La Commissione Tributaria Regionale del Veneto, rigettando l’appello di G.A., confermava la decisione con la quale la CTP di Verona aveva respinto il ricorso proposto dal predetto contribuente avverso avviso di accertamento notificatogli dall’Ufficio II.DD. di Verona in rettifica della dichiarazione relativa ad IRPEF ed ILOR per l’anno di imposta 1987.
In particolare, avendo il G. anche in appello contestato la legittimità del recupero a tassazione delle spese di manutenzione nella parte eccedente la quota del 5% del valore dei beni, la CTR rigettava l’impugnazione, affermando che il contribuente non aveva provato il presupposto per l’invocata applicazione della più elevata percentuale di detraibilità delle spese di manutenzione, prevista dal D.M. 13 del 1981 nella misura del 25/% per gli esercenti attività di autotrasporto.
Avverso questa sentenza ricorre per cassazione il G.;
l’Avvocatura Generale dello Stato ha depositato atto di costituzione.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 413 del 1991, artt. 32 e ss, nonchè omessa pronuncia, il ricorrente rileva che l’Ufficio non avrebbe in alcun modo considerato che l’imponibile soggetto a rettifica non era più quello indicato nella dichiarazione, bensì quello risultante a seguito di integrazione dell’imponibile operata dal contribuente ai sensi del citato art. 32 e che tale circostanza fu prospettata sia in primo grado che in appello.
Col secondo motivo, deducendo vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., il ricorrente afferma che la sua qualifica di autotrasportatore non fu mai contestata nel corso dei giudizi di merito dalla controparte, che, anzi, l’Ufficio aveva notificato l’avviso di accertamento proprio per rettificare il reddito di impresa derivante dall’esercizio di tale attività, e che, pertanto, sorprendentemente ed in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la CTR avrebbe confermato la sentenza di primo grado sostenendo la mancanza di documentazione comprovante lo stato che consente la maggiore deduzione.
Col terzo motivo, censurando la sentenza impugnata per omessa pronuncia, il ricorrente rileva che i giudici d’appello avrebbero omesso di pronunciarsi sulla legittimità del recupero dell’Ufficio in ordine alle spese di manutenzione eccedenti il 5% del valore dei beni, in particolare omettendo di affrontare la questione di diritto, posta dal contribuente fin dal primo grado, della necessità di integrazione delle disposizioni contenute nel D.P.R. n. 597 del 1973, art. 68 (prevedente al 5% il limite di detraibilità delle spese) con le previsioni del D.M. 13 luglio 1981 (elevante al 25% il limite dei costi deducibili per gli esercenti attività di autotrasporto).
In ordine logico deve essere preventivamente esaminato il secondo motivo di ricorso, posto che l’eventuale accoglimento del medesimo comporterebbe inevitabilmente l’assorbimento degli altri due.
Le censure esposte nel suddetto secondo motivo sono fondate, nei limiti e nei termini di seguito meglio specificati.
Pur denunciando ultrapetizione ai sensi dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente, dolendosi che i giudici d’appello abbiano ritenuto non provato lo svolgimento dell’attività di autotrasportatore, benchè tale circostanza, posta dal predetto contribuente a fondamento della pretesa di deduzione in percentuale maggiore, non fosse mai stata contestata dall’Ufficio, denuncia, di fatto, una violazione del cd.
"principio di non contestazione".
Effettivamente, dalla lettura degli atti – consentita a questo giudice in relazione alla deduzione di un error in procedendo – non risulta che lo svolgimento dell’attività di autotrasportatore affermata dal contribuente a sostegno della propria pretesa di deduzione nella percentuale del 2 5% abbia mai formato oggetto di specifica contestazione da parte dell’Amministrazione.
Tanto premesso, occorre rilevare che il suddetto principio (da intendersi più correttamente come onere di contestazione tempestiva, col relativo corollario della non necessità di prova riguardo ai fatti non tempestivamente contestati, e, a fortiori, non contestati "tout court"), elaborato da parte della dottrina e poi, più articolatamente, dalla giurisprudenza di questo giudice di legittimità, è stato inizialmente affermato con riguardo al rito del lavoro (v. per tutte SS. UU. n. 7 61 del 2002) e poi esteso al rito civile riformato (v. tra le altre Cass. n. 394 del 2006 e n. 19260 del 2004). Occorre chiedersi, pertanto, se tale principio possa essere invocato anche nel processo tributario.
A questo fine, è opportuno ripercorrere brevemente l’evoluzione giurisprudenziale sull’argomento, essendo opportuno evidenziare che inizialmente il suddetto principio è stato essenzialmente basato sul tenore letterale dell’art. 416 c.p.c., e poi anche dell’art. 167 c.p.c., come sostituito dalla L. n. 353 del 1990, art. 11.
Successivamente, la giurisprudenza è giunta ad ulteriori conseguenze ed ha affermato che, ricorrendone le condizioni, l’onere di (tempestiva) contestazione può riguardare (non solo il convenuto ma) anche l’attore, ed avere a fondamento (non solo i fatti su cui la domanda è fondata, ma) anche fatti rilevanti per il processo (v. Cass. n. 3245 de 2003 e n. 12636 del 2005), così "emancipando" il suddetto principio dalla specificità del rito del lavoro, dalla posizione del convenuto e, soprattutto, dalla previsione degli artt. 416 e 167 c.p.c..
Secondo la giurisprudenza da ultimo citata, infatti, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l’altra parte ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura del fatto, potendo anche trattarsi di un fatto la cui esistenza incide sull’andamento del processo e non sulla pretesa in esso azionata.
Può pertanto affermarsi che nell’evoluzione giurisprudenziale l’onere di contestazione (col relativo corollario del dovere, per il giudice, di ritenere non abbisognevole di prova quanto non espressamente contestato), è divenuto principio generale che informa il sistema processuale civile, poggiando le proprie basi non più soltanto sul tenore dei citati artt. 416 e 167 c.p.c., bensì anche sul carattere dispositivo del processo – comportante una struttura dialettica a catena -, sulla generale organizzazione per preclusioni successive – che, in misura maggiore o minore, caratterizza ogni sistema processuale -, sul dovere di lealtà e probità posto a carico delle parti dall’art. 88 c.p.c. – che impone ad entrambe di collaborare fin dalle prime battute processuali a circoscrivere la materia realmente controversa, senza atteggiamenti volutamente defatiganti, ostruzionistici o anche solo negligenti – ed infine, soprattutto, sul generale principio di economia che deve sempre informare il processo, vieppiù alla luce del novellato art. 111 Cost..
In particolare, giova sottolineare che la struttura ontologicamente dialettica del processo civile (nonchè di quelli ad esso assimilati) comporta che soprattutto il momento probatorio sia dominato da un generale onere di "attivazione" delle parti (o comunque di "reazione" alle attività della controparte) anche in funzione di una sollecitazione semplificatoria, come evincibile persino dalle disposizioni del codice civile in materia di prova (si pensi, ad esempio, in relazione alle produzioni della controparte, alla previsione della querela di falso nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 2700 e 2702 c.c., al generale onere di contestarne la conformità previsto, per riproduzioni meccaniche e copie fotografiche, dagli artt. 2712 e 2719 c.c. ovvero all’onere di espresso disconoscimento previsto, con riguardo agli atti di ricognizione o rinnovazione, dall’art. 2720 c.c. – per un’applicazione specifica nel processo tributario dell’art. 2712 c.c. v. da ultimo Cass. n. 8108 del 2003 -).
Inoltre, con riguardo all’art. 111 Cost., occorre innanzitutto sottolineare che il principio di ragionevole durata del processo non è e non può essere inteso soltanto come monito acceleratorio rivolto al giudice in quanto "soggetto" del processo, essendo esso principio-cardine del sistema processuale costituzionale, ossia di quell’insieme di principi fondamentali che secondo la costituzione devono presidiare l’esercizio della giurisdizione nel Paese, quale che sia la natura del processo da celebrare.
In tali termini, esso deve ritenersi rivolto anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice, non solo in quanto protagonista (insieme alle parti) del processo, bensì in quanto interprete della norma processuale, dovendo ritenersi che una lettura "costituzionalmente orientata" delle norme sul processo non possa mai prescindere dal principio in esame, espressione costituzionale di un canone ermeneutico valevole per ogni disciplina processuale. In ogni caso, non può non ritenersi che il principio in esame sia rivolto a tutti i protagonisti del processo, ivi comprese le parti, che, specie nei processi dispositivi e prevedenti una difesa tecnica, devono responsabilmente collaborare alla ragionevole durata del processo, dando attuazione, per quanto in loro potere, al principio di economia processuale e perciò immediatamente delimitando, ove possibile, la materia realmente controversa: sotto questo profilo dovrebbero ritenersi costituzionalmente presidiati anche i doveri di lealtà e probità processuale sopra richiamati, senza contare che un processo più lungo ha un maggiore "costo" (non solo in termini "umani" e non solo per le parti coinvolte, ma anche) per la collettività.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, non dovrebbero esservi dubbi sull’applicabilità del principio in esame anche al processo tributario, sia in relazione al menzionato principio costituzionale, sia perchè, essendo strutturato sulla falsariga del processo civile, può anche ad esso riconoscersi natura dispositiva ed è anch’esso caratterizzato dalla necessità di una difesa tecnica e da un sistema di preclusioni (benchè meno stringente di quello previsto per il rito del lavoro ed il rito civile riformato), sia perchè, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, i giudici tributari applicano le norme del medesimo decreto, e, per quanto in esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile (tra le quali rientra certamente l’art. 88 c.p.c.); senza contare che, con quest’ultima previsione, viene implicitamente individuato nel codice processuale civile cui si rinvia anche un ben preciso ambito di riferimento per l’interprete, pure in relazione ad una eventuale analogia iuris (per tale intendendosi, in carenza di disciplina espressa, il ricorso ad uno o più principi giuridici ricavabili dal sistema, siano essi espressi o taciti, parziali o generali).
Peraltro, non sembra che dalle indubbie peculiarità del processo tributario possano emergere specifiche controindicazioni all’applicazione del principio in particolare, non possono avanzarsi dubbi sull’applicabilità del principio costituzionale della ragionevole durata anche al processo tributario in relazione alla mancata estensione ad esso della disciplina in tema di equa riparazione, posto che questa Corte (v. Cass. n. 11350 del 2004), affermando la non applicabilità – sia pure entro certi limiti – ai giudizi in materia tributaria della disciplina dell’equa riparazione per "mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’ art. 6, p. 1, della C.E.D.U." quale introdotta dalla L. n. 89 del 2001, artt. 2 e ss., e ritenendo tuttavia esclusa anche l’astratta configurabilità di un vulnere al principio espresso dall’art. 111 Cost. – restando di esclusiva competenza del legislatore ordinario la possibile correzione della norma "in direzione di una integrale o più completa realizzazione del valore costituzionale" -, ha in ogni caso ammesso l’applicabilità del suddetto principio costituzionale al processo tributario.
Inoltre, prescindendo dall’annosa questione relativa alla natura – costitutiva o dichiarativa – del suddetto processo, giova rilevare che, come sopra evidenziato, l’onere di tempestiva contestazione è "strumento" neutro, direttamente connesso alla dinamica processuale, perciò di portata generale e prescindente dalle caratteristiche del processo in cui viene applicato, non potendo peraltro astrattamente configurarsi alcuna incompatibilità neppure nell’ipotesi in cui si ritenga di condividere la tesi (tutt’altro che pacifica) cd.
dell’impugnazione-annullamento.
Nè, d’altro canto, la natura documentale dell’istruttoria nel processo tributario può costituire un ostacolo, essendo anzi in tal modo più facile (specie considerando anche che si tratta di processi in cui una delle parti è soggetto pubblico) contestare tempestivamente e, in ogni caso, collaborare per ridurre ai fatti veramente controversi alla necessità di accertamento giudiziale.
E’ infine appena il caso di aggiungere che dall’esame della giurisprudenza di questo giudice di legittimità risulta che, sia pure con riferimento a "fatti" di rilevanza processuale (perciò non incidenti sul "merito" della controversia) e sia pure prescindendo da un’espressa affermazione teorica in proposito, il generale principio dell’onere di contestazione è stato di fatto già applicato nel processo tributario (v. ad esempio, tra le altre, Cass. n. 915 del 2006).
Per tutto quanto sopra esposto, il motivo in esame deve essere accolto, con assorbimento degli altri.
La sentenza impugnata, che ha fatto applicazione di una regula iuris diversa, deve essere pertanto cassata con rinvio ad altro giudice che provvedere a decidere la controversia facendo applicazione del principio di diritto sopra esposto ed altresì a liquidare le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della CTR Veneto.
Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2007