1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Milano rigettava l’istanza di riparazione presentata da M.C. M. per la dedotta ingiusta detenzione sofferta in carcere dal 14.06.1997 al 02.03.1998 per le seguenti due imputazioni:
– con la prima, gli si contestava il reato di strage in concorso, per avere svolto un ruolo preminente nella fase preparatoria ed organizzativa dell’attentato compiuto il (OMISSIS) nel cortile della Questura di Milano da B.G.;
– con la seconda gli si contestava il reato di strage in concorso, commessa il (OMISSIS) in (OMISSIS), di cui il M. sarebbe stato l’ideatore e il mandante.
1.1. – Da entrambe le imputazioni, dopo una condanna in primo grado, il ricorrente era stato assolto:
a) con sentenze emesse dalla Corte di Assise di Appello di Milano in data 27.09.2002 e 01.12.2004 (questa ultima emessa in sede di rinvio dalla Cassazione) per non avere commesso il fatto (strage in Questura);
b) con la stessa formula veniva prosciolto anche dalla strage di (OMISSIS), con sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Milano in data 12.03.2004.
1.2. – Nella motivazione delle suddette decisioni, le Corti di secondo grado chiarivano che "Il proscioglimento dell’istante era dovuto alla mancanza di riscontri oggettivi alle dichiarazioni accusatorie dei soggetti che avevano inteso collaborare con la giustizia". Ritenevano, inoltre le Corti che "La militanza in una organizzazione eversiva non comportasse automaticamente la responsabilità per tutti i delitti attribuiti alla organizzazione stessa".
2. – La Corte di Appello di Milano, nel rigettare la domanda di riparazione presentata dal M. per l’ingiusta detenzione subita, riteneva che il richiedente avesse, con la propria condotta gravemente colposa, concorso a dare causa alla misura cautelare de qua e ravvisava, pertanto, grave colpa ostativa del richiedente stesso ex art. 314 c.p.p..
Detta Corte ravvisava la "colpa grave", ai fini che ne occupano, in una serie di elementi che, pur non portando alla condanna del ricorrente, tuttavia dimostrano un comportamento gravemente colposo da parte del M., tale da indurre gli inquirenti a ritenere necessaria la sua sottoposizione a custodia cautelare.
Per entrambi i delitti contestati l’ordinanza indicata in epigrafe riporta analiticamente gli elementi di fatto valutabili a sfavore del ricorrente ed accertati con le sentenze assolutorie.
2.1. – Più precisamente, per quanto riguarda la strage alla Questura di Milano, risulta che:
a) Ordine Nuovo era un’associazione eversiva che aveva in progetto il sovvertimento delle istituzioni democratiche con attentati terroristici;
b) M. era stato condannato con sentenza definitiva per ricostituzione del partito fascista;
c) M. militava in posizione di spicco nell’organizzazione eversiva;
d) l’attentato è attribuibile a Ordine Nuovo, come punizione per la decisione dell’onorevole R. da Ministro dell’Interno di sciogliere Ordine Nuovo;
e) B. era solo l’esecutore materiale ed aveva agito su incarico di ambienti facenti capo ad Ordine Nuovo, con il quale aveva contatti;
f) B. e M. si conoscevano;
g) M. sosteneva la necessità di attentati e stragi per imprimere al Paese una svolta autoritaria;
h) lo stesso aveva parlato del progetto di colpire un uomo politico, indicato nell’onorevole R.;
i) egli era in contatto con persone che detenevano armi ed esplosivi per conto di Ordine Nuovo.
2.1.1. – L’assoluzione del M., a norma dell’art. 530 cpv.
c.p.p., era dovuta all’inutilizzabilità della chiamata in correità di uno dei collaboratori, nonchè dalla mancanza di una prova certa sul suo ruolo di mandante, visto che l’incarico al B. poteva essere stato dato anche da altri esponenti di Ordine Nuovo.
Tutti gli elementi indicati "denotano un comportamento gravemente colposo tenuto dall’istante", si legge nell’ordinanza, ed erano stati posti a base del mandato di cattura emesso a carico del M., il quale, negando di conoscere il B. nell’interrogatorio di garanzia, aveva rafforzato la convinzione degli inquirenti sul suo coinvolgimento nell’attentato, inducendoli a mantenere lo stato di custodia cautelare.
2.2. – Relativamente, invece, alla strage di (OMISSIS), gli elementi enucleati dalla sentenza assolutoria dimostrano che:
a) la responsabilità della strage è da attribuirsi a F.F. e V.G.;
b) esisteva un gruppo eversivo all’interno di Ordine Nuovo di Venezia;
c) M., aderente a Ordine Nuovo in posizione di preminenza, faceva parte di un’organizzazione criminosa attiva nel Triveneto;
d) lo stesso professava un’ideologia stragista e faceva discorsi eversivi;
e) M. conosceva F., che aveva contattato tra (OMISSIS), invitandolo a tenere un ciclo di conferenze, circostanza in un primo tempo negata;
f) esistevano stretti rapporti tra il gruppo di Ordine Nuovo di Padova (al quale aderiva F.) e quello di Venezia (al quale apparteneva M.), anche se non vi sono prove di una progettazione della strage in comune tra i due gruppi;
g) M. aveva prestato la sua auto agli aderenti ad Ordine Nuovo, esecutori materiali di attentati a (OMISSIS) e a (OMISSIS), per trasportare esplosivo, così come aveva fatto per permettere di raggiungere (OMISSIS) a soggetti che poi avevano partecipato agli scontri in quella città il (OMISSIS).
2.2.1. Il coinvolgimento del M. in azioni violente sulle cose o sulle persone in epoca immediatamente precedente alla strage di Milano, secondo l’impugnata ordinanza, "rendevano verosimile un coinvolgimento diretto nel grave delitto, con le conseguenti ripercussioni sulla sua libertà personale";
3. – Avverso l’anzidetta ordinanza hanno proposto ricorso per Cassazione con due distinti ma pressochè identici motivi di ricorso i due difensori del ricorrente, lamentando violazione di legge e vizi di motivazione, per l’errore compiuto nel ritenere diversa l’efficacia della sentenza assolutoria del ricorrente, perchè emessa in base all’art. 530 cpv. c.p.p., equivalente in sostanza ad una insufficienza di prove e non ad una assoluzione piena, il che ha indotto la Corte di merito a "ripercorrere le tappe di una vicenda processuale già conclusa", come se si dovesse instaurare un ulteriore grado di giudizio sulla misura cautelare personale; quanto alla motivazione, si lamenta la sua carenza nell’individuare il nesso tra condotta asseritamente colposa – tra l’altro indicata genericamente – ed emissione del provvedimento cautelare; da ultimo sì mette in evidenza che la condotta del M. avrebbe avuto luogo circa trentanni prima dell’iniziativa della magistratura requirente a suo carico, ed anche di questa peculiarità non si tiene alcun conto nell’ordinanza in esame.
4. – Il ricorso è infondato.
4.1, – Il giudice della riparazione, che ha il potere di apprezzare, in modo autonomo e completo, gli elementi a sua disposizione e il dovere di fornire adeguata e congrua motivazione del convincimento conseguito, non è venuto meno, nel caso di specie, al compito attribuitogli.
Non soltanto, infatti, ha valutato tutti gli elementi probatori che aveva a disposizione, ma ha altresì individuato gli elementi della condotta "gravemente colposa" del richiedente, che avevano caratterizzato le fasi antecedenti e successive alla adozione del provvedimento restrittivo della libertà personale, rilevando, in particolare, che la condotta complessivamente tenuta dal M. "ha svolto una funzione sinergica nella emanazione del provvedimento restrittivo della libertà personale e nel mantenimento dello stato di custodia cautelare". L’impugnata ordinanza è assistita da congrua e logica motivazione e mostra di rifarsi correttamente a consolidati orientamenti giurisprudenziali di questa Suprema Corte in tema di verifica della sussistenza del dolo o della colpa grave ostativi all’accoglimento della domanda per ingiusta detenzione.
4.2. – In proposito appare opportuno ricordare i principi affermati da questa Corte in merito contenuto ed ai limiti della indagine devoluta al giudice della riparazione sulla sussistenza di eventuali elementi ostativi all’affermazione del diritto dell’istante.
4.2.1. – In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v., sotto diversi profili, le sentenze delle Sezioni Unite 13.12.1995, n. 43 Sarnataro, e 26.06.2002, n. 34559, De Benedictis), afferma che la nozione di "colpa grave" di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuata in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale. A tal riguardo, secondo il ragionamento sviluppato dal giudice di legittimità, il giudice della riparazione deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta (sia extra processuale che processuale) tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante (e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito), non se tale condotta integri estremi di reato anzi, a ben vedere, questo è il presupposto, scontato, dell’intervento del giudice della riparazione, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di "causa ad effetto" ( Cass., sez. 4, 13.12.2005, n. 2895, rv. 2432884, Mazzei e altro).
4.2.2. – Giova, infine, distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un "iter" logico-motivazionale del tutto autonomo, avendo, "in relazione a tale aspetto della decisione (…), piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo" al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni per il riconoscimento del diritto al beneficio, (cfr. Cass. Sez. Un. 13.12.1995, n. 43). Il decidente, in sostanza, non deve stabilire se determinati comportamenti costituiscano o meno reato, ma se essi si siano posti come fattori condizionanti (anche nel concorso dell’altrui errore) della disposta detenzione, per la loro idoneità, da valutarsi ex ante, a trarre in inganno l’autorità giudiziaria (cfr. Cass. Sez. 4, 01.10.2002, n.12261).
4.3. Entrando nel merito delle doglianze, non vi è dubbio che le stesse siano infondate, perchè basate in parte su un inaccettabile travisamento del testo dell’art. 314 c.p.p. e in parte su una interpretazione erronea del percorso motivazionale della impugnata ordinanza. Quanto al primo punto, basta osservare che l’art. 314 c.p.p., comma 1, esclude il diritto all’equa riparazione per l’ingiusta custodia cautelare subita per chi, "vi abbia dato o concorso a darvi causa…": una lettura piana del testo normativo fa concludere che la causa ostativa all’accoglimento della richiesta, cioè la condotta integrante colpa grave, non deve essere stata l’unico elemento che abbia dato causa alla custodia cautelare, ma basta che abbia concorso a dare causa. E, nella fattispecie, i comportamenti del ricorrente hanno confortato e confermato le dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia, ponendosi come concausa della restrizione della libertà del richiedente. Su tale conclusione non hanno avuto peso eventuali diversità di valutazione sulla formula assolutoria adottata nei confronti del ricorrente, se non nell’ambito di una necessaria, in questa sede, e consentita rivisitazione del materiale desumibile dalle decisioni di merito, per il fine, non di accertare responsabilità, ma di valutare la sussistenza di cause ostative al riconoscimento di un diritto, quello alla riparazione per ingiusta detenzione, che risponde ad altri fini e ad altre regole.
Come sopra rilevato, infatti, è assioma in materia la distinzione tra decisione di merito – assolutoria – e ricostruzione delle vicende processuali al fine del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, nella quale è necessario, ma anche sufficiente, che la condotta ascritta al ricorrente possa configurarsi come illecito penale, sia pure mediata da errore di chi ha emesso il provvedimento restrittivo.
4.3.1. – In base a tali emergenze, è legittimo e ragionevole concludere che M.C.M. pur dichiarato non colpevole nel giudizio penale conclusosi con le citate sentenze della Corte di Assise di Appello di Milano, abbia tenuto una condotta connotata da colpa grave, dalla quale sono derivati gli estremi dei gravi indizi di colpevolezza e non dei meri sospetti, che ha giustificato l’intervento della autorità giudiziaria e ha legittimato il provvedimento restrittivo della libertà.
Il provvedimento impugnato indica, in effetti, proprio gli elementi della condotta che hanno dato origine all’apparenza di illecito penale, ponendosi come causa della detenzione. Giova riportare, sul punto, alcuni passi salienti della ordinanza impugnata, laddove, dopo aver evidenziato le emergenze oggettive valutabili a sfavore del ricorrente, cosi come risultanti dalle sentenze assolutorie, fornisce ampia e congrua motivazione del percorso argomentativo seguito per qualificare "gravemente colposa" (e, quindi, ostativa alla "equa riparazione" ai sensi all’art. 314 c.p.p.) la condotta del M. il quale "aveva militato nel periodo delle stragi in posizione di primo piano in un’organizzazione eversiva che aveva tra i suoi scopi anche quello di compiere attentati (e ne aveva effettivamente commessi).
Aveva inoltre svolto in passato attività politica illecita, tanto da essere condannato per ricostituzione del disciolto partito fascista.
Considerata l’accertata matrice politica della strage, la contiguità anche ideologica del M. con gli organizzatori dell’attentato è fuori discussione ed è stata affermata senza mezzi termini nelle decisioni assolutorie. Il predetto tuttavia non si era limitato a frequentare ambienti eversivi e soggetti che detenevano armi ed esplosivi per conto di Ordine Nuovo, ma aveva sostenuto dialetticamente la tesi della necessità di compiere attentati, anche se ne poteva derivare la morte di più persone, trattandosi a suo giudizio di atti indispensabili per l’attuazione del progetto politico perseguito: imprimere una svolta autoritaria alla politica italiana. Come è agevole osservare, si tratta di opinioni che non possono considerarsi legittime manifestazione di pensiero tutelate dall’art. 21 Cost.: i partiti, i movimenti politici e i loro aderenti devono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.) e pertanto chi teorizza o comunque ammette la violenza e le stragi come metodo di lotta politica si pone in contrasto coi principi costituzionali e può far sorgere il sospetto di un proprio coinvolgimento diretto nell’azione violenta eventualmente verificatasi.
Ciè è avvenuto nel caso di specie. Il mandato di cattura faceva infatti riferimento al ruolo di spicco che il M. rivestiva in Ordine Nuovo, essendone il responsabile per il Triveneto;
sottolineava inoltre il fatto che l’attentato fosse ascrivibile ad aderenti ad Ordine Nuovo, che il M. fosse un sostenitore della tesi stragista e conoscesse il B., del quale dava un giudizio positivo. Da questi dati di fatto, ascrivibili ad un comportamento gravemente colposo, volontario e cosciente dell’istante (fatti che risulteranno accertati nella sentenza assolutoria), il Giudice Istruttore traeva elementi di conferma delle chiamate in conreità o in reità dei soggetti che avevano deciso di collaborare con la giustizia (in particolare D. e S.).
Il ricorrente dunque si era messo volontariamente nella situazione di essere incriminato e, negando decisamente di conoscere il B. nell’interrogatorio di garanzia reso al Giudice Istruttore il 18.6.1997, non poteva che rafforzare la convinzione degli inquirenti sul suo coinvolgimento nell’attentato. Tale contegno complessivo rappresenta un comportamento volontario gravemente colposo, che ha svolto una funzione sinergica nell’emanazione del provvedimento restrittivo della libertà e nel mantenimento dello stato di custodia cautelare. La condotta oggettiva del M. ben concretava infatti quei gravi indizi di colpevolezza che avevano portato all’adozione e al mantenimento della custodia in carcere".
Analoghe considerazioni venivano svolte per quanto concerne il titolo di detenzione relativo alla strage di (OMISSIS) rispetto alla quale venivano enucleati specifici elementi dei fatto (v. supra al punto 2.2.) denotanti "comportamenti volontari gravemente colposi che hanno contribuito, insieme con le dichiarazioni dei collaboratori, a concretare quei gravi indizi di colpevolezza posti alla base dell’applicazione e del mantenimento della custodia cautelare.
Le frequentazioni dell’istante con soggetti legati a gruppi eversivi e col responsabile della strage, l’ideologia stragista professata, il contributo del M. ad azioni violente sulle cose o sulle persone in periodo immediatamente precedente la strage di (OMISSIS), rendevano verosimile un coinvolgimento diretto nel grave delitto, con le conseguenti ripercussioni sulla sua libertà personale.
4.3.2. – Posto, dunque, che le condotte apprezzabili, al fine di valutare la sussistenza o meno del dolo o della colpa grave, sono quelle che si pongano in rapporto causale con il provvedimento restrittivo della libertà personale, e premesso che il vizio di motivazione deducibile in questa sede di legittimità deve – per espresso disposto normativo – risultare dal testo del provvedimento impugnato, devesi, nella specie, riconoscere che la impugnata ordinanza si colloca coerentemente e puntualmente nella linea del suddetto insegnamento giurisprudenziale, avendo i giudici della riparazione correttamente esercitato il potere di apprezzare in modo autonomo tutti gli elementi probatori a loro disposizione e fornito congrua e logica contezza del percorso argomentativo seguito nel pervenire alla resa statuizione, sostanzialmente rilevando che l’istante ha posto in essere un comportamento incauto (e consapevole) che secondo le citate regole di comune esperienza, doveva far prevedere un doveroso intervento da parte della Autorità giudiziaria, in quanto valutato come uno degli elementi fondanti i gravi indizi di colpevolezza che ebbero a giustificare il provvedimento restrittivo della libertà (cfr. Cass. 12.02.2004, n. 16506, Di Savoia, rv. 228527).
4.3.3. – Quanto al secondo punto, nel ricorso si ignora totalmente che l’ordinanza impugnata fa riferimenti puntuali e specifici ad elementi concreti della condotta del ricorrente, comprese alcune sue negazioni di elementi innegabili, che comunque hanno svolto una funzione non secondaria e nell’emissione e nel mantenimento della misura cautelare. In conclusione, le dichiarazioni accusatorie dei collaboratori, le vicende relative alla storia dell’associazione sovversiva Ordine Nuovo e al ruolo rivestito nella stessa dal ricorrente, nonchè le notorie posizioni politicoideologiche del M. erano e sono elementi sufficienti a giustificare la carcerazione, e la posizione negativa del ricorrente in sede di interrogatorio su alcune circostanze pacifiche e non marginali – quali la conoscenza del B. e i rapporti con il F. – poteva sostenere ampiamente il mantenimento dello stato di detenzione; quindi la colpa dell’istante, macroscopica, vista la solidità degli elementi di accusa, si è concretizzata sia prima che dopo il suo arresto (cfr. Sez. 3, 17.02.2005, n. 13714, rv. 231624, P.G. in proc. Moni: "In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il silenzio, la reticenza o il mendacio, pur essendo mezzi che l’imputato o indagato ha il diritto di utilizzare per difendersi dall’accusa, possono essere valutati dal giudice come un comportamento doloso o gravemente colposo dell’indagato, il quale in tal modo ha concorso a dare causa all’ingiusta detenzione", cui aggiungi, con argomentazione al contrario, Sez. 4, 04.10.2005, n. 45154, rv. 232821, Soreca: "In materia di riparazione per ingiusta detenzione, non può fondarsi la colpa dell’interessato, idonea ad escludere il diritto all’equa riparazione, solo sul silenzio da questi serbato in sede di interrogatorio davanti al P.M. ed al G.I.P., giacchè la scelta defensionale di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere "ex se" per fondare un giudizio positivo di sussistenza della responsabilità per il rispetto che è dovuto alle strategie difensive che abbia ritenuto di adottare chi è stato privato della libertà personale, anche qualora a tali strategie difensive possa attribuirsi, "a posteriori", un contributo negativo di non chiarificazione del quadro probatorio legittimante la privazione della libertà….).
In sostanza, fermo restando, nel giudizio penale, l’insindacabile diritto al silenzio da parte della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato – che hanno diritto di difendersi anche con il silenzio, la reticenza o il mendacio – va rilevato che nel giudizio di natura civilistica per la riparazione, il giudice può valutare il comportamento silenzioso o mendace dell’imputato per escludere il suo diritto all’equo indennizzo.
Infatti, se è vero che non può certamente disconoscersi, nel necessario rispetto per le richiamate strategie difensive che colui che ha perso la libertà (ingiustamente) ritenga di adottare (e che possono comprendere anche il silenzio, la reticenza e il mendacio che non integrino calunnia o ingannevoli artificiosità), ciò nondimeno, alla base dell’equa riparazione, va necessariamente posta una condotta dell’interessato idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze, a lui note, che contrastino l’accusa o vincano le ragioni di cautela.
In ogni caso il giudice, ai fini della eventuale colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, può valutare il comportamento silenzioso o mendace, legittimamente tenuto nel procedimento penale dall’imputato, per escludere il suo diritto all’equo indennizzo (ex plurimis, Cass. Sez. 4, 21.02.2008, n. 11423, P.G. c. Picarì, rv. 238940).
4.3.3. – Quanto, infine, al dato della grande distanza cronologica tra condotta del ricorrente ed emissione del provvedimento cautelare, occorre ricordare che l’acquisizione degli elementi di fatto indicati è stata di molto posteriore alle stragi e di poco anteriore al provvedimento della magistratura inquirente, essendo elemento notorio la lunghissima durata delle indagini sulle stragi di Milano.
4.4. – Respinte quindi tutte le doglianze, resta la congruità, logica e giuridica, della impugnata ordinanza, che, nel ritenere sussistente la causa impeditiva, la ravvisa negli elementi della condotta del ricorrente che hanno dato origine alla apparenza dell’illecito penale ponendosi come causa della detenzione; elementi correttamente valutati ex ante e non alla luce delle conclusioni assolutorie del giudice di merito.
Correttamente pertanto la Corte territoriale ha reputato che l’imputato, nella vicenda processuale che lo ha visto coinvolto, abbia concorso a dar causa all’adozione del provvedimento restrittivo, dopo aver verificato che la sua condotta era stata il presupposto che aveva ingenerato la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione come causa ad effetto.
4.4.1. – E, quindi, l’impugnato provvedimento supera il vaglio del giudice di legittimità, nei limiti indicati supra, cui adde Sez. 4, 19.02.2003, n. 15143, Macrì, cit. "il sindacato del giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato. Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa o sull’esistenza del dolo").
4.5. – In tale contesto il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Sussistono giusti ed equi motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese sostenute in questo grado di giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questo grado del giudizio.
Così deciso in Roma, il 10 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2008