Q.V. si è rivolto inizialmente alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e poi alla Corte d’appello di Caltanissetta, lamentando l’eccessiva durata della causa di opposizione alla sentenza che ne aveva dichiarato il fallimento, da lui promossa il 6 febbraio 1990 dinanzi al Tribunale di Marsala e definita con sentenza di revoca del fallimento emessa dalla Corte di appello di Palermo il 24 settembre 1997. Domandò, pertanto, la condanna del Ministro della giustizia ad un’equa riparazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti, in misura non inferiore a L. 1.013.166.000.
Nella resistenza del Ministero della giustizia, la corte adita ritenne che il giudizio di primo grado, conclusosi con sentenza depositata il 29 agosto 1995, aveva superato per un periodo di complessivi anni due e mesi tre il termine di ragionevole durata;
nessun danno patrimoniale causalmente ricollegabile alla durata eccessiva dell’iter giudiziale poteva essere ravvisato, derivando quelli dedotti dalla dichiarazione di fallimento; le doglianze riguardavano essenzialmente l’esercizio della funzione giudiziaria, convergendo sulla valutazione dei fatti in base ai quali il primo giudice era pervenuto a negargli la qualifica di piccolo imprenditore riconosciutagli invece dal giudice d’appello; viceversa, andava riconosciuto il danno non patrimoniale mediante ricorso a presunzioni e a ragionamenti inferenziali tratti dalla peculiare natura della controversia; tenuto conto dei particolari disagi indotti dallo status di fallito, tale danno andava liquidato in Euro 3.356,97.
Il Q. ha, chiesto, per sette motivi, la cassazione del decreto sopra compendiato.
All’udienza di discussione del 27 settembre 2005, la Corte ha disposto la rinnovazione della notifica del ricorso eseguita irritualmente presso la sede dell’Avvocatura distrettuale dello Stato anzichè di quella generale.
Espletato il suddetto incombente, il Ministro della giustizia ha resistito con controricorso.
All’udienza odierna la corte si è riservata di deliberare.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i primi quattro motivi, suscettibili di trattazione unitaria poichè concernenti la stessa questione, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, e vizi di motivazione per avere la corte determinato il periodo di durata ragionevole del giudizio di primo grado, da un canto, non tenendo conto (a) della semplicità della causa, per la cui decisione non era stata necessaria alcuna attività istruttoria, (b) dei rinvii, privi di giustificazione reale, disposti con assoluta negligenza dai giudici e (c) del comportamento, altrettanto negligente, della cancelleria, la quale aveva omesso di eseguire l’ordine di acquisizione del fascicolo fallimentare e di dare avviso di un rinvio della causa ai difensori delle parti; dall’altro, equiparando il peculiare e delicato giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento a qualunque altro processo.
Con il quinto e il sesto motivo, anch’essi trattabili congiuntamente, il ricorrente denunzia vizi della motivazione e violazione e falsa applicazione della L. n. 80 del 2001, art. 2, in relazione al mancato riconoscimento dei danni patrimoniali da liquidarsi secondo i criteri di cui all’art. 2056 c.c. ossia comprendendo la perdita subita e il mancato guadagno. Si duole, in particolare, che la corte del merito abbia collegato alla (illegittimità della) sentenza dichiarativa di fallimento e addirittura a un (dedotto) illegittimo esercizio della funzione giudiziaria i danni, quali il mancato reddito e la perdita dell’avviamento, al contrario chiaramente ed esclusivamente rivenienti dalla pendenza del processo.
Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta che la corte avrebbe omesso di motivare sulla liquidazione del danno non patrimoniale, comunque operata in maniera illogica e incoerente rispetto alle premesse, in cui si era diffusa sui particolari effetti negativi collegati allo status di fallito.
I primi quattro motivi esprimono censure inammissibili.
Come noto, il termine ragionevole di durata del processo, dal cui superamento si configura il diritto all’equa riparazione per il periodo eccedente, non può tradursi in formule aritmetiche fisse per singoli tipi e fasi di giudizio nè è desumibile da dati aedi ricavati da analisi statistiche, ma va determinato caso per caso, in relazione allo svolgimento della singola procedura, in base ai criteri all’uopo fissati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, che li ha mutuati dall’interpretazione data all’ art. 6 della Convenzione EDU dalla Corte di Strasburgo per la quale occorre valutare la complessità del caso e il comportamento delle parti e del giudice del procedimento. Più in particolare, la L. n. 89 del 2001 (art. 2, comma 2) non specifica il periodo di tempo massimo valicato il quale la durata del processo diventa irragionevole ma lascia all’interprete l’onere di determinarlo di volta in volta, desumendolo dalla complessità del caso e dal comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del processo. Solo gli elementi connotanti ogni singola fattispecie consentono la corretta applicazione di un criterio, quale quello di ragionevolezza, che ha in sè insiti indubbi margini di elasticità, permettendo, per tale via, di scongiurare che il valore della giustizia celere si trasformi nel disvalore della giustizia affrettata e sommaria.
Alla luce delle considerazioni esposte, è agevole comprendere come l’individuazione della ragionevole durata del processo costituisca una tipica valutazione di merito e si risolva in un apprezzamento di fatto che, in quanto tale, è riservato alla corte territoriale ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizi di motivazione (ex multis, vedi Cass. nn. 1094/2005, 123/2004, 13741/2003, 13211/2003, 11715/2003, 1600/2003, 3/2003). Peraltro, la sufficienza della motivazione del decreto occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento (decreto) – benchè esso abbia natura sostanziale di sentenza – e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare (Cass. nn. 6168/2003, 1600/2003, 8/2003, 16256/2002, 15852/2002). Ciò implica che l’onere motivazionale deve ritenersi adempiuto qualora si accerti che il giudice dell’equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando (anche implicitamente) di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dal citato art. 2, comma 2, ed esplicitando le ragioni del suo convincimento; non è invece necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d’esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie.
Nella specie, la corte territoriale ha implicitamente applicato la giurisprudenza della Corte EDU secondo la quale la durata ragionevole del processo, di cui all’ art. 6 della Convenzione, deve essere calcolata, di regola, in anni tre per il primo grado, due per il secondo e uno per ciascuna fase successiva; sulla scia di tale indirizzo, è arrivata alla conclusione che la ragionevole durata del giudizio svoltosi davanti al tribunale di Marsala andava, per l’appunto, determinata in anni tre e, simmetricamente, che il periodo eccedente tale termine di ragionevolezza era di anni due e mesi tre.
Dal tenore del decreto impugnato, si ricava con chiarezza che la corte nissena ha tenuto conto della natura e dell’oggetto della controversia e del tempo occorso per espletare la relativa attività istruttoria. In particolare, il riferimento alla peculiarità del giudizio di opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento ricorre spesso nel decreto impugnato, che ha poi compiutamente analizzato l’iter processuale del giudizio di primo grado, enucleandone i segmenti temporali addebitatogli all’ufficio giudiziario adito poichè consumati per immotivati o troppo estesi rinvii.
La motivazione, coerente con il carattere del provvedimento (decreto) che la corte territoriale è chiamata in simili casi ad emettere e con la natura stessa delle questioni in esame, è succinta ma dal contesto complessivo del provvedimento è, come detto, possibile identificare le ragioni che hanno determinato il convincimento del collegio giudicante e valutare che esse non sono intrinsecamente contraddittorie.
In definitiva, le doglianze che, sotto il profilo in esame, il ricorrente prospetta non permettono di identificare un errore di diritto contenuto nell’impugnato decreto, ma sostanzialmente si risolvono in una censura rivolta contro la valutazione operata dalla corte d’appello in ordine alla ragionevolezza dei tempi di durata dello specifico procedimento di cui si discute; valutazione che il ricorrente mostra di non condividere e vorrebbe fosse ribaltata ma che è tipicamente di merito, come tale rimessa all’esclusivo giudizio della corte territoriale e non suscettibile di revisione in sede di giudizio di legittimità, ove se ne può eventualmente discutere solo per profili attinenti alla adeguatezza della motivazione, nella specie sicuramente sussistente. Più specificamente, le censure relative al comportamento tenuto dal giudice e dai suoi ausiliari si risolvono in un mero dissenso in ordine al risultato dell’iter interpretativo ed argomentativo seguito al riguardo dalla Corte di appello e insindacabile in questa sede in quanto privo di illogicità o contraddittorietà.
Infondate si appalesano anche le doglianze contenute nel quinto e sesto motivo.
Il riscontro alla correttezza del giudizio in proposito formulato dalla corte nissena sta nel tipo di pregiudizio economico allegato dal ricorrente. Questi, infatti, confonde, all’evidenza, i danni conseguenti all’illecito (illegittima declaratoria di fallimento) allegato nel giudizio (di opposizione a detta declaratoria) durato irragionevolmente con quelli che possono derivare dalla predetta durata. Per vero, come fonte del danno, il ricorrente allega, tra l’altro, il mancato guadagno e la perdita dell’avviamento, di certo causalmente ricollegabili non al giudizio presupposto ma al procedimento camerale sfociato con la sentenza dichiarativa di fallimento.
La sintesi della motivazione del decreto dimostra, quindi, che è stata fatta corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte, secondo cui il danno risarcibile nel caso di violazione dell’ art. 6, paragrafo 1, della CEDU è diverso da quello connesso al giudizio irragionevolmente lungo, in quanto non è rappresentato dai bene della vita ivi dedotto, identificandosi, invece, in quello arrecato, come conseguenza immediata e diretta, e sulla base di una normale sequenza causale, dal prolungarsi della causa oltre il termine ragionevole (vedi Cass. un. 23322/2005, 4451/2005, 1094/2005, 6071/2004, 3143/2004, 123/2004, 13741/2003, 11987/2003, 4/2003, 18130/2002, 15449/2002, 13422/2002). Occorre, in altri termini, mantenere ben netta la distinzione tra l’oggetto del giudizio presupposto e quello del giudizio di equa riparazione, il quale non può costituire, neppure indirettamente, un mezzo per replicare il merito della precedente controversia. Non ha errato, quindi, la corte territoriale nell’escludere la prova del danno patrimoniale, in quanto tutti i pregiudizi economici allegati dal ricorrente andavano ricondotti non all’eccessiva durata del processo presupposto bensì al procedimento di fallimento, sicchè, come anche correttamente osserva lo stesso giudice a quo, lungi dal rivestire alcun rilievo nel giudizio che ne occupa, potrebbero, semmai, costituire il collante fattuale di un’azione risarcitoria ex Lege n. 117 del 1988.
Ancor meno, poi, offre argomento a favore della tesi di parte ricorrente, il fatto che, per la L. n. 89 del 2001, art. 2, il giudice debba determinare la riparazione a norma dell’art. 2056 c.c. come ricordato nell’ultimo motivo del ricorso. Proprio perchè questa norma disciplina esclusivamente la liquidazione (e non la prova dell’esistenza) del danno, essa non rileva in questa fase logicamente preliminare dell’accertamento.
Anche l’ultimo motivo è privo di fondamento.
Il danno non patrimoniale è, per sua stessa natura, insuscettibile di essere provato nel suo preciso ammontare, di guisa che la liquidazione può sempre essere effettuata dal giudice con ricorso al metodo equitativo; tanto più quando – come nel caso della L. n. 89 del 2001 – è proprio il legislatore a suggerire il ricorso a un simile criterio già nella stessa definizione normativa di "equa riparazione". Certo, perchè la valutazione discrezionale propria del metodo equitativo non si risolva in un quantificazione arbitraria, è necessario che il giudice di merito fornisca indicazioni sul procedimento logico attraverso il quale è pervenuto a giudicare proporzionata una certa misura del risarcimento; ma, giova ripeterlo, tale motivazione può assumere in un decreto anche caratteri di sommarietà, purchè si riescano a individuare, almeno per grandi linee ed anche dall’insieme delle indicazioni espresse nel provvedimento, i fondamentali elementi di giudizio sui quali la decisione è basata. E, nella specie, ciè è certamente possibile in quanto dalla motivazione del decreto impugnato si evince che, nel quantificare il danno non patrimoniale, il giudice ha tenuto conto degli effetti psicologici dell’attesa di giustizia lungamente protrattasi, della natura del bene della vita cui tale attesa si riferiva, della misura di tempo che induce a considerare irragionevole la durata del giudizio, delle condizioni soggettive del ricorrente e dell’esito (per lui positivo) del giudizio stesso. Non vi è contraddizione, nel ragionamento della corte, tra la sottolineatura data alle gravi conseguenze connesse allo statua di fallito ingiustamente posseduto e la concreta quantizzazione del danno morale. Di vero, proprio alla luce delle suddette situazioni pregiudizievoli, la corte ha liquidato per poco più di due anni la somma di Euro 3.356,97, addirittura superiore ai parametri patrimoniali indicati, all’epoca, dalla Corte EDU. Infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso va, in conclusione, respinto.
La peculiarità della vicenda processuale e i margini di opinabilità che all’epoca della presentazione del ricorso connotavano la lettura della disciplina dell’equa riparazione, consentono di ravvisare la presenza di giusti motivi per la compensazione delle spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2006