Con ricorso L. n. 89 del 2001, ex artt. 2 e 3 depositato il 31.5.2003, V.A., S.C., S. M., S.E. e S.F., in proprio e quali eredi di S.V., adivano la Corte d’Appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole di durata, di cui all’ art. 6, p. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, del processo, avente ad oggetto reintegra nel possesso, promosso nei confronti di S.V. davanti al Pretore di Alatri con ricorso del 4.5.1991 e conclusosi in primo grado con sentenza depositata il 21.11.2002.
Costituitosi in giudizio il Ministero della Giustizia eccepiva la inammissibilità della domanda per carenza del diritto degli eredi all’indennizzo per essere il S. deceduto prima dell’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001.
La Corte d’Appello di Perugia, con Decreto in data 11 ottobre 2004, respingeva la domanda osservando che l’indennizzo ex Legge Pinto non era nel patrimonio del de cuius, essendo questi deceduto il (OMISSIS), prima dell’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 e, perciò, nulla a tale titolo poteva essere ereditato; per il periodo successivo alla morte del de cuius gli eredi non potevano avere maturato iure proprio il diritto in questione, non avendo mai assunto la qualità di parte nel processo presupposto.
Avverso tale provvedimento V.A., S.C., M., E., F., in proprio e quali eredi di S.V., hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2. Violazione e mancata applicazione degli artt. 456, 462, 536 e 565 del c.c. in relazione all’ art. 6 p. 1 CEDU. Contestuale violazione e mancata applicazione dell’ art. 6 p. 1, dell’ artt. 13 e 41 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, anche in relazione alla Giurisprudenza CEDU in materia (Riccardi – Pizzuti/Italia 10/11/2004; Zullo/Italia 10/11/2004 n. 64897/2001).
Deducono i ricorrenti che la fonte normativa costituente il diritto ad ottenere l’equa riparazione, di cui alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – ratificata da parte dell’Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848 – non è da individuarsi nella L. n. 89 del 2001, bensì nella Convenzione medesima. Pertanto non sarebbe possibile sostenere, come fa la corte di merito, che sia la L. n. 89 del 2001 la fonte del diritto fatto valere dagli eredi del S., essendo, invece, vero il contrario e cioè che il predetto, al momento della sua morte avvenuta nel (OMISSIS) e, quindi, dopo la ratifica della Convenzione, aveva nel suo patrimonio giuridico soggettivo il diritto di cui all’ art. 6 p. 1 ed all’ art. 41 della CEDU, che, perciò si era legittimamente trasferito agli eredi. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 in relazione al rigetto della domanda di risarcimento iure proprio dei ricorrenti. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c. nn. 3 e 5. Contestuale contraddittorietà della motivazione, art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento alla consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ( sentenze W.K. e L.G.SV Italia).
Il primo motivo di ricorso è fondato.
Con la sent. 28507 del 2005, resa a sezioni unite, questa Corte ha affermato il principio secondo cui il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla L. n. 89 del 2001 coincide con la violazione della norma contenuta nell’ art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 4 agosto 1955, n. 848, di immediata rilevanza nel diritto interno. Da ciò consegue che il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo, verificatosi prima dell’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001, va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto prima di tale data il giudizio del quale si lamenta la non ragionevole durata, col solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e che questa si sia pronunciata sulla sua irricevibilità.
Alla luce di tale principio, che il collegio condivide, devesi ritenere che, anche se S.V., parte nel giudizio presupposto, è deceduto prima dell’entrata in vigore della L. n. 89/01, il diritto all’equa riparazione è ugualmente entrato a far parte del suo patrimonio; che alla sua morte è stato acquisito iure ereditario dagli eredi e che, pertanto, questi sono legittimati a farlo valere in giudizio.
Anche il secondo motivo di ricorso è fondato.
Si legge nel decreto impugnato che per il periodo successivo alla morte di S.V. è da escludere che gli eredi possano aver maturato iure proprio il diritto all’equa riparazione per la eccessiva durata del processo, non risultando essere stati parti nel processo di riferimento, come provato dal fatto che la sentenza di primo grado, depositata il 21.11.2002 e quindi dopo la morte del predetto, è stata emessa nei suoi confronti.
I ricorrenti assumono che anche questa parte del decreto è illegittima e lesiva della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè contraria all’orientamento della Suprema Corte di Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’art. 2 della Legge sopra citata non parlerebbe affatto di parte in senso tecnico – processuale.
Detta norma, infatti, affermerebbe il diritto all’equa riparazione di chi abbia subito un danno patrimoniale e non patrimoniale dalla lunghezza del processo, evitando espressamente di qualificare il titolare del diritto e dell’azione come parte in senso tecnico.
La CEDU, nelle sentenze emesse nelle cause W.K. contro Italia e L.G.S. s.p.a.
contro Italia avrebbe affermato il principio secondo cui può essere considerata vittima di una violazione del diritto alla ragionevole durata del processo un individuo che non è parte processuale in un procedimento interno, ma che subisce, in ogni caso, le conseguenze di una decisione delle autorità statali, in considerazione del fatto che una decisione, resa in un procedimento civile, "produrrà i suoi effetti tra le parti o i loro aventi diritto".
Tali decisioni sarebbero vincolanti per il giudice italiano, considerato che il meccanismo riparatorio proposto dalla L. n. 89 del 2001 intende assicurare al ricorrente una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro della istanza internazionale.
La Suprema Corte di Cassazione, con le sentenze nn. 1339 e 1340 del 2004, si sarebbe espressa in tal senso, avendo affermato l’esistenza del dovere in capo al giudice italiano di non discostarsi – nell’applicazione di una norma della CEDU – dall’interpretazione che della stessa da il giudice europeo.
Il collegio osserva che, anche dopo la morte di S.V., il rapporto processuale si è svolto nei confronti delle parti originarie, tant’è vero che – come si afferma nel provvedimento impugnato – la sentenza che ha concluso il giudizio di primo grado è stata emessa nei confronti di quest’ultimo.
Tale fatto non consente di ritenere, come fa il giudice a quo, che gli eredi non possano invocare l’equa riparazione per il periodo successivo alla morte del de cuius, avvenuta il (OMISSIS), per non essere stati parte (formale) del procedimento della cui eccessiva durata essi si dolgono, vale a dire per non essersi costituiti in giudizio.
L’art. 110 cod. proc. civ. dispone che, quando la parte vien meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. L’art. 300 cod. proc. civ. dispone che se si verifica la morte della parte che si è costituita a mezzo di procuratore, questi lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti.
Dal momento di tale dichiarazione o notificazione il processo è interrotto, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione osservati i termini di cui all’art. 163 bis c.p.c..
Da tali disposizioni si evince che il verificarsi, nei tempi previsti dall’art. 300 cod. proc. civ., della morte di una parte non determina l’automatica interruzione del processo in corso, occorrendo, per la produzione di tale effetto, la dichiarazione in udienza del procuratore della parte deceduta o la notificazione alle altre parti costituite. In difetto di ciò il processo continua a svolgersi nei confronti delle parti originarie, spiegando la sua efficacia anche nei confronti degli eventuali successori a titolo universale della parte deceduta (cfr. in tal senso Cass. n. 11174 de 1992; Cass. n. 2708 del 1996).
Se in ogni caso – sia che si siano costituiti in giudizio sia che il processo sia proseguito nei confronti delle parti originarie e, quindi, nei confronti del loro dante causa – gli eredi sono i destinatari degli effetti della sentenza che conclude il processo proposto da o contro il de cuius, non si può fondatamente sostenere che non sono legittimati a proporre la domanda di equa riparazione per la durata del processo successiva alla morte del predetto.
Con la successione a titolo universale si verifica il trasferimento della integrale posizione attiva o passiva, per cui non si può fondatamente sostenere che gli eredi non siano parte (ovviamente solo sostanziale se non si sono costituiti in giudizio, lasciando che la controversia prosegua nei confronti del loro dante causa).
La L. n. 89 del 2001, art. 2, dispone che "chi" ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’ art 6, p. 1, della Convenzione, ha diritto ad un’equa riparazione.
La norma non richiede, data la genericità della sua formulazione, che legittimato a chiedere l’equa riparazione sia soltanto colui che ha tanto la veste di parte in senso sostanziale che quella di parte in senso formale, essendovi situazioni in cui le due qualità sono scisse, appartenendo a soggetti diversi. Ciò che rileva è che un determinato soggetto abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza dell’eccessiva durata di un processo e che costui sia il destinatario degli effetti della sentenza.
Il fatto di essere parte in senso processuale rileva, invece, nel momento in cui il giudice procede ad accertare in concreto la sussistenza della violazione.
Lo si evince dalla L. n. 89 del 2001, art 2, comma 2, il quale dispone che nell’accertare la violazione il giudice considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione.
Pertanto, anche la ulteriore durata del processo dopo la morte del dante causa degli attuali ricorrenti dovrà essere presa in considerazione per stabilire se il processo presupposto ha avuto o meno una durata ragionevole.
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto; il provvedimento impugnato deve essere cassato e la causa deve essere rinviata per un nuovo giudizio alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione, che provvederà a liquidare anche le spese del giudizio di legittimità e che per la decisione si uniformerà ai principi di diritto sopra enunciati.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2006