Con atto di citazione 30 maggio 2003 l’avv. P.D., già sindaco di Recale, conveniva in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Giustizia, il Ministero della Difesa e quello dell’Interno per sentire accertare la responsabilità dei convenuti, ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, per avergli arrecato danni ingiusti in conseguenza dell’illegittimo esercizio dell’attività giudiziaria ed amministrativa, nell’ambito delle indagini svolte sulla sua attività di sindaco di Recale, consistita nell’emissione della misura della custodia cautelare in carcere del 14/15 luglio 1992, poi modificata il 21 luglio 1992 in quella degli arresti domiciliari e, con ordinanza del 14 agosto 1992, in quella dell’obbligo di dimora, sino all’ordinanza di liberazione del 24 agosto 1992.
Con decreto 7 marzo 2005 il tribunale di Roma dichiarava inammissibile la domanda proposta dal Perfidia nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e rimetteva la causa sul ruolo per l’ulteriore corso del procedimento nei confronti degli altri convenuti.
Con sentenza 26 ottobre 2005 la Corte d’Appello rigettava il reclamo la L. n. 117 del 1988, ex art. 5, rilevando che il Tribunale, in ordine alle domande di risarcimento proposte, aveva correttamente ritenuto l’inammissibilità della domanda, sotto il profilo del mancato esperimento – da parte dello stesso P. – dei rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari (L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2).
Avverso tale decisione il P. ha proposto ricorso per Cassazione sorretto da cinque distinti motivi, illustrati da memoria (notificato in data 3 dicembre 2005 alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ai vari Ministeri).
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Difesa, il Ministero dell’Interno ed il Ministero della Giustizia hanno depositato unico controricorso, notificato in data 12 gennaio 2006.
Il Procuratore generale ha concluso, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, per l’inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso, con tutte le conseguenze di legge, (richieste scritte del 21 aprile 2006).

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Procuratore generale ha eccepito, innanzi tutto, l’inammissibilità del ricorso, in quanto privo dei caratteri della autosufficienza e della specificità dei motivi. Per comprendere esattamente la portata della domanda svolta in primo grado e del motivi di impugnazione davanti alla Corte d’Appello, occorrerebbe, secondo il Procuratore generale, esaminare il fascicolo di ufficio.
Cosa che non dovrebbe, di regola, essere necessaria.
I motivi formulati, ad avviso del Procuratore generale, conterrebbero esclusivamente censure di merito senza essere diretti ad evidenziare precise e puntuali carenze della decisione impugnata.
Osserva il Collegio:
in via pregiudiziale si rileva che l’impugnazione per Cassazione contro il provvedimento dichiarativo della inammissibilità della azione di responsabilità, reso dalla Corte d’Appello in esito a reclamo avverso il decreto del Tribunale, deve essere qualificata come ricorso ordinario, e dunque deve essere ammessa per tutti i motivi contemplati dall’art. 360 c.p.c.(Cass. 5 dicembre 2002 n. 17259).
I motivi di impugnazione formulati dal ricorrente sono sufficientemente specifici, contenendo – nella, pur sommaria, esposizione delle argomentazioni critiche alla decisione impugnata – le ragioni che la sorreggono con esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa deve considerarsi errata, in conformità all’interpretazione giurisprudenziale univocamente orientata (Cass. n. 19145 del 2005).
Il ricorso è, pertanto, ammissibile.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2, ed, in ogni caso, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Il primo giudice aveva dichiarato inammissibile la domanda del P. per il mancato rispetto del termine biennale decorrente dall’esaurimento della fase di impugnazione avverso i provvedimenti cautelari.
La Corte d’Appello aveva, invece, motivato la pronuncia di inammissibilità con il mancato esperimento da parte del P. di tutti i rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari: in pratica, aveva addebitato al ricorrente la mancata impugnazione del provvedimento cautelare.
in tal modo, tuttavia, erano state stravolte le stesse risultanze processuali, pacificamente ammesse dalle parti convenute.
Era infatti sfuggito ai giudici di appello che il P. aveva azionato tutti i mezzi di impugnazioni avverso i provvedimenti cautelari e sommari, di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2, fino alla revoca delle suddette misure, ottenuta in data 24 agosto 1992.
In particolare, la Corte aveva omesso di valutare una circostanza, il cui esame avrebbe condotto ad una diversa conclusione e cioè che il tribunale, in sede di riesame, su istanza del P. come degli altri indagati, aveva disposto la revoca della misura cautelare a far data dal trentesimo giorno dal deposito della ordinanza.
Nessuna altra impugnativa egli avrebbe potuto azionare fino alla data della sentenza di merito che aveva portato alla sua completa assoluzione.
Secondo la Corte territoriale, in buona sostanza, il P. sarebbe decaduto dall’azione risarcitoria prima ancora che fosse possibile determinare l’indennità ex art. 314 c.p.p. (definitivamente fissata dalla Corte d’Appello di Napoli con ordinanza del 18 luglio 2002 resa irrevocabile dalla decisione di questa Corte del 29 aprile 2003).
In realtà, solo da quest’ultima data poteva iniziare a decorrere il termine di legge per la proposizione della domanda risarcitoria ai sensi della L. n. 117 del 1988.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 117 del 1988, art. 5, comma 1 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
La limitazione della valutazione, da parte della Corte d’Appello, unicamente alle argomentazioni ed ai documenti contenuti nell’atto introduttivo del giudizio appariva ‘palesemente illegittima, lesiva del diritto alla difesa e del principio del contraddittorio, inibendo la fase della trattazione.
Tale conclusione si poneva, tra l’altro, in contrasto con le norme che presidiano il processo civile, specie per quanto attiene al principio del contraddittorio e della facoltà delle parti di produrre nuove documentazioni ed articolare mezzi istruttori, ex artt. 183e 184 c.p.c..
La motivazione della Corte non appariva sorretta da adeguata motivazione.
In particolare, la Corte non aveva risolto il vero problema che era quello di stabilire se la fase preliminare – riguardante l’ammissibilità dell’azione risarcitoria della L. n. 117 del 1988, ex art. 5 – avesse o meno, carattere di cognizione piena e definitiva in ordine alla configurabilità dei fatti contestati, dei requisiti e delle condizioni cui la legge subordina detta responsabilità:
problema, questo, risolto positivamente dalla giurisprudenza di questa Corte.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione delle norme ordinarie richiamate dalla L. n. 117 del 1988, art. 13, contraddittoria motivazione ed, in ogni caso, omessa valutazione di alcuni comportamenti attribuiti a magistrati, contenuti nell’atto di citazione, nelle memorie e nelle note del 7 marzo 2005.
Solo dalla data della sentenza di assoluzione piena (divenuta irrevocabile in data 28 luglio 1998) poteva iniziare a decorrere il quinquennio per la proposizione della domanda.
L’atto di citazione era stato notificato in data 29 maggio 2003 e doveva pertanto ritenersi tempestivo.
Nessuna disposizione di legge prevede che l’azione di responsabilità ex art. 13, regolata dalla legge ordinaria per fatti costituenti reato commessi da magistrati, richieda anche la costituzione di parte civile nel processo penale.
Il Tribunale ed i giudici di appello, nell’affermare l’inammissibilità della azione risarcitoria, avevano evitato di compiere qualsiasi valutazione sul comportamento della Procura della Repubblica e del Prefetto, che avevano disposto l’illegittimo arresto del P., ordinando lo scioglimento del Consiglio Comunale di Recale.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione della L. n. 117 del 1988, art. 2, n. 3, lettera b), nonchè omesso esame.
I giudici di merito non avevano esaminato le circostanze esposte nelle note per la discussione, illustrate alla udienza del 7 marzo 2005 dinanzi al Tribunale di Roma.
Tali circostanze, da sole, sarebbero state di per sè sole sufficienti a condurre ad una pronuncia di ammissibilità della domanda.
Il termine per la ammissibilità della domanda proposta poteva iniziare a decorrere solo dalla ordinanza 17 luglio 2002, divenuta irrevocabile in data 29 aprile 2003, che aveva provveduto alla determinazione della indennità ex art. 314 c.p.p. (come già esposto nel primo motivo di ricorso).
Con il quinto motivo il ricorrente solleva, infine, alcune eccezioni di legittimità costituzionale sottolineando la contrarietà della decisione impugnata alle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Secondo la lettura delle norme operata dai giudici di appello, il P., quando ancora rivestiva la qualità di imputato nel procedimento penale, avrebbe già dovuto promuovere azione di responsabilità contro magistrati operanti nel medesimo ufficio giudiziario nel quale stava per essere giudicato e dove, notoriamente, esiste un rapporto di colleganza e normale frequentazione tra magistrati.
Così interpretata, la normativa speciale imporrebbe all’istante di intraprendere una pretesa risarcitoria quando ancora non vi è alcuna certezza della insussistenza del fatto, quando cioè il processo potrebbe ancora concludersi con esito sfavorevole per l’imputato.
Questa linea interpretativa, sottolinea il ricorrente, si pone in aperto contrasto con il principio di ragionevolezza ed il diritto di piena tutela giurisdizionale dei diritti di cui all’art. 24 Cost. (e degli articoli 2, e 111) oltre con quelli della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
L’irragionevolezza della normativa in esame, conclude il ricorrente, risulterebbe ancora più evidente in considerazione del mancato coordinamento legislativo con l’istituto della ingiusta detenzione, che invece è azionatile solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione.
In caso di procedimento penale, l’azione dello Stato contro il pubblico dipendente condannato (sottoposto a procedimento contabile per danno erariale) decorre dal momento in cui il danno è divenuto certo e determinato, mentre così non sarebbe per il cittadino assolto nei confronti dello Stato, secondo le previsioni della L. n. 117 del 1988.
Osserva il Collegio: i cinque motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto connessi tra di loro, non sono fondati.
Con motivazione adeguata, che sfugge alle censure formulate dal ricorrente, i giudici di appello hanno ritenuto che la domanda di risarcimento proposta dal P. non fosse ammissibile.
I giudici di appello hanno rilevato che l’odierno ricorrente non ebbe a proporre tutte le impugnazioni previste dal nostro ordinamento contro i provvedimenti cautelari.
Tale affermazione non è stata sottoposta a specifica censura dal P..
Questi avrebbe dovuto dimostrare con specifica documentazione l’espletamento di tutti i rimedi consentiti.
L’attuale ricorrente, all’opposto, si è limitato ad osservare che poichè la ordinanza di custodia cautelare era stata trasformata in un obbligo di dimora con divieto di allontanamento dall’abitazione e, successivamente, anche questa misura era stata revocata con provvedimento del Gip del 24 agosto 1992, nessuna impugnazione sarebbe stata possibile fino alla data della sentenza di merito di piena assoluzione.
Tali osservazioni non colgono nel segno.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale "in tema di responsabilità civile dei magistrati ed ai fini della decorrenza del termine decadenziale per l’azione di risarcimento di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 4, gli atti del P.M. preordinati alla emissione di un provvedimento cautelare, come quelli diretti ad evitarne la revoca o la modifica, devono ritenersi impugnabili, sia pure non autonomamente, bensì nei modi e nei termini in cui è impugnabile il provvedimento giurisdizionale cui ineriscono.
Ne consegue che, in relazione ad una richiesta di misura cautelare da parte del Pubblico Ministero, i due anni per la proposizione della azione di responsabilità devono ritenersi decorrenti non dall’esaurimento del grado del procedimento nell’ambito del quale si sia verificato il danno (come prescritto per gli atti per i quali non siano previste impugnazioni) ma dal momento in cui non sia più passibile di revoca o di modifica, perchè definitivamente caducata o per avere esaurito i suoi effetti l’ordinanza del Gip che dispose la misura cautelare, giacchè la richiesta del P.M. non è ex se impugnabile in quanto da sola non è idonea ad incidere sulla libertà, laddove soltanto il provvedimento del giudice che accolga tale richiesta può limitarla, dando eventualmente luogo ad un danno ingiusto (e risarcibile) , cosicchè le impugnazioni dirette contro l’ordinanza del giudice investono inevitabilmente anche le richieste del P.M., quando il provvedimento sia ad esse conforme, perchè il P.M. ha presentato gli elementi ritenuti necessari e di quegli elementi il giudice si è valso per emettere l’ordinanza" (Cass. 26 luglio 1994 n. 6950, 23 dicembre 1997 n. 13003, 12 ottobre 1999 n. 11438, 3 dicembre 1999 n. 13496, 13 dicembre 1999 n. 13919, 3 dicembre 2001 n. 15246, 24 dicembre 2002 n. 18329, 4 maggio 2005 n. 9288).
Nel caso di specie il Tribunale ha accertato, con decreto motivato, che l’avv. P. "non si avvalse degli ordinari rimedi stabiliti dal codice di procedura penale per far cessare lo stato di restrizione della sua libertà personale, protrattosi dal 16 luglio al 24 agosto 1992".
Egli, infatti, si limitò a richiedere, allo stesso giudice che l’aveva adottato, la modifica del provvedimento della custodia cautelare in carcere.
Avrebbe potuto, invece, adire il Tribunale del riesame (art. 309 c.p.p., comma 1) ed, all’esito della decisione di quest’ultimo, la Corte di Cassazione.
Quanto all’ampliamento della domanda, va rilevato che il procedimento sull’ammissibilità dell’azione risarcitoria, in dipendenza di responsabilità civile del magistrato, di cui alla L. n. 117 del 1988, si mantiene sul piano delibativo solo quanto al riscontro degli elementi addotti a fronte di detta responsabilità, mentre ha carattere pieno e definitivo in ordine ai presupposti ed ai termini della azione (Cass. 26 luglio 1994 n. 6950, 23 novembre 2003 n. 14860).
Il dedotto "ampliamento circa ulteriori comportamenti colposi contenuti in sede di note di mera discussione innanzi al Collegio per l’udienza del 7 marzo 1995 e delle note ex art. 183 c.p.c." rilevato dal Tribunale nel decreto 28 settembre – 26 ottobre 2005, non investe, tuttavia, il tema dell’ammissibilità dell’azione risarcitoria, sotto il profilo già delineato del mancato esperimento dei rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari (L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2).
Nel caso di specie, i giudici di appello hanno motivatamente accertato che dalla data del 24 agosto 1992 fino alla notifica dell’atto di citazione, erano ampiamente decorsi i termini di decadenza previsti dalla L. n. 117 del 1988, art. 4.
Contro questa pronuncia, il ricorrente non svolge alcuna specifica censura, limitandosi a sollevare eccezioni di legittimità costituzionale o a sostenere che il termine, contrariamente alla lettera della legge, inizierebbe a decorrere dalla data in cui è divenuta irrevocabile la decisione che ha liquidato il danno da ingiusta detenzione.
Questa ultima azione, come ha esattamente rilevato il Procuratore generale nelle proprie conclusioni scritte, è ben diversa da quella relativa alla responsabilità civile del magistrato di cui alla L. n. 117 del 1988.
Non vi è alcuna connessione o pregiudizialità tra i due istituti, come stabilito dalla L. n. 117 del 1988, art. 14, secondo il quale "le disposizioni della presente legge non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari o di ingiusta detenzione".
Si tratta, infatti, di due azioni chiaramente distinte, la prima che presuppone una responsabilità del magistrato, a titolo di dolo o colpa grave, ovvero per diniego di giustizia, che pure deve essere colpevole, l’altra, che prescinde dall’accertamento di eventuali profili dolosi o colposi nella condotta del magistrato e si basa unicamente sui dati obiettivi contemplati dalle norme.
Quanto all’ipotesi regolata dall’art. 13 della stessa legge, è appena il caso di ricordare che tale disposizione, nel disporre che l’azione civile per il risarcimento del danno da reato ed il suo esercizio nei confronti dello stato in quanto responsabile civile, sono regolati dalle norme ordinarie, fa riferimento (essendo la L. n. 117 del 1988 entrata in vigore nella vigenza del codice di procedura penale del 1930) alle disposizioni sull’azione civile contenute in detto codice, che contemplava la pregiudizialità dell’azione penale nei confronti dell’azione civile, rendendo superfluo, con riferimento alle ipotesi di responsabilità in questione, il preventivo giudizio di ammissibilità.
Pertanto, l’art. 13 trova applicazione solo nella ipotesi in cui il danneggiato eserciti l’azione civile in sede penale, ovvero direttamente in sede civile dopo che sia intervenuta sentenza di condanna del magistrato, passata in giudicato (Cass. 4 novembre 1998 n. 11044; cfr. Corte Cost. n. 468 del 1990).
Mentre, ove egli proponga direttamente – come nel caso di specie – azione risarcitoria in sede civile, mancando il filtro del giudizio penale, detta azione è soggetta, a salvaguardia della autonomia e della indipendenza di giudizio del giudice, al preventivo vaglio di ammissibilità, della L. n. 117 del 1988, ex art. 5.
Le altre censure formulate dal ricorrente investono questioni di merito.
Quanto alla eccezione di illegittimità costituzionale delle disposizioni di legge richiamate, la stessa appare manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 111 Cost..
Non è inibito, infatti, al legislatore regolare in modo non rigidamente uniforme i modi della tutela giurisdizionale e pertanto ricorrere ad una disciplina differenziata in relazione a situazioni processuali oggettivamente diverse, tenuto conto che, anche in relazione alla congruità del termine decadenziale correlato al momento di esperibilità della azione, gli interessati possono disporre di elementi sufficienti per valutare l’operato dei magistrati e, quindi, per attivare nei termini legali l’eventuale azione risarcitoria, cosi facendo valere il proprio diritto alla tutela giurisdizionale.
Sotto altro profilo va rilevato che la previsione di un giudizio preliminare di delibazione, configurato come una fase dell’unitario giudizio di merito, non rappresenta un ostacolo apprezzabile per la difesa dei diritti azionati (Cass. 13 dicembre 1999 n. 13919, 24 dicembre 2002 n. 18329, 4 maggio 2005 n. 9288).
In ogni caso, il ricorrente non ha dimostrato nè dedotto che il suo diritto di difesa sarebbe stato compromesso se egli avesse esercitato l’azione in questione nel termine previsto dalla legge e dopo avere esperito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento.
Pertanto, la questione dedotta non appare rilevante ai fini della decisione della presente controversia.
Analoghe considerazioni valgono anche in ordine alla denunciata violazione di alcuni principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’ambito della quale viene dedotta una ingiustificata disparità di trattamento tra Stato e cittadino, eventualmente sottoposto a procedimento contabile per danno erariale (ponendo tale situazione a raffronto con l’azione del cittadino assolto nei confronti dello Stato, secondo le disposizioni della legge n. 117 del 1988).
Si tratta, all’evidenza, di situazioni del tutto diverse, che non è inibito al legislatore di regolare in modo non uniforme, quanto ai modi della tutela giurisdizionale.
Da ultimo, occorre rilevare che il controricorso è stato notificato oltre il termine di venti giorni dalla notifica del ricorso. Lo stesso è pertanto inammissibile.
Qualora la parte resistente proponga controricorso effettuando non il prescritto deposito ma la notifica del proprio atto al ricorrente oltre il termine di giorni venti dalla notifica del ricorso, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 25 gennaio 2002 n. 871, 27 maggio 2005 n. 11294, 20 gennaio 2006 n. 1104), ne va dichiarata l’inammissibilità, atteso che, a prescindere dalla violazione relativa alle modalità di deposito del controricorso, ne risulta comunque superato il termine previsto dal citato art. 5, comma 4 (dieci giorni per il deposito del ricorso e successivi dieci giorni per il deposito del controricorso).
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.
Nessuna pronuncia in ordine alle spese del giudizio, non avendo gli intimati proposto controricorso nei termini.
 
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 settembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2006