Con ricorso depositato il 12.4.2002, B.E. chiedeva che la Corte di Appello di Perugia, previo accertamento della violazione dell’ art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, per brevità, denominata semplicemente Convenzione europea), sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, disponesse la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento della somma di L. 35.000.000 a titolo di equa riparazione del danno, patrimoniale e non patrimoniale, subito in conseguenza del fatto che la causa civile da esso incardinata davanti al Pretore del lavoro di Roma attraverso il ricorso depositato il 19.6.1987, relativa al risarcimento dei danni subiti per effetto di un infortunio occorsogli durante una ripresa televisiva, era tuttora pendente in primo grado dopo essere stata riassunta dinanzi al locale Tribunale a seguito della decisione del primo giudice secondo cui doveva trovare applicazione il rito ordinario.
Si costituiva in giudizio l’Amministrazione convenuta, resistendo alla pretesa avversaria.
Il Giudice adito, mediante decreto emesso il 22.9.2003, pubblicato il 30.10.2003, rigettava la domanda, assumendo:
a) che dovesse essere detratta dalla durata complessiva del giudizio tutta la fase dinanzi al Giudice preventivamente adito a causa dell’erroneo radicamento del giudizio stesso in quella sede;
b) che, in ogni caso, l’accertamento dell’irragionevole durata del processo non importasse per ciò solo il riconoscimento dell’equa riparazione prevista dalla legge;
c) che il ricorrente avesse lamentato esclusivamente un danno non patrimoniale dedotto in forma del tutto generica, laddove il modesto rilievo economico e personale della controversia presupposta non consentiva affatto di presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, l’effettivo verificarsi di alcun danno del genere, né sotto forma di danno morale né sotto forma di danno esistenziale.
Avverso tale decreto, ricorre per cassazione M.R., nella qualità di erede del B., deducendo quattro motivi di gravame, illustrati da memoria, cui resiste mediante controricorso il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione, lamenta la ricorrente violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, dell’ art. 6 della Convenzione europea e degli artt. 127 e 175 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendo:
a) che, nella specie, il B. non solo non ha tenuto alcuna condotta dilatoria, ma, al contrario, ha dovuto subire i numerosi rinvii disposti d’ufficio, i quali sono stati tali da determinare una grave fase di stallo della causa per tre anni e nove mesi, nonché l’assegnazione di questa ad una sezione stralcio, con conseguente, ulteriore allungamento dei tempi processuali;
b) che, alla luce di quanto precede, si ravvisa in modo evidente come l’eccessivo protrarsi del giudizio non possa che essere ascritto alla responsabilità dell’apparato giudiziario, il quale non è stato in grado di rendere effettivo il termine ragionevole previsto dalla Convenzione europea.
Con il secondo motivo di impugnazione, del cui esame congiunto con il precedente si palesa l’opportunità involgendo entrambi la trattazione di questioni strettamente connesse, lamenta la ricorrente violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, nonché insufficiente, erronea ed illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deducendo:
a) che la Corte territoriale è incorsa in errore per quanto attiene all’accertamento della violazione che deve essere effettuato da parte del giudice in base ai criteri di legge;
b) che, infatti, anche ammettendo la fondatezza dell’assunto circa l’esclusione dal periodo da considerare ai fini dell’equa riparazione della durata della causa dinanzi al giudice del lavoro, la medesima Corte ha mancato di considerare tutto il restante periodo, di ben quattordici anni, nonché di stabilire la responsabilità per tale eccessivo protrarsi del giudizio, omettendo di apprezzarne le lunghe fasi di stallo e di rallentamento e di riconoscere, quindi, la violazione del termine di ragionevole durata in relazione ad un processo il quale ha avuto l’anzidetto svolgimento per un solo grado e per un accertamento che riguardava esclusivamente il quantum debeatur, essendo incontroverso l’an debeatur.
I due motivi sono fondati.
La Corte territoriale, infatti, muovendo dall’incensurato apprezzamento circa il fatto che il giudizio presupposto sia stato introdotto, in primo grado, sotto la data del 19.6.1987 e ponendo a fondamento del proprio assunto il rilievo secondo cui, per accertare se ed in quale misura vi sia stata violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si deve sottrarre dal periodo totale di durata della causa quello non addebitabile all’inerzia o, in qualunque modo, alle manchevolezze dell’apparato giudiziario, ma ad iniziative della parte istante o da questa accettate (rinvii superflui ad istanza di parte, scioperi degli avvocati e così via), ha, quindi, ritenuto che, nel caso in esame, vada "detratta dalla durata complessiva tutta la fase svoltasi dinanzi al Pretore, a causa dell’erroneo radicamento della causa dinanzi a tale ufficio".
Così argomentando, detto Giudice, è, innanzi tutto, incorso nella violazione del principio, affermato da questa Corte con riferimento all’ipotesi della declaratoria di incompetenza del giudice inizialmente adito (Cass. 21 gennaio 2005, n. 1334) ma evidentemente estensibile a quella in cui, come nella specie, sia stata fatta applicazione del disposto dell’art. 427 c.p.c., secondo il quale, in tema di criteri di accertamento della violazione del termine ragionevole del processo, ex L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, della non può essere di per sé imputato al comportamento della parte che richieda l’equa riparazione ed espunto dal computo della durata complessiva del procedimento di cui si adduca l’irragionevole durata, l’intero periodo occorso per pervenire alla declaratoria di incompetenza del giudice dalla stessa parte inizialmente adito, giacché l’erronea proposizione di una domanda davanti a giudice incompetente non esonera dal dovere di verificare se, nel periodo occorso per pervenire alla declaratoria di incompetenza, siano ravvisabili elementi riconducibili a disfunzioni o ad inefficienze dell’apparato giudiziario, ovvero al comportamento di quella medesima parte che quel giudice aveva erroneamente adito, tanto più quando, come nel caso in esame, l’ordinamento processuale riconosca al giudice l’esercizio di poteri officiosi.
La stessa Corte territoriale, poi, è ulteriormente incorsa, sotto le specie del difetto di motivazione, nelle censure dedotte dalla ricorrente là dove, in secondo luogo, ha del tutto omesso di apprezzare la violazione del termine di durata ragionevole del processo con riferimento al periodo intercorso tra la riassunzione del giudizio presupposto davanti al Tribunale e l’introduzione del giudizio per equa riparazione, avendo, per contro, in questa sede, la medesima ricorrente specificatamente prospettato:
a) che l’atto di citazione in riassunzione è stato notificato il 29.8.1988;
b) che i numerosi rinvii disposti d’ufficio hanno determinato una grave fase di stallo della causa dal 26.3.1993 al 6.12.1996;
c) che l’assegnazione della medesima causa ad una sezione stralcio ha allungato ulteriormente i tempi processuali, poiché si è verificata dopo che la controversia era già stata rinviata all’udienza collegiale del 13.5.1999 a seguito della precisazione delle conclusioni, onde la definizione del procedimento è così slittata di altri due anni, venendo ulteriormente rinviata per la precisazione delle conclusioni alla nuova data del 20.11.2001;
d) che il giudizio aveva ad oggetto l’accertamento del solo quantum di responsabilità, essendo incontroverso l’an debeatur.
Con il terzo motivo di impugnazione, lamenta la ricorrente violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, e degli artt. 2056 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, deducendo che la Corte territoriale ha disatteso, in ordine ai criteri di individuazione del danno non patrimoniale, i parametri ai quali doveva necessariamente fare riferimento secondo la giurisprudenza della Corte europea, recepita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, laddove, utilizzando il criterio dell’interesse in gioco e definendo la causa di "modesto rilievo personale", se ne è avvalsa per escludere la sussistenza del danno ed emettere così una pronuncia viziata per violazione di legge.
Con il quarto motivo di impugnazione, del cui esame congiunto con il precedente si palesa l’opportunità involgendo entrambi la trattazione di questioni strettamente connesse, lamenta la ricorrente violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, l’art. 2, commi 1 e 3, e degli artt. 2056 e 1226 c.c., nonché insufficiente, erronea ed illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deducendo che il provvedimento impugnato è da censurare anche sotto il profilo della erroneità e della illogicità dell’iter argomentativo seguito per addivenire alla pronuncia di rigetto sull’assunto che il danno non patrimoniale lamentato dal ricorrente sarebbe stato dedotto in forma del tutto generica e sull’ulteriore assunto del modesto rilievo economico e personale della controversia, laddove il riconoscimento di un danno del genere dovrà sempre essere la logica conseguenza dell’accertamento della responsabilità oggettiva per inadempimento internazionale dello Stato italiano.
I due motivi sono fondati.
La Corte territoriale, al riguardo, ha affermato:
a) che l’accertamento dell’irragionevole durata del processo non importa, perciò stesso, il riconoscimento dell’equa riparazione prevista dalla legge;
b) che, una volta accolto l’inquadramento del danno da irragionevole durata del processo, anche se non patrimoniale, quale danno-conseguenza, occorre che la parte interessata alleghi gli elementi costitutivi e adduca le circostanze di fatto o quelle notorie da cui dedurre presuntivamente l’esistenza del pregiudizio lamentato, quale che sia la natura, patrimoniale o non patrimoniale, di esso;
c) che, nel caso di specie, la parte ricorrente ha lamentato esclusivamente un danno non patrimoniale dedotto in forma del tutto generica, con ripetitive espressioni di stile prive di ogni individualizzazione (si parla genericamente del fatto che la durata del processo può produrre un danno da stress, ma non si dice neppure chiaramente che il ricorrente sia stressato), mentre il modesto rilievo economico e personale della controversia in questione (sinistro con lesioni nella misura dedotta del 10%) non consente affatto di presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, l’effettivo verificarsi di alcun danno non patrimoniale, né sotto forma di danno morale (sofferenza, patema d’animo per l’attesa dell’esito della lite, stress emotivo, angoscia et similia), né sotto forma di danno esistenziale (impedimento allo svolgimento di specifiche attività realizzatrici della persona).
Così argomentando, detto Giudice è incorso nella violazione dei principi, ripetutamente enunciati da questa Corte, secondo i quali:
a) in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo a tenore della L. 24 marzo 2001, n. 89, la parte istante, con l’allegazione e dimostrazione del protrarsi della controversia oltre il termine mediamente qualificabile come ragionevole, secondo parametri di normalità ed anche alla luce di criteri al riguardo elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, offre il titolo della propria richiesta indennitaria ed identifica, quindi, la causa petendi della pretesa azionata, cui si collega il danno, patrimoniale o non patrimoniale, lamentato in conseguenza dell’addotta violazione, onde la parte medesima ha un onere di allegazione e di dimostrazione riguardante la sua posizione nel processo presupposto (la data iniziale di questo, la data della sua eventuale definizione ed i gradi in cui, semmai, si sia articolato), laddove su di essa non incombe l’onere di specificare "passo passo" le cadenze dei ritardi lamentati e di argomentare analiticamente in proposito, atteso che la legge demanda al giudice (munito, in coerenza con il modello procedimentale adottato, di poteri di iniziativa i quali si estrinsecano attraverso l’assunzione di informazioni che, espressamente prevista dall’art. 738 c.p.c., non resta subordinata all’istanza di parte) il compito di accertare in concreto la violazione (Cass. 10 settembre 2004, n. 18241; Cass. 23 settembre 2004, n. 19084);
b) se pure è vero che la sentenza delle Sezioni Unite n. 1338 del 26 gennaio 2004, malgrado abbia compiuto una semplificazione degli oneri probatori, non ha tuttavia escluso, a carico del ricorrente, il dovere primario di allegazione dell’esistenza del danno, della sua natura e dei fattori della sua causazione efficiente (Cass. 30 marzo 2005, n. 6714), è altresì vero, però, che, agli anzidetti fini dell’esplicazione degli elementi costitutivi della domanda, è poi sufficiente l’allegazione del pregiudizio non patrimoniale subito come conseguenza dell’irragionevole durata del processo, senza necessità che la parte istante indichi analiticamente in quali forme di sofferenza tale danno si sia concretato ed adduca specifici riferimenti alla sua situazione personale, ben potendo, con riguardo al danno di siffatta natura, reputarsi adeguata anche una richiesta di indennizzo avanzata con formulazione onnicomprensiva, suscettibile di essere intesa come relativa sia al danno "non patrimoniale" sia al danno "patrimoniale", fermo restando, peraltro, che, rispetto a quest’ultimo, il quale postula a carico della parte che agisce per il suo riconoscimento l’onere di dimostrare pienamente e rigorosamente il pregiudizio (patrimoniale appunto) lamentato (Cass. 26 aprile 2005, n. 8603), occorre l’ulteriore specificazione di tutti gli estremi, variabili da caso a caso, così da risultarne possibile l’individuazione sulla base del contesto complessivo dell’atto e da consentire alla controparte l’esercizio del diritto di difesa, a pena di incorrere, in difetto, nel vizio di mancata determinazione dell’oggetto della domanda o di omessa esposizione degli elementi di fatto su cui la domanda stessa si fonda (Cass. 16 ottobre 2003, n. 15475; Cass. 8 luglio 2005, n. 14379; Cass. 14 ottobre 2005, n. 19999);
c) in tema, infatti, di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, il danno non patrimoniale riferibile all’afflizione causata dall’esorbitante attesa della decisione, ovvero al patema d’animo, all’ansia ed alla sofferenza morale che costituiscono "ricadute" presenti secondo l’id quod plerumque accidit essendo fisiologico che l’anomala lunghezza di un processo le produca in capo alla parte che vi è coinvolta, è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo di cui all’ art. 6 della Convenzione europea, onde, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme dell’indicata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale, il quale non può essere negato alla persona che ha visto leso il proprio diritto alla durata anzidetta, ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (come nell’ipotesi, esemplificativamente, di piena consapevolezza, ad opera della parte, della inammissibilità o infondatezza delle proprie istanze e, comunque, in tutte le ipotesi nelle quali il protrarsi del giudizio risponde ad uno specifico interesse della parte stessa o è destinato a produrre conseguenze che detta parte percepisca a sé favorevoli), una simile lettura della norma interna, oltre che ricavabile dalla ratio giustificativa collegata alla sua introduzione, particolarmente emergente dai lavori preparatori, essendo imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (alla cui stregua il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata la riferita violazione dell’ art. 6, viene normalmente liquidato alla vittima senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, ancorché in via presuntiva), così evitandosi i dubbi di contrasto con la Costituzione italiana, la quale, con specifica enunciazione contenuta nell’art. 111 Cost., tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dalla norma convenzionale, senza che, del resto, l’indennizzo corrispondente possa essere escluso sul rilievo della "modestia" della posta in gioco nel processo presupposto, atteso che l’entità della posta medesima non è suscettibile di impedire il riconoscimento del danno non patrimoniale, nel senso che l’ansia ed il patema d’animo conseguenti alla pendenza del giudizio in cui si è realizzato il mancato rispetto del termine ragionevole si verificano normalmente anche nei processi nei quali la posta anzidetta sia esigua, onde tale aspetto può avere (semmai) solo un effetto riduttivo dell’entità della riparazione, ma non escluderla del tutto, rilevando, cioè, semplicemente ai fini della concreta determinazione della misura di quest’ultima (Cass. Sezioni Unite 26 gennaio 2004, n. 1338 e n. 1339; Cass. 5 agosto 2004, n. 15093; Cass. 16 febbraio 2005, n. 3118; Cass.5 aprile 2005, n. 7088; Cass. 30 maggio 2005, n. 11364; Cass. 27 giugno 2005, n. 13754).
Il ricorso, pertanto, merita accoglimento, onde il decreto impugnato deve essere cassato in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche ai fini delle spese dei giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Perugia in diversa composizione, affinché detto Giudice provveda a decidere la controversia demandata alla sua cognizione facendo applicazione dei principi sopra enunciati.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Perugia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 21 aprile 2006.
Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2006