica del danno patrimoniale, riguardata ora sotto il profilo della violazione di legge, ora sotto il profilo del vizio motivazionale. Essi si rivelano infondati.
La ricorrente sembra condividere l’indirizzo affermato da questa Corte in casi del tutto omologhi a quello di specie, salvo poi L. affermarne, quasi di sfuggita e in maniera alquanto criptica, la non applicabilità alla fattispecie. Il principio giurisprudenziale – secondo cui il danno patrimoniale influente per l’attribuzione di equa riparazione, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, è quello interamente e direttamente provocato, sulla base di una normale sequenza causale, dall’eccessivo protrarsi dell’attesa della risposta sulla domanda di giustizia e non può includere i riflessi negativi dello ius superveniens, il quale regoli il rapporto sostanziale in maniera meno favorevole rispetto alla previgente disciplina, trovando essi occasione, non causa o concausa, in tale pendenza (vedi Cass. nn. 2382/2003, 6071/2004, 8603/2005, 19499/2005, 21020/2006) – è, invece, perfettamente applicabile al caso in esame, sfuggendo come possa rilevare in contrario che, ove il primo grado si fosse concluso in tempi ragionevoli, la L. n. 662 del 1996, che aveva dimidiato la misura del risarcimento dovuto per i danni da occupazione appropriativa, non sarebbe stata applicabile in quanto non ancora emanata e il Comune non avrebbe interposto gravame. Per il principio richiamato è, infatti, di per sè erroneo l’assunto che, se il processo avesse avuto una ragionevole durata, la ricorrente non avrebbe subito la decurtazione derivante dall’applicazione della legge sopravvenuta. Al contrario, il nesso causale non è comunque configurabile, dacchè il danno patrimoniale lamentato è derivato non dal protrarsi del giudizio, ma dalla sopravvenuta norma di legge prevedente una liquidazione della pretesa ivi azionata meno favorevole per l’interessata. Va escluso, in altre parole, che nell’area del rischio tipico creato dalla fattispecie dell’irragionevole durata rientri anche il mutamento peggiorativo della disciplina applicabile alla controversia non tempestivamente definita. Non rileva che questa innovazione legislativa e solo essa abbia, come si sostiene, stimolato la proposizione del gravame avverso la sentenza di primo grado, destinata a divenire regiudicata qualora emanata per tempo. Il processo non ancora definito con sentenza passata in giudicato è un processo in corso. I superiori principi sono stati correttamente applicati dal decreto impugnato, che ha in sostanza negato potersi ricomprendere nel danno patrimoniale, ai fini dell’equa riparazione, la perdita economica derivabile dall’applicazione dei nuovi criteri introdotti con la L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis.
Nella memoria illustrativa la ricorrente ha sollevato eccezione di incostituzionalità della L. n. 89 del 2001, art. 2, ove interpretato nei predetti termini, per violazione dell’art. 117 Cost., in quanto, per la norma convenzionale di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, secondo la interpretazione operatane dalla Corte europea, è configurabile un danno patrimoniale allorquando in corso di causa venga varata una legge che vanifichi o riduca la pretesa azionata.
La questione è manifestamente infondata.
E ciò per la dirimente ragione che la Corte di Strasburgo non ha mai affermato un simile principio nelle sentenze indicate per dimostrare il proprio assunto dalla ricorrente che, evidentemente, non ne ha letto il testo. Dette decisioni sono citate dalla sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 19 ottobre 2006 (Gautieri e altri c. Italia, ricorso n. 68610/01), la quale, al paragrafo 67, ricorda di avere affermato in nove sentenze pronunciate il 29 marzo 2006 (Scordino c. Italia (n. 1), n. 36813/97, 224, Cocchiarella c. Italia, n. 64886/01, p. 119, Musei c. Italia, n. 64699/01, p. 119, Riccardi Pizzati c. Italia, n. 62361/00, p. 116, Giuseppe Hostacciuolo c. Italia (n. 1), n. 64705/01, p. 117, Giuseppe Mostacciuolo c. Italia (n. 2), n. 65102/01, p. 116, Apicella c. Italia, n. 64890/01, p. 116, Ernestina Zullo c. Italia, n. 64897/01, p. 121, e Giuseppina e Orestina Procaccini c. talia, n. 65075/01, p. 117) che la situazione dell’Italia per quanto riguarda i ritardi nell’amministrazione della giustizia non è cambiata in misura sufficiente per rimettere in discussione il giudizio secondo cui l’accumulo di violazioni è costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione.
D’altronde, tranne che nella prima (Scordino c. Italia, n. 36813/97), di cui infra, in nessuna delle altre cause decise dalla Corte EDU si era fatta questione di danni patrimoniali conseguenti all’applicabilità di uno ius superveniens; in particolare, la seconda e l’ottava delle cause citate si riferiscono a giudizi (protrattisi irragionevolmente) nei quali si era domandato il riconoscimento della indennità di accompagnamento per familiare invalido; la terza causa fa riferimento a un processo in cui si era dibattuto su una servitù di passaggio; il giudizio presupposto nella causa Riccardi Fizzati c. Italia, n. 62361/00 aveva avuto ad oggetto il risarcimento dei danni per lavori tra confinanti; nelle due successive cause – Giuseppe Mostacciuolo c. Italia (n. 1), n. 64705/01 e Giuseppe Mostacciuolo c. Italia (n. 2), n. 65102/01 – si è denunciata l’eccessiva durata di un giudizio in cui era stato chiesto il pagamento di onorari professionali; nella sesta, Apicella c. Italia, n. 64890/01, la ricorrente si era lamentata della irragionevole durata di un processo nel quale aveva rivendicato il diritto alla indennità di maternità; nell’ultima causa – Giuseppina e Orestina Procaccini c. Italia, n. 65075/01 – il giudizio presupposto aveva riguardato la risoluzione di un contratto d’opera.
Discorso a parte va fatto per la prima delle sentenze citate.
A seguito di ricorso proposto dagli eredi di G., E., M. e S.G. per la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà) e dell’articolo 6, par.
1, CEDU (diritto a un equo processo, sotto il profilo della ragionevole durata del procedimento) in relazione al computo dell’indennità di espropriazione di un terreno dei ricorrenti, venne emanata da una Camera della Prima Sezione della Corte di Strasburgo la sentenza 29 luglio 2004. Tale pronuncia constatò una doppia violazione dell’art. 6 CEDU, sotto il profilo sia della durata che dell’equità del procedimento. Circa la durata, la sentenza rilevò l’esistenza in Italia di una prassi contraria alla Convenzione, risultante da un cumulo di inadempienze in relazione all’esigenza del "termine ragionevole". Circa l’equità, con riferimento alla L. n. 359 del 1992, art. bis 5, affermò che non è interdetta al potere legislativo la facoltà di disciplinare, in materia civile, attraverso nuove disposizioni di portata retroattiva, i diritti che derivano da leggi in vigore; tuttavia, il principio di preminenza del diritto e quello dell’equo processo consacrati dall’art. 6 CEDU si oppongono, salvo imperativi motivi di interesse generale, non provati dal Governo italiano, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sullo svolgimento giudiziario di controversie. Nella fattispecie, l’applicazione del citato art. 5 bis al procedimento in corso aveva privato i ricorrenti di una parte sostanziale dell’indennizzo che avrebbero potuto pretendere. La Corte aveva anche ravvisato la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 per mancanza del necessario equilibrio che deve sussistere, in tema di proprietà, tra le esigenze di carattere generale e gli imperativi di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, essendo l’indennizzo ricevuto dai ricorrenti non ragionevolmente rapportabile al valore della proprietà espropriata. Pertanto, disponendo un’equa riparazione ai sensi dell’art. 41 CEDU, la Corte concesse ai ricorrenti Euro 410.000,00, oltre interessi, per danni materiali, rinviando la decisione sia per i danni morali che per le spese di giudizio.
Il Governo italiano chiese e ottenne il rinvio della causa alla Grande Camera.
Dopo una preliminare ricognizione del diritto nazionale, e una presa d’atto dei più recenti orientamenti della Corte di Cassazione in materia di diritto ad un equo processo, la Corte EDU ha riconosciuto l’ampio margine di discrezionalità degli Stati parti della Convenzione – conferito dall’art. 1 del Prot. n. 1 – nella valutazione dei mezzi per raggiungere il giusto equilibrio tra il diritto del privato al rispetto dei propri beni e l’obiettivo dello Stato di realizzare fini di utilità sociale, rilevando, però, come spetti alla Corte stessa il potere di controllare la compatibilità della soluzione in concreto data dagli Stati ai casi a essa sottoposti. Nella fattispecie, secondo la Corte, vi era stata violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1, perchè l’ingerenza dello Stato sul diritto del singolo alla protezione dei propri beni è risultata sproporzionata, non ricorrendo quelle esigenze di riforma politica economica o sociale che, in altre circostanze, avevano indotto la Corte a ritenere non sussistente alcuna violazione. Quanto alle doglianze relative all’art. 6, la Corte ha riconosciuto la violazione di tale articolo sia sotto il profilo della mancanza di equità della procedura, sia sotto il profilo dell’eccessiva durata.
In particolare, quanto alla mancanza di equità, essa è stata ricondotta all’applicazione dei criteri di quantificazione dell’indennità stabiliti dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, non per la retroattività dell’applicazione della norma in sè considerata – dato che la modifica di una situazione di diritto in atto rientra, in via di principio, nella discrezionalità del legislatore – ma perchè tale retroattività ha inciso un credito del soggetto espropriato senza che fosse stata dimostrata la ragione di pubblica utilità (cd. interesse generale retroattivo). Infatti, secondo la Corte, tale ragione non poteva desumersi dalle motivazioni di finanza pubblica addotte dal Governo italiano in corso di causa, non idonee a dar risalto a un interesse generale evidente a giustificazione dell’effetto retroattivo.
Quanto all’eccessiva durata, per la Corte i ricorrenti sono da considerare "vittime" di una violazione dell’esigenza del "termine ragionevole", ai sensi dell’art. 34 CEDU, perchè, pur avendo esperito il ricorso indennitario di cui alla L. n. 89 del 2001 ed essendo stata constatata la violazione del diritto a un processo in tempi ragionevoli, l’indennità concessa si era attestata intorno al 10% di quella che la Corte avrebbe concesso; per di più, per due terzi tale indennità era stata erosa dalle spese di giudizio. Quanto alle misure individuali, la Grande Camera ha disposto in favore dei ricorrenti una equa riparazione pari a: Euro 580.000,00 per danni materiali, quantificati sulla base del valore venale del bene attualizzato e con l’aggiunta degli interessi; Euro 12.400,00 per danni morali; Euro 50.000,00 per spese di giudizio.
Dalla sintesi sopra effettuata (ai fini che qui rilevano) della sentenza in discorso è chiaro che la Grande Camera ha sottolineato come l’applicazione con effetto retroattivo, anche ai giudizi pendenti, dei nuovi criteri di determinazione dell’indennità d’espropriazione introdotti con la L. 8 agosto 1992, articolo 5 bis, n. 359, ne ha ridotto in modo sostanziale l’entità che gli espropriati potevano pretendere sulla base della legislazione vigente al momento della presentazione della domanda giudiziale (L. n. 2359 del 1865, secondo la quale l’indennità d’espropriazione d’un terreno corrispondeva al valore di mercato). Tuttavia, essa ha pronunciato condanna dello Stato italiano al risarcimento dei danni materiali calcolati nella differenza tra il valore venale e quello liquidato non perchè questi erano conseguenza del ritardo nella definizione del processo presupposto di risarcimento danni da occupazione appropriativa nel corso del quale erano stati varati i nuovi criteri indenni tari, bensì per il fatto, peraltro indicato come causa petendi dagli stessi ricorrenti, che lo ius super veniens costituisce una illecita ingerenza del potere legislativo sul funzionamento del potere giudiziario mirato a influenzare la risoluzione di una lite di cui lo Stato convenuto è parte processuale e costituisce violazione dell’equo processo garantito dall’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In altri termini, la Corte di Strasburgo, costatata la violazione del diritto dei ricorrenti a un equo processo in ragione dell’applicazione al loro caso dell’articolo 5 bis, ha censurato e sanzionato l’ingerenza litigiosa dello Stato italiano che, essendo parte processuale, non avrebbe dovuto legiferare a proprio vantaggio e con effetto retroattivo per influenzare la risoluzione della lite, modificando in corso di causa i criteri su cui aveva fatto affidamento la parte privata sulla base della legislazione vigente al momento della presentazione della domanda giudiziale.
In definitiva, non consta che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di violazione del termine ragionevole del processo (art. 6, paragrafo 1, CEDU) sia stato affermato il principio per cui se nel corso del giudizio durato eccessivamente sia stata emanata una legge che abbia compresso o soppresso la protezione già accordata dall’ordinamento alla situazione soggettiva posta a fondamento della pretesa è configurabile un danno patrimoniale per la parte interessata.
D’altronde, l’interpretazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, nel senso di includere nel novero dei danni patrimoniali solo quelli strettamente dipendenti dalla durata eccessiva del processo non si pone in rotta di collisione con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, assunto come parametro interposto di legittimità costituzionale in forza del richiamo contenuto nel nuovo testo dell’art. 117 Cost., comma 1, ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, cui si deve conformare l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Anzi, l’opzione ermeneutica operata in proposito da questa Corte di cassazione è in perfetta sintonia con la lettera e la ratio della norma interposta, la quale è diretta a evitare che il giudizio, ove non definito in tempi ragionevoli, diventi di per sè fonte di danno.
Può, dunque, affermarsi il principio secondo cui: "In tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, impone di risarcire solo i danni patrimoniali che siano conseguenza immediata e diretta, sulla base di una normale sequenza causale, del ritardo nella definizione del processo e non ricomprende quelli derivanti dalla sopravvenienza di una legge, applicabile anche alla fattispecie sub iudice, contenente criteri atti a comprimere o vanificare la pretesa azionata in giudizio; tale interpretazione non autorizza dubbi sulla compatibilità della predetta norma con l’art. 117 Cost.,, comma 1, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e, per il tramite di esso, con le rilevanti disposizioni della CEDU, così come interpretate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sicchè deve dichiararsi manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata al riguardo".
Con il terzo motivo., la ricorrente denunzia gli stessi vizi denunziati con il primo. Censura il mancato riconoscimento del danno non patrimoniale,il quale può essere escluso solo nel caso in cui del ritardo la parte che reclama l’indennizzo abbia usufruito e beneficiato.
Con il quarto, la C. denunzia vizi motivazionali, criticando le argomentazioni addotte dalla Corte d’appello per escludere le sofferenze psichiche indotte dalla irragionevole durata del giudizio civile presupposto.
Anche tali motivi prospettano un’unica questione, sotto i diversi profili della violazione di legge e del vizio di motivazione. Essi si appalesano fondati.
Per orientamento ormai costante di questa Corte, dopo l’intervento delle Sezioni Unite (sentt. un. 1338 e 1339/2004), il danno morale è, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di ordine psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca a chi ne è titolare; sicchè, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – il giudice, accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (come tipicamente avviene, ad esempio, nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente a uno specifico interesse della parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte stessa percepisce come a sè favorevoli). La valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, delle particolari circostanze sopra indicate, idonee ad escludere la configurabilità del danno non patrimoniale, si risolve evidentemente in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione congrua e scevra da vizi logici e giuridici. In assenza di tali situazioni particolari che si rilevino presenti nel singolo caso concreto, il danno non patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo ed ha perciò subito l’afflizione causata dall’esorbitante attesa della decisione (a prescindere dall’esito della stessa, e quindi anche se di contenuto sfavorevole alla vittima della violazione, ove, tuttavia, non consapevole dell’infondatezza o inammissibilità delle proprie istanze).
Nella specie, la Corte territoriale ha osservato come sussistessero elementi positivamente idonei a escludere la sussistenza di un danno morale connesso all’incertezza sull’esito del giudizio. Tali elementi essa ha individuato in un triplice e convergente ordine di circostanze: l’inerzia dimostrata dall’interessata, che non aveva attivato alcuna istanza sollecitatoria, l’acquisita consapevolezza della sicura fondatezza della pretesa fin dal settembre 1990, data di deposito della prima relazione di consulenza, e la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado.
Ognuna delle tre ragioni addotte si rivela illogica, prestando il fianco alle critiche rivolte dalla ricorrente. Di vero, nessuna norma impone alla parte processuale di presentare istanze per la sollecita definizione del giudizio, il fatto che, prima del superamento del termine di ragionevole durata del processo, venga acquisita agli atti del giudizio una relazione di consulenza le cui conclusioni inducano a ritenere fondata la pretesa azionata in giudizio non equivale certo a un riconoscimento senza alcun margine di incertezza della pretesa medesima, sì da poterne pronosticare l’integrale accoglimento. La provvisoria esecutività della sentenza di primo grado non libera la parte da ogni stress ulteriore, specie se, come nella specie, sia sopravvenuta una normativa idonea a rimettere in discussione l’ampiezza del diritto come riconosciuto nella sentenza immediatamente eseguibile. Le indicate circostanze, quindi, non potevano valere a escludere il patimento di situazioni psichiche disturbanti, ma, semmai, rilevavano ai fini della concreta determinazione della misura della riparazione.
Conclusivamente, in relazione alle censure accolte, il decreto impugnato va cassato. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, può procedersi alla pronuncia nel merito.
Infatti, avendo il giudice a quo calcolato correttamente, e con statuizione neppure specificamente censurata, in sette anni e sei mesi il periodo di irragionevole durata del giudizio presupposto e considerato che nessun argomento del ricorso impone di derogare in melius allo standard minimo indicato dalla Corte EDU di Euro 1.000,00 per ogni anno di ritardo, deve riconoscersi alla ricorrente l’indennizzo forfettario di Euro 7.500,00, oltre gli interessi legali dalla domanda al saldo.
All’accoglimento del ricorso segue la condanna del soccombente dicastero alle spese del giudizio di merito e a quelle di questo grado.

P.Q.M.
La Corte rigetta i primi due motivi del ricorso, accoglie i restanti motivi, cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministero della giustizia a corrispondere a C.M. la somma di Euro 7.500,00, con gli interessi legali dalla domanda al saldo. Condanna il Ministero della giustizia alle spese processuali, liquidate in Euro 1.075,00, di cui Euro 475,00 per diritti ed Euro 500,00 per onorari quanto al giudizio di merito, e in Euro 700,00, di cui Euro 600,00 per onorari, quanto al giudizio di Cassazione, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 19 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2008