La Corte di appello di Napoli ha rigettato l’istanza di M. A. volta ad ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione in relazione alla custodia cautelare in carcere da lei subita dal (OMISSIS) al (OMISSIS) per concorso nei reati di peculato, falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici, abuso di ufficio. Rilevava la predetta Corte che mentre la assoluzione dai primi due reati era avvenuta con formule di merito che giustificavano la chiesta riparazione, l’assoluzione dal terzo reato, relativo ad una contestazione ex art. 323 c.p., era avvenuta solo a seguito della parziale abrogazione della norma incriminatrice, dovuta alla modifica dell’art. 323 c.p., senza un esame del merito della vicenda e dunque con formula che escludeva il diritto dell’istante ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 5.
Così si esprimeva al riguardo nel motivare il rigetto: "… il Tribunale di Napoli non vagliò nel merito l’altra imputazione in argomento, stando alla quale la M. avrebbe all’epoca abusato del suo ruolo di coordinatrice amministrativa, avocando a se, nella qualità, la gestione dell’assegnazione del personale a mansioni di servizio esterno e le connesse funzioni di liquidazione dei relativi compensi, che, in virtù della citata delibera, competevano ai capo dell’ufficio di segreteria, onde favorire, con i falsi di cui si è detto, i correi dipendenti della U.S.L. (OMISSIS), rilevando che, non vertendosi in ipotesi di violazione di legge o di regolamento o di un obbligo di astensione, il fatto, sussistente o meno, non costituiva più … reato" ai sensi dell’art. 323 c.p., come sostituito dalla L. 16 giugno 1997, n. 234, art. 1, … pertanto la custodia cautelare che si assume ingiustamente subita fu ordinata anche per fatto dal quale l’istante fu assolta solo per intervenuta, parziale abrogazione della norma incriminatrice che lo prevedeva come illecito penale, dovuta all’essere attualmente elementi costitutivi del delitto di abuso d’ufficio, ex art. 323 c.p., nuovo testo anche circostanze che prima della riforma erano invece ininfluenti ai fini della configurabilità di quel reato e non ravvisate nella condotta contestata come tale alla M.".
Avverso tale ordinanza ricorre per Cassazione la M., per il tramite del difensore di fiducia.
Eccepisce la erronea applicazione della legge penale (art. 314 c.p.p., comma 5) sotto plurimi profili; in primo luogo in quanto la assoluzione è stata pronunciata "perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato" e dunque per una formula assolutoria che rientra tra quelle che a norma dell’art. 314 c.p.p., comma 1 attribuiscono il diritto alla riparazione; poi perchè nella fattispecie non ricorre l’ipotesi della abrogazione normativa cui l’ultimo comma dell’art. 314 c.p.p. ricollega l’esclusione della riparazione; infatti, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, l’esclusione in questione non può essere estesa al caso di successione di leggi penali tra cui rientra appunto la modifica normativa intervenuta in tema di abuso di ufficio con la L. 16 luglio 1997, n. 234; in terzo luogo, anche a voler ricercare la volontà effettiva della decisione di assoluzione, la erroneità del provvedimento impugnato risulta evidente; infatti l’assunto della Corte di appello – secondo cui l’assoluzione fu pronunciata solo perchè il fatto non era più previsto dalla legge come reato -non solo è del tutto apodittico, mentre la motivazione al riguardo avrebbe dovuto essere precisa e rigorosa essendo stata questa l’unica ratio decidendi, ma anche e soprattutto perchè si tratta di una affermazione che non coincide con la formula assolutoria e con il complessivo accertamento contenuto nella sentenza stessa; infatti da un accurato esame della sentenza assolutoria del Tribunale di Napoli, esame che la Corte di appello ha trascurato, si evince che l’assoluzione dal reato di abuso di ufficio è conseguenza della ritenuta insussistenza delle falsificazioni ai quali era stata collegata l’accusa stessa: esclusi i falsi, l’abuso diventa impossibile e dunque se il Tribunale avesse effettuato l’accertamento di merito al riguardo, sarebbe pervenuto alla piena assoluzione; da ultimo evidenzia la lunga vicenda processuale della quale l’istante è stata vittima.
Il Ministero dell’economìa e delle finanze resiste al ricorso invocando il disposto dell’art. 314 c.p.p., commi 3 e 4.
Il Pubblico ministero presso questa Corte ha chiesto l’accoglimento del ricorso richiamandosi ad un precedente di questa sezione (Cass. 2003 n. 5297).
Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
Giova premettere, con riferimento al punto centrale del ricorso, che il tema della successione di leggi penali presenta notevole complessità atteso che le due situazioni previste dall’art. 2 c.p. – quella (comma 2) della abrogazione di una norma incriminatrice con conseguente venir meno della punibilità e revoca della eventuale sentenza di condanna (ex art. 673 c.p.p.) e quella (comma 3) della successione nel tempo di leggi diverse con applicazione della legge più favorevole – se pur concettualmente ben distinte e separate, danno vita, nella realtà della concreta disciplina normativa, a situazioni più sfumate e complesse, atteso che spesso la normazione avviene per successiva diversa disciplina di una materia già in precedenza regolata, con una sovrapposizione di regolamentazione che rende difficile sciogliere il nodo tra continuità e abrogazione.
Sono pertanto numerose le decisioni di questa Corte, anche a sezioni unite, al riguardo, di cui, per quanto qui rileva, può essere utile ricordare quella del 16.6.2003, ud. 26.3.2003, n. 25887 ric. Giordano, nella parte in cui bene evidenzia come – in caso di modifica normativa possano coesistere i due fenomeni della abrogazione (parziale) e della modifica. Così si esprìme al riguardo la predetta sentenza "Perchè dunque non vi sia una totale abolizione del reato previsto dalla disposizione formalmente sostituita (oppure abrogata con la contestuale introduzione di una nuova disposizione collegata alla prima) occorre che la fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente, rientrasse cioè nell’ambito della previsione di questa, il che accade normalmente quando tra le due norme esiste un rapporto di specialità, tanto nel caso in cui sia speciale la norma successiva quanto in quello in cui speciale sia la prima. Però se è la norma successiva ad essere speciale ci si trova in presenza di un’abolizione parziale, perchè l’area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti che pur rientrando nella norma generale venuta meno sono privi degli elementi specializzanti. Si tratta di fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati alla regola dell’art. 2 c.p., comma 2 anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può ravvisarsi una parziale continuità. Perciò per questi fatti non opera il limite stabilito dall’ultima parte del terzo comma dell’art. 2 c.p. e quando è stata pronunciata una condanna irrevocabile il giudice dell’esecuzione deve provvedere a revocarla a norma dell’art. 673 c.p.p.".
Venendo alla specifica situazione che qui interessa, come è noto il reato di cui all’art. 323 c.p. è stato modificato dalla L. 16 luglio 1997, n. 234, che ha completamente ridisegnato il reato di abuso di ufficio dando vita, appunto, ad un fenomeno complesso che non può inquadrarsi semplicemente e solamente nel fenomeno della successioni di leggi penali come sostiene il ricorrente. Ed invero questa Corte ha già avuto modo di chiarire (in particolare, sez. 4^ sentenza del 25.1.2005 n. 19275, Marchionna) (che la predetta legge ha ridefinito la norma incriminatrice) eliminando la rilevanza penale di talune delle condotte precedentemente previste come reato. La modifica del delitto di abuso di ufficio ha comportato non solo una riformulazione della norma – con l’aggiunta o la modifica di elementi in precedenza diversamente regolati (per es. il dolo è divenuto esplicitamente intenzionale) – ma altresì la parziale abrogazione della norma nella parte in cui prevedeva fatti penalmente rilevanti che oggi non sono più tali. In particolare è stato ristretto l’ambito di applicazione dei comportamenti sanzionati, per es. con l’eliminazione dell’abuso di ufficio a fini di vantaggio non patrimoniale, oggi non più previsto dalla norma, oppure, come osservato dal giudice di merito in relazione alla presente situazione, con l’introduzione del requisito della violazione di legge o di regolamento, e ciò ha comportato l’abrogazione parziale della norma limitatamente ad alcune delle fattispecie in precedenza in essa incluse. In questi casi (abrogazione della rilevanza penale di condotte in precedenza sanzionate) è da ritenere applicabile l’art. 314, comma 5 non essendovi ragione di escluderne l’applicazione nel caso di abrogazione parziale e con riferimento a condotte già sanzionate che, solo con la modifica legislativa, sono divenute penalmente irrilevanti (nello stesso senso v. Cass., sez. 4^, 20 settembre 2001 n. 40270, Calandra; 23 aprile 2001 n. 22927, Patti). Compito del giudice della riparazione è quindi quello di verificare se le condotte addebitate all’istante, ritenute sanzionabili in base alla precedente normativa, siano state ritenute esistenti dal giudice di merito – e quindi l’assoluzione sia stata pronunziata solo per l’intervenuta modifica legislativa (perchè le condotte accertate non rientravano più nella nuova formulazione) – oppure se il giudice di merito abbia escluso, o ritenuti non provati, comportamenti sanzionati penalmente in base alla precedente e alla più recente normativa (cfr., per l’affermazione di questi principi, Cass., sez. 4^, 11 dicembre 2002 n. 5927, Liberati, rv. 224179). In questo secondo caso – ma solo in questo secondo caso, e dunque risulta impropriamente invocato il precedente in questione dal Procuratore Generale – la riparazione non potrà essere esclusa essendo, l’assoluzione, riconducibile non alla parziale abrogazione dell’ipotesi criminosa ma all’esclusione della responsabilità per i fatti posti a fondamento della misura cautelare, perchè le condotte accertate non rientravano neppure nell’ipotesi criminosa in precedenza vigente.
Ciò non significa tuttavia che la Corte di appello adita per la riparazione possa rivalutare la decisione di proscioglimento intervenuta, come sembra sostenere il ricorrente con il terzo motivo di ricorso, al fine di accogliere o respingere la domanda di equa riparazione. Il controllo che deve essere effettuato dal giudice della riparazione è esterno al giudicato intervenuto in sede di merito, è limitato ad una "verifica" circa la decisione dal medesimo presa, volta ad accertare la specifica causa di proscioglimento cui si è pervenuti nel caso concreto, verifica che non può essere omessa dal giudice della riparazione ma che allo stesso tempo costituisce il limite dei poteri che allo stesso competono; rimane infatti immodificabile da parte di quest’ultimo giudice la decisione assunta, non potendo egli sostituire ad un accertamento compiuto dal giudice del merito un proprio, diverso accertamento. Ed invero è lo stesso testo normativo che impone tale soluzione dal momento che l’art. 314, comma 4, non diversamente peraltro dal precedente comma 1 ma in maniera ancora più chiara, esclude il diritto alla riparazione quando "con la sentenza o con il provvedimento di archiviazione è stato affermate che il fatto non è previsto dalla legge come reato per abrogazione della norma incriminatrice", con un rinvio che può definirsi "recettizio" alla decisione di merito.
Decisione che piuttosto – allorchè appaia non soddisfacente in relazione alla formula di proscioglimento adottata – potrà e dovrà essere impugnata dall’interessato secondo le regole generali, sussistendo un evidente interesse alla rimozione di un eventuale limite al riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione.
E’ peraltro pacifica la giurisprudenza di questa Corte che riconosce l’interesse a coltivare il gravame avverso l’ordinanza di applicazione della misura cautelare anche quando essa sia stata revocata nel corso del procedimento "de libertate", con riferimento alla necessità del sottoposto alla misura di precostituirsi una decisione irrevocabile circa la legittimità del provvedimento ai fini della eventuale domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione (da ultimo, sez. 4^ 24.11.2005 n. 4477, Riccardi ed altri rv.
233401); ipotesi quella della detenzione "illegale" che completa la disciplina dell’equa riparazione e che, pur nella diversità di presupposti, presenta un evidente parallelo con quella in esame.
Non può dunque essere condiviso il precedente di questa Corte (sez. 6^ 13.11.2003 n. 6486 Arcoleo ed altri rv. 228370) che ha escluso l’interesse ad impugnare sulla base del potere del giudice della riparazione di un autonomo potere di valutazione, così massimato "L’imputato assolto con la formula perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato" non ha interesse ad impugnare allo scopo di ottenere assoluzione con la formula "perchè il fatto non sussiste", non potendo trarre dalla sua applicazione alcun vantaggio.
Nè un eventuale interesse può essere rappresentato dal diritto dell’imputato a rimuovere il limite posto dall’art. 314 cod. proc. pen., comma 5 per l’esercizio dell’azione di riparazione per ingiusta detenzione, allorchè la sentenza di non luogo a procedere sia stata pronunciata con tale formula, in quanto il giudice nell’ambito di tale procedimento ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo penale allo scopo di controllare la ricorrenza o meno dei limiti alla liquidazione della riparazione, sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione (in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione di inammissibilità per carenza di interesse dell’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza di proscioglimento dal delitto di abuso di ufficio con la formula "perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato" a seguito dell’intervenuta modifica della fattispecie incriminatrice).
In proposito, a quanto sopra osservato può aggiungersi che il potere del giudice di escludere la riparazione per la sussistenza di un comportamento ostativo dell’interessato (che abbia dato causa con dolo o colpa grave alla detenzione stessa) è espressamente previsto dall’art. 314 c.p.p., nei limiti dallo stesso tassativamente indicati, ai fini chiariti fin dalla sentenza del 9.2.1996, n. 43 Sarnataro, delle sezioni unite di questa Corte. Tale potere non può, proprio per la espressa previsione e la delimitazione dei suoi confini da parte del legislatore, essere considerato attributivo di un generale potere del giudice della riparazione di "rivalutare" la decisione di assoluzione, prospettiva che aprirebbe la strada ad un inedito "bis in idem" anche in quelle ipotesi in cui il proscioglimento sia avvenuto per una causa (ad esempio per prescrizione o amnistia) che non da diritto alla riparazione.
Venendo al caso di specie, dalla motivazione sopra riportata risulta che la Corte di appello di Napoli adita per la riparazione, ha correttamente esercitato il controllo richiesto da questa Corte circa il contenuto della decisione di merito, avendo escluso il diritto alla riparazione dopo aver accertato che il proscioglimento della M. dal reato di abuso di ufficio era avvenuto solo a causa della nuova e più restrittiva formulazione della nuova normativa e quindi per parziale abrogazione della fattispecie incriminatrice.
Nè giova al ricorrente invocare che la formula assolutoria è stata quella "perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato" formula contemplata dal primo comma dell’art. 314 c.p.p. tra quelle che danno diritto alla riparazione – e non "perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato", formula che avrebbe dovuto esprimere il fenomeno della intervenuta abrogazione normativa. Deve infatti rilevarsi che la formula "fatto non più previsto dalla legge come reato" non corrisponde ad una tipologia espressamente prevista ed imposta dal codice di rito, che conosce solo quella di "fatto non previsto come reato", menzionandola sia nell’art. 314 c.p.p., comma 5 dove è specificata dal riferimento alla abrogazione), sia nell’art. 673 dove è prevista la revoca della sentenza di condanna per abolizione del reato conseguente, tra l’altro, alla intervenuta abrogazione. L’adozione della prima formula è dunque da rapportarsi ad una prassi applicativa volta a rendere immediatamente percepibile la situazione di intervenuta modifica legislativa, ma nessuna conseguenza può derivare dall’uso dell’una o dell’altra formula, che risultano equivalenti, dovendosi evidentemente ricavare dalla motivazione la ricorrenza della specifica situazione concreta.
Conclusivamente, il ricorso della M. deve essere rigettato con condanna della medesima al pagamento delle spese del procedimento. Ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese relative al rapporto processuale tra le medesime.

P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dichiara compensate tra le parti le spese sostenute dalla medesime per il presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 1 giugno 2007