Il sig. M.B.V. e gli altri litisconosorti indicati in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione avverso un decreto emesso dalla Corte d’appello di Bari il 23 novembre 2003.
I ricorrenti si sono doluti del mancato accoglimento delle loro domande, volte ad ottenere un equo indennizzo per l’eccessiva durata di giudizi che essi avevano promosso dinanzi alle competenti Commissioni tributarie al fine di conseguire il rimborso di trattenute d’imposta non dovute; domande che la corte barese ha però rigettato sul presupposto che le controversie in materia tributaria non sono soggette alla disciplina dettata dalla L. n. 89 del 2001 in tema di indennizzo per la irragionevole durata dei processi.
L’amministrazione finanziaria ha resistito con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso ripropone una questione già in precedenza affrontata da questa corte: se la disciplina dell’equa riparazione per l’eccessiva durata dei giudizi, prevista dalla L. n. 89 del 2001, sia o meno riferibile anche alla durata delle controversie in materia tributaria che si svolgono dinanzi alle competenti commissioni tributarie.
E’ ormai principio acquisito quello per il quale, al fine d’individuare la sfera di applicazione della disciplina del diritto all’equa riparazione indicato dalla citata L. n. 89 del 2001, art. 2, occorre tener conto delle indicazioni emergenti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, alle quali il giudice interno deve conformarsi, attesa la coincidenza dell’area di operatività dell’equa riparazione ai sensi di detta legge con l’area delle garanzie assicurate dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, alla cui interpretazione è appunto preposta la Corte europea di Stasburgo.
Orbene, la Corte europea ha sempre escluso che il campo di applicazione dell’ art. 6 della Convenzione sia estensibile alle controversie tra il cittadino e il Fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi, stante l’estraneità ed irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile.
Di ciò ha preso atto anche la giurisprudenza italiana (cfr., tra le molte, Cass. 7 giugno 2004, n. 11350 e Cass. 4 novembre 2005, n. 21404; Cass. 6 aprile 2006, n. 8035; Cass. 7 luglio 2006, n. 15604), deducendone che l’equa riparazione prevista dalla legge nazionale per le violazione dell’ art. 6, paragrafo 1, della citata Convenzione europea non è riferibile all’eventuale eccessiva protrazione della durata di controversie, involgenti la potestà impositiva dello Stato, appunto perchè, secondo la Corte europea di Strasburgo, tali controversie restano escluse dal quadro di tutela della norma comunitaria. Nè è sostenibile che siffatta conclusione sia contraddetta dalla previsione della L. n. 89 del 2001, art. 3, laddove include tra i soggetti legittimati passivi rispetto all’azione di riparazione anche il Ministero delle Finanze quando si tratti di procedimenti tributali. Detta ultima disposizione – che per la sua natura di norma processuale attinente alle forme di esercizio del diritto non potrebbe immutare ed ampliare i contenuti della tutela, quale definita e circoscritta dalla normativa di portata sostanziale di cui al precedente art. 2 della Legge citata – va letta infatti in modo assolutamente coerente con il complessivo impianto sistematico della legge nazionale e della Convenzione, nel senso della sua riferibilità a quelle (e soltanto a quelle) controversie di competenza del giudice tributario, che siano afferenti: a) alla materia civile, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investono la determinazione del tributo ma solo aspetti a questa consequenziali, come nel caso, ad esempio, del giudizio di ottemperanza ad un giudicato del giudice tributario, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 70, od in quello (anch’esso di competenza di quel Giudice, come rammentato dalle sezioni unite di questa corte nella sentenza n. 18208 del 2003) di giudizio vertente sull’individuazione del soggetto di un credito d’imposta non contestato nella sua esistenza; b) alla materia penale, intesa quest’ultima – secondo la nozione autonoma elaborata anche per tal profilo dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, di cui il giudice nazionale deve tenere conto – come comprensiva anche delle controversie relative alla applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro gravità, assimilabili sul piano della afflittività ad una sanzione penale (vedi la decisione del 23 luglio 2002 in causa Janoseviv c. Suede).
E’ vero, pertanto, che non può affermarsi in assoluto che tutte le controversie portate all’attenzione del giudice tributario rimangono estranee alla possibile applicazione della tutela di cui alla L. n. 89 del 2001, e che in particolare possono rientrarvi le richieste di rimborso di somme rifluenti nell’area delle obbligazioni privatistiche (cfr. Cass. 4 novembre 2005, n. 21403, e Cass. 3 agosto 2005, n. 17499). Nel caso in esame, però, gli stessi ricorrenti riferiscono che le controversie da loro instaurate dinanzi alle competenti commissioni tributarie afferivano al rimborso di imposte che – a loro dire – sarebbero state indebitamente trattenute e per la cui restituzione essi avevano invano fatto richiesta alla locale Intendenza di finanza. Non par dubbio, quindi, che si tratti di controversie le quali non avevano ad oggetto l’accertamento del diritto alla ripetizione d’indebito secondo principi di diritto civile, bensì proprio l’esistenza o meno del presupposto del potere impositivo dello Stato: controversie perciò, come tali, non rientranti nell’ambito di tutela previsto dalla citata Convenzione europea.
Neppure ha fondamento l’assunto dei ricorrenti, secondo cui una siffatta lacuna di tutela dovrebbe comunque esser colmata con strumenti desumibili dall’ordinamento nazionale, per conformarsi al principio della ragionevole durata dei giudizi (anche quelli tributari) posto dall’art. 111 Cost., comma 2.
Appare assai dubbio che una tale richiesta di più ampia tutela possa trovare appiglio diretto nella citata disposizione della Carta costituzionale, che demanda alla legge ordinaria il compito di assicurare la ragionevole durata dei processi; ma, se anche non si volesse considerare risolutivo tale rilievo e si volesse far discendere senz’altro dalla citata disposizione della Costituzione il diritto all’equa riparazione per eccessiva durata dei giudizi tributari, non ne deriverebbe l’applicabilità delle speciali regole di diritto sostanziale e procedurale dettate dalla L. n. 89 del 2001, ma tutt’al più sarebbe ipotizzabile, in caso di durata irragionevole di tali giudizi, l’esercizio di un’azione ordinaria per il risarcimento dei danni: azione ben diversa da quella contemplata dall’anzidetta legge ed in questa sede esercitata.
Manifestamente infondati si profilano, d’altronde, i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalla difesa dei ricorrenti in ordine alla medesima L. n. 89 del 2001, art. 2, nella parte in cui non estende la propria disciplina anche alle controversie in materia tributaria nelle quali sia in questione il potere impositivo dello Stato, per l’irragionevole disparità di trattamento che ne deriverebbe rispetto alle controversie di altro genere.
Non v’è dubbio che il legislatore italiano bene avrebbe potuto andare oltre i limiti di tutela garantiti dalla Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo; ma il fatto che, viceversa, egli abbia preferito rimanere entro quei limiti e tenersi fermo ai principi ed alle regole stabilite dalla medesima Convenzione (come interpretata dalla Corte di Strasburgo) non può sicuramente configurasi come una scelta manifestamente irragionevole, essendo innegabile che, in un contesto come quello di cui si sta discutendo, i parametri di riferimento si collocano sullo scenario europeo in cui la conformità alle indicazioni convenzionali assume una valenza certo tutt’altro che trascurabile.
Il ricorso deve, quindi, esser rigettato.
Sussistono, peraltro, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità, in considerazione del fatto che il protrarsi nel tempo del giudizio tributario di cui si è discusso, pur non generando il diritto all’equa riparazione a torto invocato dai ricorrenti, nondimeno è stato certamente per loro fonte di potenziale disagio.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2007