Con ricorso depositato il 19.3.2004, la "L. & RA. Leasing e Rappresentanze s.n.c. di B.F. in liquidazione" chiedeva che la Corte di Appello di Caltanissetta, previo accertamento della violazione dell’arto, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, per brevità, denominata semplicemente Convenzione europea), sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, disponesse la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento dell’equa riparazione dei danni subiti in conseguenza del fatto che la causa civile instaurata davanti al Tribunale di Palermo con atto di citazione notificato il 5.12.1986 e definita in forza di sentenza del 9.4.1993/27.1.1995, si era conclusa in grado di appello mediante sentenza del 19.9/18.10.2003 pronunciata dalla locale Corte territoriale.
Il Giudice adito, con decreto emesso in data 7/15.7.2004, rigettava il ricorso assumendo:
a) che anche alle società di persone dovesse venire esteso il principio, valvole per le persone giuridiche, secondo cui il danno non patrimoniale può dipendere unicamente dalla compromissione dei diritti della personalità compatibili con la fisicità, onde esso era ipotizzabile solo alla condizione che la controversia ed il tema della lite, alla base della richiesta di equa riparazione, avessero coinvolto, direttamente o indirettamente, gli indicati diritti, così da escludere la riparazione medesima in tutti i casi nei quali la domanda avesse avuto una consistenza meramente patrimoniale e non fosse stato allegato per il ritardo nella pronuncia alcun effetto pregiudizievole sui medesimi diritti; b) che, nel caso in esame, nulla la parte avesse dedotto in ordine alla lesione di siffatti diritti, laddove, peraltro, nel 1993 la società era stata posta in liquidazione, onde, in tale fase, i già menzionati diritti risultavano ulteriormente attenuati, subendo comunque una modifica;
c) che la pretesa azionata dalla ricorrente davanti agli uffici giudiziari di Palermo, relativa ai comportamenti diffamatori tenuti nei propri confronti dalla parte convenuta, avesse carattere prevalentemente patrimoniale, dovendo altresì tenersi in considerazione il fatto che i suindicati Giudici ne avevano escluso la fondatezza;
d) che non fosse stato, pertanto, in alcun modo provato l’intervenuto pregiudizio ai diritti anzidetti.
Avverso tale decreto, ricorre per cassazione la società come sopra denominata, deducendo un solo, complesso motivo di gravame al quale resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di impugnazione, lamenta la ricorrente violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 e 3, con riferimento all’ art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, denunziando:
a) che, con le sentenze delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 2004, è stata riconosciuta la prevalenza e la diretta applicabilità nell’ordinamento giuridico italiano della giurisprudenza della Corte europea, onde il dovere degli Stati che hanno ratificato la Convenzione europea di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa innanzi tutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale, là dove una simile protezione deve essere effettiva ( art. 13 della Convenzione anzidetta), ovvero tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo;
b) che, secondo la giurisprudenza della medesima Corte, l’equa riparazione del danno non patrimoniale viene accordata senza che di questo sia richiesta alcuna prova, in conseguenza della sola violazione della Convenzione europea quanto al termine di ragionevole durata del processo;
c) che il rimedio offerto dalla legge cd. "Pinto" non può essere considerato effettivo per quanto concerne la richiesta di equa riparazione del danno non patrimoniale subito dalle persone giuridiche, nel senso che esso, per risultare tale, non deve limitarsi a consentire l’affermazione della violazione del termine ragionevole, ma deve anche permettere la riparazione del pregiudizio sofferto, pur in difetto di una sua prova che il Giudice europeo non richiede alla parte lesa, non importa se persona fisica o persona giuridica; d) che la decisione impugnata deve, quindi, essere cassata, affinchè la Corte del rinvio determini l’equa riparazione alla quale la società ricorrente ha diritto per il danno non patrimoniale subito, se del caso disponendosi che tale Giudice, per adeguarsi il più possibile alla giurisprudenza della Corte europea, preliminarmente proceda alla disapplicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e 4, là dove quest’ultima norma prevede che, per avere diritto all’equa riparazione, il soggetto legittimato debba dimostrare di avere subito un danno, così da leggere l’articolo in questione con eliminazione delle parole "danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di".
Il motivo, nei termini appresso indicati, è fondato.
Si osserva, al riguardo, come la più recente giurisprudenza di legittimità, modificando l’iniziale orientamento, abbia ritenuto che, in tema di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, anche per le persone giuridiche (e, più in generale, per i soggetti art. 2 collettivi, quali appunto le società di persone) il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è, tenuto conto dell’indirizzo maturato in proposito nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo sancito dall’ art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui – persone fisiche, sicchè, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno in re ipsa, ovvero di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti il concorso, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che un simile danno sia stato subito dalla parte ricorrente (Cass. 18 febbraio 2005, n. 3396; Cass. 8 giugno 2005, n. 12015; Cass. 30 agosto 2005, n. 17500; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21094; Cass. 15 giugno 2006, n. 13829).
D’altra parte, se pure è vero che la sentenza delle Sezioni Unite n. 1338 del 26 gennaio 2004, malgrado abbia compiuto una semplificazione degli oneri probatori, non ha tuttavia escluso, a carico del ricorrente, il dovere primario di allegazione dell’esistenza del danno, della sua natura e dei fattori della sua causazione efficiente (Cass. 30 marzo 2005, n. 6714), è altresì vero, però, che, ai fini dell’esplicazione degli elementi costitutivi della domanda, è sufficiente l’allegazione del pregiudizio non patrimoniale subito come conseguenza dell’irragionevole durata del processo, appartenendo al merito l’accertamento circa la sussistenza di tale danno, senza necessità che la parte istante indichi analiticamente in quali forme di sofferenza tale danno si sia concretato ed adduca specifici riferimenti alla sua situazione personale, ben potendo, con riguardo al danno di siffatta natura, reputarsi adeguata anche una richiesta di indennizzo avanzata con formulazione onnicomprensiva, la quale è da intendere riferita sia al danno "non patrimoniale" sia al danno "patrimoniale", fermo restando, peraltro, che, relativamente a quest’ultimo (ma soltanto ad esso), il quale deve formare oggetto di prova piena e rigorosa, occorre l’ulteriore specificazione di tutti gli estremi, variabili da caso a caso, così da risultarne possibile l’individuazione sulla base del contesto complessivo dell’atto e da consentire alla controparte l’esercizio del diritto di difesa (Cass. 16 ottobre 2003, n. 15475; Cass. 8 luglio 2005, n. 14379; Cass. 14 ottobre 2005, n. 19999).
Nella specie, la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra riportati, segnatamente là dove il ricorso dell’odierna ricorrente è stato da detto Giudice rigettato richiamando il "costante (ma superato, giusta quanto precede) orientamento giurisprudenziale" del Supremo Collegio ed, in particolare, assumendo:
1) che "vada esteso anche alle società di persone il principio, valevole per le persone giuridiche, secondo cui il danno non patrimoniale…può dipendere solo dalla compromissione di quei diritti materiali della personalità che sono compatibili con la fisicità, quali i diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione e dunque è ipotizzabile solo a condizione che la controversia ed il tema della lite, in relazione al cui eccessivo protrarsi si chiede l’equa riparazione, coinvolga, direttamente o indirettamente, gli indicati diritti";
2) che, "nel caso in esame, nulla la parte ha dedotto in merito alla lesione di tali diritti, limitandosi a richiamare genericamente il principio relativo alla ammissibilità in astratto del riconoscimento dell’equa riparazione alle società di persone";
3) che, "non essendo in alcun modo provato l’intervenuto pregiudizio ai suddetti diritti …, alla stregua delle considerazioni che precedono la domanda in esame deve essere respinta".
Pertanto, i primi tre profili di censura sopra illustrati (alle lettere "a", "b" e uc" che precedono) si palesano fondati, restando, di conseguenza, assorbito l’ulteriore profilo che attiene alla "richiesta di disapplicazione della L. n. 89 del 2001, quanto all’art. 2, comma 1, quale conseguenza della diretta applicabilità della Convenzione (europea) e della giurisprudenza della CEDU", onde, in definitiva, il ricorso merita accoglimento per quanto di ragione ed il decreto impugnato deve essere cassato in relazione alle censure accolte, con rinvio, anche ai fini delle spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di Appello di Caltanissetta in diversa composizione, affinchè tale Giudice provveda a decidere la controversia demandata alla sua cognizione facendo applicazione dei principi sopra enunciati.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e rinvia, anche ai fini delle spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di Appello di Caltanissetta in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 7 novembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2007