Con decreto in data 5 maggio 2004, la Corte d’appello di Roma accoglieva la domanda di equa riparazione proposta da S. F.M. in relazione alla irragionevole durata di una controversia di risarcimento danni conseguenti al decesso del proprio padre in un incidente stradale, introdotta, a seguito del giudizio penale in cui si era costituita parte civile (definito con sentenza irrevocabile in data 30 settembre 1977 con la quale l’imputato veniva condannato al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede), con atto di citazione del 9 dicembre 1977 e definito in appello con sentenza del luglio 2003. La Corte, premesso che il diritto all’equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo non può che essere configurato e valutato con riferimento al singolo procedimento, riteneva che non potesse essere accolta la tesi della istante di considerare unitariamente la vicenda e quindi di computare nella durata del procedimento i tempi del processo penale, peraltro svoltosi in un arco temporale congruo (cinque anni per la fase istruttoria e due gradi di giudizio).
La Corte riteneva invece violato il diritto della ricorrente alla ragionevole durata del processo civile, giacchè lo stesso aveva avuto una durata in primo grado di ventitre anni, a fronte dei quattro che, considerata la non complessità della controversia, sarebbero stati sufficienti per la sua definizione; laddove il giudizio di appello, protrattosi per tre anni, aveva avuto una durata ragionevole. Pertanto, detratta dalla durata complessiva del giudizio civile, protrattosi dal dicembre 1977 al luglio 2003, la durata di quattro anni per il giudizio di primo grado e di tre anni per il giudizio di appello, per la restante durata (18 anni e sette mesi circa) doveva ritenersi intervenuta la violazione del diritto della ricorrente e sussisteva quindi il diritto della stessa all’equo indennizzo per il danno non patrimoniale, liquidato equitativamente in Euro 9.500,00.
Per la Cassazione di tale decreto ricorre S.F.M. sulla base di due motivi; l’intimata Amministrazione ha depositato atto di costituzione ai fini della partecipazione all’udienza di discussione.
Il Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto del primo motivo di ricorso, perchè manifestamente infondato, e l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, perchè manifestamente fondato.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 3, 4 e 5 e dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui la Corte d’Appello ha limitato il calcolo del periodo di lentezza processuale alla sola fase del procedimento civile e non anche alla fase relativa al procedimento penale. A parte il rilievo che la giurisprudenza citata nel provvedimento impugnato si riferisce alla ipotesi di due giudizi svoltisi dinnanzi a giurisdizioni differenti, la ricorrente osserva che il ragionamento del giudice del merito avrebbe potuto trovare un qualche fondamento nel caso in cui ella non si fosse costituita parte civile nel giudizio penale. Nel caso in cui, viceversa, come quello di specie, la costituzione avvenga, non può operarsi alcuna distinzione, giacchè il diritto del quale la ricorrente intendeva ottenere il riconoscimento era sempre lo stesso:
il risarcimento dei danni conseguenti al decesso del proprio padre.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, con riferimento alla quantificazione dell’indennizzo, avvenuta senza l’osservanza dei criteri fissati dalla CEDU. Il criterio medio della Corte europea, infatti, è di Euro 1.250,00 per anno di ritardo, sicchè, nella specie, per gli anni di violazione accertati dalla Corte d’appello, l’indennizzo avrebbe dovuto essere di Euro 28.750, pari a Euro 1.250,00 per 23 anni di ritardo.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente fondato e va quindi accolto.
Non vi è dubbio, infatti, che con la costituzione di parte civile nel giudizio penale la persona offesa dal reato esercita il proprio diritto ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti dal reato.
Nè può essere revocato in dubbio che, allorquando la domanda risarcitoria venga accolta in sede penale, ma con una pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, la domanda che venga proposta dinnanzi al giudice civile non costituisce altro che la medesima domanda proposta in sede penale a mezzo di costituzione di parte civile, volta al perseguimento del medesimo bene della vita, e cioè il risarcimento del danno prodotto dal reato. Deve dunque escludersi che, allorquando la persona offesa eserciti il proprio diritto in sede penale e il giudizio si concluda con una sentenza di condanna generica al risarcimento del danno, la successiva introduzione del giudizio dinnanzi al giudice civile possa essere qualificato come un diverso giudizio in riferimento alla domanda fatta valere, identica essendo la pretesa azionata nel giudizio penale e in quello civile.
Ne consegue che, ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il giudice dell’equa riparazione non può limitarsi a rilevare la diversa natura dei giudizi nei quali la medesima pretesa viene fatta valere, per giungere alla conclusione che della durata del giudizio penale conclusosi con sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni non può tenersi conto nel computo del tempo complessivo occorso per pervenire in sede giurisdizionale ad una sentenza di condanna suscettibile di essere posta in esecuzione. Quel giudice dovrà infatti tenere presente che la pretesa sostanziale è unica e che quindi unitaria deve essere la valutazione della durata occorsa per pervenire alla sua definizione nei sensi ora indicati.
Del resto, non può non rilevarsi, ai fini che qui interessano, che l’esercizio dell’azione civile in sede penale non è destinato necessariamente e comunque a dare luogo ad una sentenza di condanna generica, non potendosi escludere che in sede penale vengano svolti accertamenti idonei a pervenire alla definizione del quantum del danno da liquidare una volta accertata la responsabilità penale dell’imputato. Sicchè non è sufficiente la mera rilevazione della diversità dei giudizi, rendendosi invece necessario valutare se, nel giudizio penale, la parte civile abbia limitato la propria domanda alla richiesta di una condanna generica dell’imputato (o del responsabile civile), con riserva di agire in sede civile per la determinazione del quantum, ovvero se una domanda di condanna ad una somma determinata sia invece stata proposta.
Il Collegio è consapevole che in una recente occasione questa Corte ha affermato che "In tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, ai fini dell’accertamento della durata del processo asseritameli te affetto da ritardo, pur essendo unico il diritto azionato per il risarcimento in sede penale e civile dei danni effetto di un reato, i due procedimenti non sono suscettibili di valutazione unitaria, data la diversità e distinzione nel nostro sistema dei procedimenti stessi, che possono anche concorrere e non costituiscono fasi diverse di un unico processo, pertanto, il periodo di tempo intercorso tra la costituzione di P.C. nel procedimento penale (nella specie sorto per il reato di lesioni personali da incidente stradale), definito con pronuncia di proscioglimento dell’imputato per amnistia, non seguita dall’impugnazione del danneggiato, costituitosi P.C., ed il successivo periodo di tempo occorso per la decisione della causa civile promossa dal medesimo danneggiato, onde ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito del medesimo evento, non sono cumulabili tra loro" (Cass., n. 11493 del 2006). E tuttavia non ritiene che tale affermazione sia preclusiva delle diversa soluzione cui nella presente sede si perviene, giacchè altro è il caso in cui il giudizio penale si concluda, come nella vicenda di cui alla citata sentenza, senza una pronuncia sul merito dell’azione civile e la parte civile non attivi i rimedi impugnatori previsti ai fini dei soli effetti civili, altro è il caso in cui, come in quello oggetto del presente giudizio, il giudizio penale giunga a compimento con l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato e con la sua condanna (o con la condanna del responsabile civile) al risarcimento del danno, sia pure da liquidare in separato giudizio. Nel primo caso, infatti, tra l’azione civile promossa in sede penale e quella successiva proposta davanti al giudice civile non può ravvisarsi unitarietà, dal momento che il giudizio civile dovrà tendere all’accertamento dell’an della pretesa risarcitoria, che in alternativa la parte civile avrebbe potuto continuare a coltivare in sede penale; nel secondo caso, invece, la domanda proposta in sede civile costituisce lo strumento che l’ordinamento appresta in favore della persona offesa per poter pervenire alla pronuncia sulla propria unica pretesa di una sentenza di condanna al risarcimento del danno in misura determinata.
In conclusione, deve affermarsi che, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l’azione civile nel giudizio penale e tale giudizio si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell’imputato e di condanna generica del medesimo (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo giudizio, insuscettibile di valutazione unitaria, stante la identità della pretesa sostanziale azionata nell’uno e nell’altro giudizio.
Ovviamente, è appena il caso di precisare che nella valutazione complessiva delle vicenda processuale il Giudice dell’equa riparazione dovrà tenere conto della complessità della controversia derivante dalla sua articolazione in giudizi diversi svoltisi l’uno dinnanzi al giudice penale, l’altro dinnanzi al giudice civile, apprezzando altresì se la conclusione del processo penale con sentenza di condanna generica al risarcimento del danno consegua ad una esplicita domanda in tal senso della persona offesa costituita parte civile ovvero se sul punto della quantificazione del danno siano state articolate richieste istruttorie non accolte dal giudice penale.
L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento del secondo motivo, con il quale la ricorrente si duole della liquidazione del danno non patrimoniale, ritenuto non corrispondente ai parametri indicati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, giacchè il giudice del rinvio dovrà procedere ad un riesame della durata del processo valutato unitariamente, all’esito della quale dovrà poi procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale. In proposito, peraltro, appare opportuno ricordare che questa Corte, da un lato, e quanto al periodo rilevante, ha di recente precisato che "Posto che la finalità della L. 24 marzo 2001, n. 89 è quella di apprestare, in favore della vittima della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, un rimedio giurisdizionale interno analogo alla prevista tutela internazionale, deve ritenersi che, anche nel quadro dell’istanza nazionale, al calcolo della ragionevolezza dei tempi processuali sfugga il periodo di svolgimento del processo presupposto anteriore all’1 agosto 1973 – data a partire dalla quale è riconosciuta la facoltà del ricorso individuale alla Commissione (oggi, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), con la possibilità di far valere la responsabilità dello Stato -, dovendosi, peraltro, tenere conto della situazione in cui la causa si trovava a quel momento" (Cass., n. 14286 del 2006).
Dall’altro, che "in tema di equa riparazione conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, la valutazione equitativa dell’indennizzo a titolo di danno non patrimoniale è soggetta, per specifico rinvio contenuto nella L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, e art. 6 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848), al rispetto delle Convenzione medesima, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo (la cui inosservanza configura violazione di legge), e, dunque, per quanto possibile, deve conformarsi alle liquidazioni effettuate in casi similari dalla predetta Corte europea, la quale (con decisioni recentemente adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004) ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione di tale indennizzo. La precettività, per il giudice nazionale, di tale indirizzo" – si è ulteriormente precisato – "non concerne tuttavia anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo: mentre, infatti, per la CEDU l’importo come sopra quantificato va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lettera a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionale assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione Europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione medesima (art. 111 Cost., comma 2, nel testo fissato dalla Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2)" (Cass., 23 aprile 2005, n. 8568; Cass., 5 agosto 2005, n. 16514).
In conclusione, accolto il primo motivo di ricorso e assorbito il secondo, il decreto impugnato deve essere cassato, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, la quale procederà a nuovo esame della domanda alla luce dei principi sopra indicati. Al giudice del rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, Cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma, stessa sezione in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 settembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2007