Con ricorso depositato in data 17.2.2003 la Giardini Poseidon Terme s.a.s. chiedeva alla Corte d’Appello di Roma ai sensi della L. n. 89 del 2001 il riconoscimento dell’equa riparazione in relazione ai danni patrimoniali e non patrimoniali derivati dalla durata non ragionevole del procedimento civile promosso in data 6.11.1992 da C.U. avanti, alla Pretura di Napoli – sezione distaccata di Ischia – con cui costui aveva impugnato il licenziamento intimatogli dalla società, procedimento al quale era stato riunito altro di analogo contenuto promosso da P.M. e C.R.:
il primo ancora pendente all’atto della proposizione del ricorso, il secondo definito con una transazione in data 18.2.2003.
Il Ministero della Giustizia si costituiva, chiedendo il rigetto del ricorso.
All’èsito del giudizio la Corte d’Appello con decreto del 29.5 – 13.10.2003 rigettava il ricorso, compensando fra le parti le spese processuali.
Rilevava al riguardo la Corte d’Appello che, sebbene il limite della durata ragionevole fosse stato superato, era da escludere il riconoscimento del diritto all’equo indennizzo, non essendo risultato, sia per quanto riguarda il danno patrimoniale – non coincidente con quello che la parte ha diritto di vedersi, risarcito nel giudizio presupposto – che per quanto concerne il danno non patrimoniale – anch’esso da provare in concreto – che fosse stata fornita alcuna prova al riguardo e dovendosi ritenere anzi, relativamente al danno non patrimoniale nonchè a quello morale e biologico dell’amministratore della società, che ben può presumersi la sua inesistenza, anche sotto il profilo della lesione all’immagine, in considerazione della consistenza economica non particolarmente significativa della causa e delle notorie dimensioni economiche della ricorrente. Osservava poi, in relazione al danno patrimoniale che, essendo state definite con transazione fra le parti le due cause promosse dal P. e dal C., l’indennizzo non poteva derivare dal comportamento della stessa parte che tale transazione aveva inteso concordare.
Avverso tale decreto propone ricorso per Cassazione la Giardini Poseidon Terme s.a.s. che deduce due motivi di censura.
Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la Giardini Poseidon Terme s.a.s.
denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 2 e degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Lamenta che la Corte d’Appello abbia escluso il danno patrimoniale sul rilievo che nessun pregiudizio la società avesse subito, attesa la consistenza non particolarmente significativa della materia del contendere in relazione alle sue dimensioni economiche, senza considerare che solo la causa promossa dal C. non aveva avuto un esito oneroso per la società in quanto quest’ultimo, dopo il licenziamento per motivi disciplinari (in ordine al quale l’impugnazione era stata accolta), era stato raggiunto, quale lavoratore stagionale, da altro licenziamento (questo confermato) dovuto alla chiusura della spiaggia in cui lavorava, mentre analogo esito non avrebbe potuto avere la causa degli altri due in quanto assunti a tempo indeterminato, causa che era stata transatta in quanto, in conseguenza della durata non ragionevole del procedimento, era divenuto impossibile escutere i testi nel frattempo deceduti la cui deposizione era di importanza fondamentale ai fini del rigetto dell’impugnazione del licenziamento.
Quantificava quindi in Euro 139.200,00 il danno patrimoniale, pari all’importo lordo che aveva corrisposto al P. ed al C. a seguito della transazione, invece di somme di gran lunga maggiori che avrebbe dovuto versare in esecuzione della probabile sentenza di condanna che sarebbe stata pronunciata in conseguenza del fatto che i testi erano venuti a mancare. Lamenta inoltre che la Corte d’Appello non abbia riconosciuto il danno morale, il danno biologico e quello non patrimoniale senza, considerare che, trattandosi di società di persone, il socio accomandatario ( A.S.) era responsabile illimitatamente anche con i suoi beni e che trovavano quindi giustificazione i patemi d’animo e le ansie personali che normalmente si verificano nella pendenza del procedimento e senza tener conto che questi era deceduto in data 5.12.1998 a seguito di malattia di cui dette ansie erano state la causa o la concausa, determinando così anche un danno biologico.
Il presente motivo di ricorso, articolato in due distinte censure riguardanti, rispettivamente il danno patrimoniale e quello non patrimoniale che ai assumono derivati dalla durata non ragionevole del procedimento presupposto, è fondato nei limiti che saranno qui di seguito espressi.
Per quanto riguarda il danno patrimoniale che la Corte d’Appello ha escluso in mancanza della relativa prova, non v’è dubbio in linea di principio che esso debba essere in concreto provato e che il relativo onere incombe alla parte che ne sostiene l’esistenza.
Nè tale danno può individuarsi, come si assume in ricorso, nell’importo corrisposto alle controparti in conseguenza della transazione intervenuta nel giudizio di cui viene lamentata la durata non ragionevole, potendo essere riconosciuto solo quello riconducibile sul piano causale in modo immediato e diretto a detta durata. E tale non è certamente il danno subito in conseguenza dell’esito del giudizio, specie allorchè, come nel caso in esame, esso sia stato definito transattivamente, vale a dire con la partecipazione volontaria della stessa parte.
Del pari non rileva che tale transazione sarebbe dipesa, come si.
sostiene, dall’intervenuto decesso di due testimoni, la cui mancata deposizione, ritenuta d’importanza fondamentale ai fini dell’esito favorevole, non sarebbe avvenuta sol perchè il procedimento aveva avuto una durata abnorme. Trattasi infatti di argomentazione del tutto ipotetica ed astratta e, come tale, non controllabile nella sua fondatezza.
Quanto invece al danno non patrimoniale, anch’esso escluso dalla Corte d’Appello per mancanza di prove, va in primo luogo richiamato il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (1338 e 1341 del 2004) le quali hanno rilevato che il giudice nazionale deve interpretare la L. n. 89 del 2001 in modo conforme all’interpretazione data all’ art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, vale a dire per come essa vive nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, come del resto ha affermato detta Corte (ricorso Scordino-italia), osservando che, al fine di realizzare il principio di sussidiarità del suo intervento, "le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione". In applicazione di tale principio le Sezioni Unite hanno poi rilevato che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si desume come, una volta provata la violazione dell’ art. 6 della C.E.D.U. sulla durata non ragionevole del procedimento, il danno non patrimoniale debba essere normalmente liquidato alla vittima della violazione senza necessità di alcuna prova, sia pure solo in via presuntiva, in quanto ritenuto una conseguenza naturale, anche se non automatica, della violazione medesima, danno che può essere escluso solo in situazioni particolari allorchè il protrarsi del giudizi, o risponda ad un interesse della parte ovvero qualora della infondatezza della pretesa o delle controdeduzioni sia consapevole la stessa parte.
Ora, un tale principio, affermato per le persone fisiche, non viene meno ma trova applicazione, conformemente anche qui alla giurisprudenza della Corte Europea, pure nei confronti, di persone giuridiche o di soggetti collettivi in genere in quanto, non diversamente da quanto avviene per le persone fisiche, il danno non patrimoniale va considerato pure in tali come una conseguenza normale, anche se non automatica, della violazione del diritto alla durata ragionevole del procedimento in considerazione dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto provoca solitamente alle persone preposte alla gestione dell’ente ed ai suoi membri (in tal senso Cass. 13504/04; Cass. 13163/04 e molte altre).
Certamente errata è infine l’ulteriore affermazione della Corte d’Appello, secondo cui ben può presumersi l’inesistenza del danno non patrimoniale a causa della consistenza non particolarmente significativa dell’oggetto del giudizio presupposto in relazione alle dimensioni della società ricorrente.
Al di là infatti dell’estrema genericità di un tale assunto, deve in ogni caso ritenersi che tale circostanza potrebbe tutt’al più, qualora risulti in concreto, incidere solo sull’entità dell’indennizzo ma non sul suo riconoscimento.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione ed omessa applicazione dell’art. 415 e 420 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Deduce che poichè la Corte d’Appello, pur riconoscendo la violazione della durata ragionevole del procedimento, non l’ha in concreto determinata, ad una tale incombenza debba provvedere questa Corte, tenendo presente la durata legale del procedimento del lavoro, quale si desume dalla relativa normativa di cui agli artt. 415 e 420 c.p.c..
L’accoglimento, sia pure parziale, del primo motivo, relativo al danno da indennizzare, comporta la necessità di determinare in concreto la durata non ragionevole del procedimento che la Corte d’Appello non ha indicato, pur riconoscendone la sussistenza, senza che al riguardo possa provvedere questa Corte, trattandosi di un accertamento di merito per il quale non v’è spazio in questa sede di legittimità.
L’impugnato decreto va pertanto cassato in relazione alle censure accolte, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, la quale si uniformerà ai principi sopra esposti.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso per quanto di ragione. Cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2007