1. – C.G. adiva la Corte d’appello di Firenze, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per ottenere la condanna della Presidenza del Consiglio dei ministri alla corresponsione dell’ equa riparazione in relazione ai pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, derivati dal superamento del termine ragionevole di durata di un giudizio pensionistico di guerra, svoltosi dinanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale dell’Umbria, iniziato dal proprio defunto padre ( C.E.), dopo la sua morte riassunto dalla propria madre ( I.I.) e dopo il decesso anche di quest’ultima portato alla conclusione dallo stesso ricorrente.
Tale processo aveva avuto inizio con ricorso depositato in data 23 ottobre 1979 ed era terminato in primo grado con sentenza del 7 ottobre 1999, ed in grado d’appello, dinanzi alla sezione giurisdizionale centrale della Corte dei conti, era stato definito con sentenza dell’8 gennaio 2002.
2. – La Corte d’appello di Firenze, con decreto depositato il 26 gennaio 2003, condannava la resistente Presidenza del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di euro 16.180,00, oltre accessori, e delle spese legali, 2.1. – La Corte territoriale ravvisava la denunciata violazione della ragionevole durata del processo in pruno grado, protrattosi per venti anni, laddove il termine ragionevole di definizione di un procedimento del genere di quello svoltosi doveva considerarsi di tre anni.
Escluso il danno patrimoniale per assunti esborsi per spese legali in quanto non provato e comunque non riferito a prestazioni professionali necessitate dalla durata eccessiva del giudizio, la Corte d’appello riconosceva il danno morale, sul rilievo che esso, quandanche maturato in capo ai danti causa del ricorrente, era stato trasmesso a quest’ultimo iure hereditatis. Al riguardo, la Corte di Firenze faceva applicazione dell’orientamento secondo cui è configurabile la trasmissione del diritto al risarcimento del danno morale tutte le volte in cui vi sia stato un apprezzabile intervallo di tempo tra la lesione, ossia tra il fatto illecito che l’ha determinata, e la morte.
3. – Avverso il decreto della Corte d’appello, la Presidenza del Consiglio dei ministri, con atto notificato il 20 settembre 2003, ha interposto ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi di censura.
L’intimato ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 25 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, numero 2), la Presidenza del Consiglio dei Ministri rileva che non vi sarebbe alcun criterio di collegamento tale da giustificare la competenza dell’adita Corte d’appello di Firenze. Essendo inapplicabile la L. 24 marzo 2001, n. 39, art. 3 (il quale, per il suo carattere derogatorio rispetto alle regole ordinarie di competenza, si riferirebbe esclusivamente ai processi svoltisi dinanzi ai giudici ordinari), la competenza andava determinata secondo i criteri ordinari che individuano il giudice competente nei giudizi in cui e convenuta una amministrazione dello Stato (art. 25 cod. proc. civ.), alla stregua dei quali sarebbe competente la Corte d’appello nel distretto della quale si trova il luogo in cui è sorta l’obbligazione (Perugia, dinanzi alla sezione giurisdizionale dell’Umbria essendosi svolto il giudizio connotato da durata eccessiva) o deve eseguirsi l’obbligazione (Roma, avendo qui sede l’ufficio di tesoreria competente ad effettuare il pagamento in base alle regole di contabilità di Stato).
2. – Il motivo è inammissibile.
L’eccezione di incompetenza territoriale della corte d’appello – alla quale l’interessato abbia proposto, con ricorso, la domanda di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3 – non può essere proposta per la prima volta in Cassazione. La questione di competenza, per assumere rilevanza, deve manifestarsi, su rilievo d’ufficio o su eccezione di parte, nel corso del procedimento dinanzi alla corte d’appello, di talchà non è ammissibile impugnare per cassazione il decreto conclusivo prospettando una ragione di incompetenza precedentemente non emersa.
3. – Con il secondo mezzo (violazione e falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, artt. 2 e 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, numero 3), la ricorrente Presidenza del Consiglio dei ministri censura il decreto impugnato nella parte in cui ha riconosciuto la trasmissibilità del diritto al risarcimento del danno iure hereditatis, affermando, dunque, implicitamente le legittimazione attiva di C.G..
Premesso che costui ha proseguito il giudizio soltanto in appello, mentre in primo grado – dove vi è stata la violazione del termine di durata ragionevole – il processo è stato iniziato dal padre ( C.E., deceduto nel (OMISSIS)), e riassunto dalla madre ( I.I., a sua volta deceduta nel (OMISSIS)), la Presidenza del Consiglio ritiene inapplicabile al caso la giurisprudenza, evocata nel decreto impugnato, sulla trasmissibilità del diritto al risarcimento del danno biologico, ed osserva che il diritto all’equa riparazione non era in realtà ancora entrato a far parte del patrimonio di C.E. e di I.I., risalendo il loro decesso a data anteriore all’entrata in vigore della "legge Pinto" (che ha creato, innovativamente, tale diritto), con conseguente intrasmissibilità all’erede, parte istante nel presente giudizio, di un diritto non ancora sorto.
Secondo la ricorrente, non può essere riconosciuto a posteriori e retroattivamente, un diritto creato ex novo dalla L. n. 89 del 2001.
4. – La doglianza è infondata.
Questa Corte – a Sezioni Unite (sentenza 23 dicembre 2005, n. 28507) -, superato l’orientamento secondo cui la fonte del diritto all’equa riparazione sarebbe ravvisabile nella sola normativa nazionale, ha affermato il principio che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con ciò escludendo che sia ipotizzabile una distinzione tra diritto ad un processo di ragionevole durata, introdotto dalla citata Convenzione, e diritto all’equa riparazione, introdotto solo con la L. n. 89 del 2001; e ne ha fatto derivare la conseguenza – che qui, dando continuità a quell’arresto, deve essere ribadita – secondo cui il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo verificatosi prima dell’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto, prima di tale data, il giudizio del quale si lamenta la non ragionevole durata (con il solo limite – nella specie non rilevante – che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e che questa si sia già pronunciata sulla sua ricevibilità).
5. – Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, numero 3), nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, numero 5).
L’equa riparazione sarebbe stata riconosciuta in assenza del benchè minimo riscontro probatorio in ordine alla sussistenza del danno nonchè del nesso di causalità tra la durata del processo ed il pregiudizio asseritamene subito. Secondo la difesa erariale, ai fini del riconoscimento dell’equa riparazione a titolo di danno non patrimoniale occorre la prova, in positivo, e sia pure per presunzioni, dei fatti costitutivi della pretesa. Per poter presumere in capo a chi sia parte di un giudizio pendente uno stato di sofferenza morale (cd. patema d’animo), non basta semplicemente che il giudizio penda, ma è altresì necessario valutare quali siano le oggettive caratteristiche di quel giudizio, per poi apprezzare se esso possa avere determinato nella parte interessata alla sua sollecita definizione pregiudizi di carattere non patrimoniale. Nei giudizi in , cui si avanzano pretese di carattere esclusivamente patrimoniale, dove il tempo trascorso è compensato dalla naturale fruttuosità del denaro, non sarebbe ipotizzabile in capo a chi attenda di vedere riconosciuto il proprio diritto una ragionevole inquietudine che costituisca danno morale risarcibile. E l’onere probatorio della parte danneggiata – osserva conclusivamente l’Avvocatura – rimane integro anche per le ipotesi di liquidazione in via equitativa del danno risarcibile.
6. – Il motivo è infondato.
Per orientamento ormai costante di questa Corte, dopo l’intervento delle Sezioni Unite (sentenze n. 1338 e n. 1339 del 26 gennaio 2004), il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di ordine psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca a chi ne è titolare; sicchè, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, una volta accertata quest’ultima deve, invece, considerarsi di regola in re ipsa. la prova dal relativo pregiudizio, che il giudice deve quindi ritenere esistente, a meno che non constino, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che il danno in questione sia stato subito dal ricorrente (cfr., dopo l’intervento risolutore delle Sezioni Unite, ex multis, Sez. 1^, 5 agosto 2004, n. 15093, Sez. 1^, 3 ottobre 2005, n. 19288;
Sez. 1^, 22 settembre 2005, n. 18650; Sez. 1^, 4 novembre 2005, n. 21391).
A tale principio, che il Collegio condivide e fa proprio, la Corte d’appello si è attenuta, non essendo stata dedotta nè evidenziata alcuna circostanza specifica dalla quale possa positivamente desumersi che l’irragionevole protrarsi del giudizio non abbia prodotto ai danti causa dell’attuale resistente il riconosciuto danno non patrimoniale.
7. – Il ricorso è rigettato.
Sussistono giustificati motivi per la compensazione delle spese del giudizio di legittimità, prospettando il ricorso per Cassazione, notificato nel settembre 2003, questioni (la legittimazione dell’erede e la prova del danno non patrimoniale) risolte nella giurisprudenza di questa Corte in senso sfavorevole alle conclusioni della parte ricorrente soltanto a seguito del successivo intervento delle Sezioni Unite (rispettivamente, gennaio 2004 e dicembre 2005).
 
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2006