Con ricorso depositato in data 4.5.2004 presso la cancelleria della Corte d’Appello di Potenza P.P.G. esponeva che:
in data 28.6.1995 e, successivamente, in data 4.7.1995 aveva presentato alla Procura della Repubblica di Lecce denuncia-querela nei confronti dei custodi giudiziari D.R.V., D.R. e R.F. per la gestione del fondo "(OMISSIS)" di sua proprietà sito in agro (OMISSIS) ed assoggettato a sequestro;
– a seguito dell’esercizio dell’azione penale si era costituita parte civile per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali in quanto al momento del dissequestro il fondo si trovava in stato di completo abbandono con conseguente totale distruzione, oltre che dello stesso, anche della relativa azienda agrituristica;
– il decreto di citazione a giudizio era stato emesso il 5.11.1998;
– il Tribunale, aveva ritenuto ammissibile la costituzione di parte civile;
– il giudizio di primo grado si era concluso con sentenza del 15.7 – 14.10.2002 che aveva condannato gli imputati alla pena di mesi due di reclusione ed – escluso la sua partecipazione al giudizio;
– avverso tale sentenza era stato proposto appello dagli imputati e dalla parte civile; in quella sede con sentenza del 31.10 – 6.11.2003 i reati erano stati dichiarati prescritti ed era stato dichiarato inammissibile il gravame proposto dalla parte civile.
Conveniva quindi il Ministero della Giustizia per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. ed il conseguente riconoscimento dell’equa riparazione in relazione ai danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.
Si costituiva l’Avvocatura che chiedeva preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, decorrendo il termine semestrale previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4 per la sua proposizione dalla data in cui era stata disposta l’esclusione della parte civile nel giudizio di primo grado (15.7.2002) e non già dalla pronuncia di secondo grado in quanto avverso il provvedimento di esclusione della parte civile non è prevista alcuna impugnazione. Deduceva poi che i due gradi di giudizio si erano conclusi in termini ragionevoli, dovendosi considerare il periodo decorrente dalla costituzione di parte civile intervenuta in data 8.2.1999 e comunque la mancanza di prove in ordine ai dedotti danni patrimoniali e non patrimoniali.
All’esito del giudizio la Corte d’Appello con decreto del 7.10- 4.11.2004 rigettava il ricorso, compensando le spese.
Dopo aver respinto l’eccezione preliminare relativa alla decorrenza del termine semestrale sul rilievo che esso non decorre dalla data del provvedimento inoppugnabile di esclusione della parte civile ostandovi il dato letterale di cui al richiamato art. 4 che fa riferimento al momento in cui la decisione è divenuta definitiva, osservava nel merito che, ai fini della valutazione della durata irragionevole del procedimento, dovevasi far riferimento per la parte civile al periodo intercorrente dalla data della sua costituzione (3.2.1999) a quella de deposito della sentenza definitiva (Novembre 2003), periodo di anni quattro e mesi nove che riteneva ragionevole per la celebrazione di due gradi di giudizio. Osservava infine che, a ben guardare, dovevasi far riferimento solo al giudizio di primo grado in quanto l’impugnazione della parte civile avverso la sua esclusione non è prevista dall’ordinamento e che anche in tal caso il periodo di anni tre e mesi nove (febbraio 1999-Novembre 2002) poteva considerarsi ragionevole.
Avverso tale decreto propone ricorso per Cassazione P.P. G. che deduce cinque motivi di censura.
Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia che propone anche ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE
I due ricorsi, il principale e l’incidentale, sono stati già riuniti preliminarmente in udienza.
Prioritario è l’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale proposto dal Ministero per i suoi effetti assorbenti che il suo eventuale accoglimento comporterebbe in caso di accoglimento.
Con tale motivo infatti il Ministero denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4. Lamenta che la Corte d’Appello abbia respinto l’eccezione di inammissibilità del ricorso presentato oltre il termine di cui al suddetto art. 4, deducendo che il riferimento in esso contenuto al momento della "decisione divenuta definitiva" non può non coincidere nel caso in esame con l’ordinanza di estromissione dal giudizio della parte civile pronunciata in primo grado in quanto definitiva non essendo al riguardo prevista alcuna impugnazione dall’ordinamento.
La censura è però infondata.
La L. n. 89 del 2001, art. 4 prevede che la domanda intesa ad ottenere l’equa riparazione per la non ragionevole durata del procedimento può essere proposta, oltre che durante la pendenza del giudizio nel cui ambito la violazione si assume verificata, entro il termine di mesi sei dal momento in cui la decisione che lo conclude è divenuta definitiva.
Nell’ipotesi in esame la decisione di primo grado – con cui è stata disposta l’esclusione dal giudizio della parte civile ai sensi dell’art. 82 c.p.p., comma 2 a seguito della proposizione da parte sua, in pendenza del giudizio penale, della azione avanti al giudice civile – non individua certamente il momento della decorrenza del termine in questione sia perchè tale decisione è stata impugnati ed a nulla rileva che un’ impugnazione non sia prevista in quanto, una volta proposta, la decisione al riguardo spetta al giudice di appello e sia perchè in ogni caso la previsione di cui all’art. 4 – che fa riferimento alla decisione che definisce il giudizio – impone – un’interpretazione compatibile con l’unicità del momento di decorrenza del termine per tutte le parti che hanno partecipato al giudizio.
Pertanto, risultando dal decreto impugnato che la sentenza penale è stata depositata il 6.11.2003 (a quella data peraltro non ancora definitiva) mentre il ricorso è stato proposto il 4.5.2004 (data di deposito) , se ne deve desumere la tempestività ai fini in esame.
Con il primo motivo del ricorso principale P.P.G. denuncia vizio di motivazione in ordine alla decorrenza, per la parte civile, del termine di durata ragionevole del processo, individuata dalla Corte d’Appello nel momento della sua costituzione anzichè in quello della presentazione della querela. Sostiene al riguardo che, dipendendo la costituzione di parte civile dall’esercizio della azione penale, il ritardo con cui questa viene esercitata si ripercuote sulla seconda, senza peraltro che nel caso in esame il lasso di tempo di tre anni intercorso fosse stato utilizzato per lo svolgimento di indagini preliminari.
La censura è infondata.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. 14 05/03) che per la persona offesa dal reato, ai fini della determinazione della durata ragionevole del procedimento penale, debba farsi riferimento al momento in cui essa abbia assunto la qualità di parte e che ciò avviene solo con la costituzione di parte civile, indipendentemente dal fatto che avesse in precedenza proposto querela o denuncia.
A differenza dell’indagato, per il quale la conoscenza dello svolgimento delle indagini può essere già fonte di sofferenza anche indipendentemente dal promovimento dell’azione penale con la conseguenza che ai fini della determinazione della durata ragionevole debba essere considerato in tal caso anche tale periodo, por la parte civile invece non può prescindersi dal dato formale della costituzione senza la quale la persona offesa non è parte del procedimento e non può ricevere la tutela prevista dalla norma in esame.
A tale principio il Collegio ritiene di dover aderire, risultando coerente con la struttura e la finalità del procedimento penale nel quale la persona offesa assume una sua partecipazione attiva ed un suo riconoscimento solo allorchè ne divenga parte.
Correttamente pertanto la Corte d’Appello, nel determinare la durata ragionevole del procedimento, ha fatto ferimento, adeguandosi a tale giurisprudenza, al momento della costituzione della parte civile e non già a quello precedente della presentazione della querela.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia omessa motivazione.
Lamenta che la Corte d’Appello non abbia considerato l’errore di notifica commesso dalla cancelleria de Tribunale penale di Lecce, senza il quale la sentenza non sarebbe stata pronunciata prima della riassunzione della causa civile, la parte civile non sarebbe stata esclusa, il sequestro penale sarebbe stato convalidato e gli imputati non avrebbero compiuto gli atti di disposizione del loro patrimonio per sottrarsi alla esecuzione.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia contraddittorietà della motivazione, deducendo che la Corte d’Appello non ha tenuto conto della possibile incidenza del lungo iter del processo penale sui provvedimenti cautelari emessi in quella sede e sui suoi, interessi, dell’errore di notifica della cancelleria, dell’errore del Tribunale di escludere la parte civile e delle norme che non consentono alla parte civile di impugnare la sua esclusione dal processo.
Entrambe le censure, da esaminarsi congiuntamente, sono infondate.
I ritardi determinati, dall’errore di notifica devono considerarsi irrilevanti ai fini in esame in quanto il relativo periodo non è stato escluso ma computato dalla Corte d’Appello nel valutare la durata ragionevole del procedimento. Rimane in tal modo assorbita ogni considerazione in ordine al nesso prospettato al riguardo dalla ricorrente con i lamentato danni mentre, per quanto riguarda la sua esclusione dal giudizio penale, essa è avvenuta unicamente, come già sottolineato, a seguito di una sua iniziativa, vale a dire dell’esercizio dell’azione avanti al giudice civile, considerato ai sensi del già richiamato art. 82 c.p.p., comma 2 alla stregua di una revoca implicita della costituzione di parte civile.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ancora vizio di motivazione, sostenendo che il principio, in base al quale non costituiscono danno patrimoniale da violazione della durata ragionevole del processo le peste oggetto dal giudizio protrattosi eccessivamente, può essere condiviso quando le possibilità del risarcimento siano rimaste integre nei confronti dei responsabili ma non quando la irragionevole durata abbia reso impossibile l’effettivo risarcimento, come nel caso in esame in cui le garanzie sono andate perdute determinando come conseguenza diretta ed immediata la irrecuperabilità del credito.
Al di là di ogni considerazione sulla sua fondatezza e del richiamo all’univoca giurisprudenza di questa Corte che ritiene indennizzabile solo il danno che derivi in modo immediato e diretto dalla non ragionevole durata e non anche il pregiudizio ricollegabile alla pretesa fatta valere nel procedimento presupposto, la censura deve ritenersi inammissibile.
La decisione impugnata infatti, essendo basata unicamente sulla ritenuta ragionevolezza della durata del procedimento, ha sostanzialmente considerato assorbita ogni questione relativa alla esistenza di un danno. Legittimamente pertanto la Corte d’Appello non si è pronunciata al riguardo.
La censura, di conseguenza, non coglie la "ratio" della decisione e non può trovare quindi ingresso nel presente giudizio di legittimità il cui tema d’indagine non può che essere limitato alle ragioni della decisione ed alle eventuali omissioni in cui sarebbe incorsa. Circostanza quest’ultima da escludere nel caso in esame, essendo l’indagine sull’esistenza e sulla liquidazione del danno subordinata all’esito negativo in ordine alla durata ragionevole del procedimento.
Con il quinto motivo la ricorrente denuncia infine un ulteriore vizio di motivazione. Lamenta che la Corte d’Appello non abbia ritenuto superato il termine di durata ragionevole del procedimento pur avendo preso atto che i reati contestati erano stati dichiarati estinti per prescrizione. Deduce al riguardo che se il tempo per l’accertamento del reato è stato tale da comportarne la prescrizione deve senz’altro escludersi che il procedimento abbia avuto una durata ragionevole.
La censura è infondata.
La tesi, pur suggestiva, prospettata dalla ricorrente non tiene conto delle diverse decorrenze (dies a quo) previste per la prescrizione del reato e per la determinazione della durata ragionevole.
Mentre infatti per la prescrizione il decorso ha inizio della consumazione del reato ovvero dalla cessazione della permanenza o della continuazione (art. 158 c.p.), ai fini della normativa in esame devesi tener conto, anche per quanto riguarda il giudizio penale, unicamente della durata del procedimento il cui inizio ben può essere, anche di molto, successivo e nel quale, relativamente alla parte civile, il periodo di riferimento decorre peraltro, come si è già rilevato, dalla sua costituzione.
Non sussiste pertanto alcuna contraddizione tra la dichiarazione della prescrizione ed il giudizio sulla durata non ragionevole del procedimento, trattandosi di istituti ben diversi che rispondono a distinte esigenze.
In definitiva anche il ricorso principale deve essere rigettato.
Tenuto conto del modesto rilievo assunto dal ricorso incidentale nell’economia del procedimento, si ritiene di porre le spese a carico del ricorrente principale nella misura determinata in dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta entrambi i ricorsi e condanna il ricorrente principale al pagamento dell’onorario che liquida in Euro 1.500,00 oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2007