Con ricorso del 17.6.2004 proposto avanti alla Corte d’Appello di Messina L.I.M.P. chiedeva ai sensi della L. n. 89 del 1901 il riconoscimento del diritto all’equa riparazione per la non ragionevole durata della procedura fallimentare, aperta con sentenza del Tribunale di Siracusa del 3.1.1984 che aveva dichiarato il fallimento di. essa ricorrente quale socia illimitatamente responsabile della società di fatto costituita con il proprio coniuge, ed ancora pendente.
Si costituiva il Ministero della Giustizia, contestando la fondatezza della domanda.
All’esito del giudizio la Corte d’Appello con Decreto del 17-31 marzo 2005 condannava il Ministero al pagamento a favore della L.I. della complessiva somma di Euro 8.000,00 con gli interessi dalla data del decreto, compensando per metà a favore della ricorrente le spese processuali.
Dopo aver determinato in anni diciotto la durata non ragionevole della procedura in quanto era risultata particolarmente agevole sia per l’accertamento del passivo (in mancanza di azioni revocatorie, di ricorsi alla Commissione Tributaria e di opposizioni allo stato passivo) e sia per la liquidazione dell’attivo (consistita nella vendita di pochi mobili che avevano comportato un ricavo di Euro 500,00), liquidava la indicata somma a titolo equitativo, precisando che veniva determinata in misura sensibilmente inferiore a quanto riconosciuto dalla Corte Europea in casi di analoga durata sul rilievo che la ricorrente non aveva mai preso contatti con gli organi fallimentari, nè aveva chiesto al curatore una relazione o notizie sui tempi della procedura.
Avverso tale decreto propongono ricorso per cassazione L., A., S., C. ed A.M.C., quali eredi legittimi di L.I.M.P., che deducono tre motivi di censura.
Il Ministero della Giustizia non ha svolto alcuna attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e mancata applicazione dell’ art. 6 p. 1, artt. 13 e 41 della C.E.D.U. nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 2. Dopo aver richiamato i principi in materia in base ai quali il giudice nazionale, nell’applicare la L. n. 89 del 2001, deve uniformarsi per quanto possibile alle decisioni della Corte di Strasburgo e dopo aver sottolineato che la durata non ragionevole era stata determinata in ben diciotto anni, i ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello, nel liquidare l’indennizzo dovuto, non si sia adeguata ai parametri della Corte Europea, liquidando un importo notevolmente inferiore a quello abitualmente riconosciuto da detta Corte.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e del p. 1 della C.E.D.U. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte d’Appello, non abbia tenuto conto adeguatamente dell’estrema semplicità della procedura ed abbia invece sottolineato inopinatamente una pretesa mancanza di interesse alla rapida definizione delle stessa che la L.I. avrebbe mostrato, senza considerare che di nessun potere costei disponeva per accelerarne la definizione e che ogni obbligo al riguardo non può che attribuirsi agli organi fallimentari.
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione e mancata applicazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c.. Sostengono che la Corte d’Appello si è discostata in misura sensibile dai parametri europei relativi ad importi non inferiori ad Euro 1.100,00 per ogni anno di durata non ragionevole, senza peraltro l’esposizione di una congrua motivazione.
Le esposte censure, da esaminarsi congiuntamente in quanto riguardanti, tutte, la determinazione dell’indennizzo compiuta dalla Corte d’Appello, sono fondate.
La Corte d’Appello infatti ha liquidato a titolo di danno non patrimoniale, in relazione ad a una durata non ragionevole quantificata in anni diciotto, la somma complessiva di Euro 8.000,00 pari a circa Euro 450,00 per ciascun anno, discostandosi così notevolmente dai parametri mediamente adottati dalla Corte Europea che riconosce a tale titolo, di massima, un importo per ciascun anno di 1.000,00 – 1.500,00.
In presenza di una differenza tutt’altro che modesta è necessario richiamare quindi i principi elaborati in materia da questa Corte sui rapporti fra diritto comunitario e diritto interno (Sez. Un. 1338 e 1341 del 2004 e molte altre successive), secondo cui il giudice italiano deve interpretare la L. n. 89 del 2001 in modo conforme a quella data dalla Corte Europea di Strasburgo all’ art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, vale a dire per come essa vive nella giurisprudenza di detta Corte, come del resto ha essa stessa rilevato (ricorso Scordino-Italia), osservando che, al fine di realizzare il principio di sussidiarità del suo intervento, "le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione".
L’applicazione di un tale principio non può non riguardare, oltre al problema relativo alla individuazione della durata non ragionevole del procedimento, che nel caso in esame non viene posta in discussione, anche i criteri che presiedono alla liquidazione equitativa del danno, da considerarsi alla stregua di criteri legali alla cui osservanza deve ritenersi tenuto quindi il giudice nazionale che può discostarsene solo in considerazione della peculiarità della fattispecie (modesto valore della causa, natura della controversia ecc. …) di cui deve darsi atto con la precisazione delle relative ragioni.
La Corte d’Appello, nel discostarsi consapevolmente dai parametri europei, ha adottato una motivazione non pertinente ed illogica, non della procedura fallimentare per accelerarne la definizione – rilevata dalla Corte d’Appello a sostegno della minore liquidazione – un indice rivelatore di una sofferenza e di un patema d’animo meno avvertiti, specie se si consideri che nessuna iniziativa al riguardo è prevista dalla legge.
Del tutto ingiustificata ed in definitiva in violazione dei parametri che era tenuta ad applicare deve ritenersi pertanto la determinazione operata dalla Corte di merito la quale, a fronte dell’abnorme protrarsi della procedura, addebitabile al comportamento emissivo dei suoi organi in considerazione della sua accertata semplicità, ha coinvolto nell’ambito della sua valutazione anche la condotta della fallita, traendone il convincimento di una minore sofferenza sulla base di argomentazioni che non tengono conto della posizione di mera attesa cui il fallito è assoggettato nei corso della procedura.
In accoglimento del ricorso l’impugnato decreto deve essere pertanto rigettato.
Essendo necessario, per le ragioni sopra esposte, adeguare l’indennizzo ai parametri della Corte Europea e ritenendosi pertanto che ricorrono le condizioni per una decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, si determina l’indennizzo un Euro 1.000,00 per ogni anno di durata non ragionevole e così complessivamente in Euro 18.000,00.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo in relazione ad entrambi i gradi di giudizio, tenendo presente che il difensore dei ricorrenti aveva dichiarato nel – giudizio di merito di essere antistatario, come risulta dall’impugnato decreto.

P.Q.M.
La Corte Suprema Di Cassazione, accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, liquida a titolo di danno non patrimoniale la somma di Euro 18.000,00 oltre alle spese che liquida, quanto al giudizio di merito a favore del procuratore antistario, in Euro 1.220,00 di cui Euro 20,00 per spese, oltre alle generali IVA e GAP e, quanto a giudizio di legittimità, in Euro 1.200,00 oltre ad Euro 100,00 per spese ed alle spese generali ed agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2007