La sig.ra C.R., con due distinti ricorsi, si è rivolta alla Corte d’appello di Napoli chiedendo di essere indennizzata, ai sensi della L. n. 89 del 2001, per l’eccessiva durata di un giudizio da lei promosso dinanzi al Tribunale regionale amministrativo della Campania al fine di vedersi riconoscere il contributo previsto in favore di chi assiste familiari invalidi non autosufficienti.
La corte d’appello ha rigettato entrambi i ricorsi. Ha infatti ritenuto che, nel valutare se la durata del giudizio in esame avesse superato il limite della ragionevolezza, non si dovesse tener conto della fase durante la quale detto giudizio era rimasto pendente senza che la ricorrente ne sollecitasse la trattazione depositando la cosiddetta istanza di prelievo. Ne ha dedotto che, essendo la decisione intervenuta in meno di due anni e sei mesi dalla presentazione della suddetta Stanza di prelievo, la parte non aveva ragione di lamentare l’eccessiva durata del giudizio.
Avverso tali decreti ricorre per cassazione la sig.ra C., con due distinti ricorsi, prospettando nell’un caso cinque e nell’altro caso quattro motivi di doglianza.
Resiste con altrettanti controricorsi la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
I due ricorsi, in accoglimento della richiesta in tal senso formulata dal Procuratore generale, sono stati riuniti con ordinanza emessa in udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Come sopra riferito, i due ricorsi proposti dalla sig.ra C. sono stati riuniti. Unico è infatti il giudizio amministrativo della cui durata eccessiva la ricorrente si è doluta (pur avendo ella in quel giudizio fatto valere diritti da lei vantati per l’assistenza prestata a due familiari diversi), e pertanto unico è il suo diritto alla ragionevole durata di detto giudizio ed unico è, di conseguenza, anche l’oggetto della causa per equa riparazione da lei intrapresa per reagire alla violazione di tale suo diritto.
2. I due ricorsi riuniti possono essere senz’altro esaminati congiuntamente, perchè, pur presentando qualche differenza di carattere essenzialmente formale e pur non constando esattamente del medesimo numero di motivi, il loro contenuto è sostanzialmente uguale.
2.1. La ricorrente lamenta in primo luogo la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e della L. n. 1034 del 1971, art. 23, oltre che vizi di t motivazione dell’impugnato decreto. Dopo aver rimarcato che la pubblica amministrazione non ha rimosso il proprio silenzio- rifiuto neppure in corso di causa dinanzi al tribunale amministrativo, osserva che l’onere per la parte di proporre in tale giudizio la cosiddetta "istanza di prelievo" non è previsto in alcuna norma, di modo che sarebbe arbitrario valutare la ragionevole durata del giudizio – come la corte d’appello nel caso in esame ha fatto -solo a decorrere dalla presentazione di tale istanza, e non invece da quando la parte abbia depositato la prescritta domanda di fissazione dell’udienza.
2.2. In secondo luogo la ricorrente, lamentando la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’ art. 6, p. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sostiene che, in ogni caso, tenuto anche conto dell’oggetto della controversia di cui si tratta, il termine di durata ragionevole del giudizio non avrebbe potuto esser fissato in oltre sei mesi, sicchè la corte d’appello avrebbe errato nel ritenere ragionevole che il giudizio sia durato per un tempo maggiore.
2.3. Il terzo profilo di censura, ancora riferito all’ art. 6, p. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, è volto a sostenere che l’equo indennizzo in detta norma previsto deve coprire l’intera durata del giudizio, e non solo la parte di esso eccedente i limiti di ragionevolezza, onde al ricorrente spetterebbe, nella specie, tenuto contro dei parametri in proposito adoperati dalla Corte europea, un indennizzo pari ad Euro 1.500,00 per ogni anno di durata della causa ed altri Euro 2.000,00 forfettariamente determinati in considerazione della natura previdenziale della controversia che di quella causa ha formato oggetto.
2.4. Una quarta doglianza nuovamente si riferisce alla violazione della L. n. 1034 del 1971, e si sostanzia nel rilievo secondo cui erroneamente la corte territoriale ha escluso dal calcolo della durata del giudizio il tempo necessario affinchè, a seguito della notifica di un atto di messa in mora, si formi il silenzio-rigetto della pubblica amministrazione, che è presupposto perchè l’interessato possa poi invocare la tutela giurisdizionale.
2.5. L’ultimo motivo di ricorso, richiamandosi alle norme già citate, sottolinea come la giurisprudenza della menzionata Corte europea sia da considerare vincolante per i giudici nazionali.
3. La prima doglianza è fondata, dovendosi dare continuità al più recente orientamento di questa corte, secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’ art. 6, p. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo o alla ritardata presentazione di essa. La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio (Sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28507).
4. Non altrettanto fondato appare, invece, il motivo di ricorso concernente il mancato rilievo accordato dal giudice a quo al tempo occorso per la formazione del silenzio-rigetto della pubblica amministrazione.
E’ ben vero che questa corte ha riconosciuto la necessità, ai fini del computo della durata ragionevole del processo, postulata dal citato art. 6, p. 1, della Convenzione europea, di tener conto anche del comportamento di ogni autorità chiamata a concorrere al procedimento o, comunque, a contribuire alla sua definizione; e che nel novero di tali autorità ha ricompresso anche quella eventualmente chiamata a trattare una fase amministrativa necessaria, che preceda il giudizio ed il cui esaurimento sia condizione perchè il giudizio stesso possa poi aver luogo. Ma, enunciando tale principio, si è altresì precisato che esso è destinato a trovare applicazione quando per detta fase amministrativa preliminare non sia previsto alcun termine di espletamento, con il conseguente rischio del suo protrarsi indefinitamente e con la conseguente indebita compressione del diritto della parte ad ottenere risposta ad un’istanza di giustizia in tempo ragionevole; non quando, viceversa, la fase amministrativa che precede il vero e proprio giudizio sia, a propria volta, regolata da uno specifico termine di durata, oggetto esso stesso di valutazione di adeguatezza da parte del legislatore e peraltro ragionevole (vedi Cass. 2/11/2004, n. 21045).
Ipotesi, quest’ultima, nella quale va invece ribadito che la preventiva proposizione della domanda in sede amministrativa, ove richiesta, non appartiene al processo, nè contribuisce alla sua definizione (vedi Cass. 17/03/2004, n. 5386): di talchè essa non rileva ai fini della ragionevole durata del giudizio, dovendosi aver riguardo al tempo del processo celebratosi dinanzi al giudice e non a quello che la pubblica amministrazione abbia in precedenza impiegato per svolgere i propri compiti attraverso gli atti o i comportamenti della cui legittimità nel giudizio si discute.
Tale è, appunto, la situazione che si pone nel caso in esame. E’ infatti predeterminato dalla legge il termine al cui decorso il silenzio serbato dalla pubblica amministrazione, a fronte di un’istanza del privato, è equiparato ad un provvedimento di rigetto dell’istanza, avverso il quale all’interessato è dato ricorrere al giudice. La ragionevole durata del conseguente giudizio deve esser vagliata quindi unicamente con riferimento al tempo occorso per la definizione del giudizio medesimo, indipendentemente da quello allo spirare del quale si è giuridicamente formato il provvedimento di rigetto impugnato dinanzi al giudice.
5. L’esame dei profili di censura sopra indicati consente dunque di identificare correttamente gli estremi temporali rilevanti, ai fini della valutazione di ragionevolezza della durata dal giudizio di cui si discute, ed impone, però, di cassare l’impugnato decreto della corte d’appello nella parte in cui esso non appare conforme al principio indicato sub 3.
Resta in ciò assorbito l’esame degli altri motivi di ricorso, che investono questioni in rapporto di necessaria dipendenza logica con il punto di decisione già travolto dalla statuizione che precede.
6. La Corte d’appello di Napoli in diversa composizione, in veste di giudice di rinvio, si atterrà al principio sopra enunciato e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La corte accoglie i ricorsi nei termini di cui in motivazione, cassa l’impugnato decreto in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per quel che riguarda la decisione sulle spese processuali, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2006