P.S., con ricorso del 18/1/2002, adiva la Corte di appello di Perugia chiedendo che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrispondergli l’equa riparazione prevista dalla L. n. 89 del 2001 per la violazione dell’art. 6, sul "Diritto ad un processo equo", della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848.
Con decreto del 9/6-14/7/2003, l’adita Corte di appello, nel contraddittorio delle parti, condannava l’Amministrazione della Giustizia al pagamento in favore del P. della somma di Euro 6.916,00, con gli interessi legali dalla domanda. La Corte territoriale osservava e riteneva, tra l’altro:
– che il P. aveva riferito la domanda di equa riparazione al processo, introdotto con citazione del 16/111/1988, ancora pendente dinanzi alla Corte di appello di Roma, quale giudice del rinvio disposto da questa Corte, con sentenza del 29/1/1996;
– che la domanda, ancorchè in precedenza instaurata dinanzi alla Corte di Strasburgo, fosse proponibile di fronte al giudice nazionale, non avendo l’Amministrazione convenuta provato la ricorrenza della condizione impeditiva, costituita dalla declaratoria di ricevibilità da parte del giudice sopranazionale;
– che la responsabilità fatta valere in base alla L. n. 89 del 2001 prescindesse dalla colpa o dal dolo del giudice della causa affetta da ritardo;
– che sebbene il giudizio presupposto si fosse protratto per complessivi anni 15, mesi 2, giorni 24, la durata da indennizzare, espunti i periodi addebitabili alla parte, fosse stimabile in anni 6 e mesi 11;
– che, in assenza di ulteriore specifico pregiudizio subito o provato dal ricorrente, il danno non patrimoniale, derivante ex se dall’ingiustificato ritardo, fosse liquidabile, in via equitativa, in Euro 1.000,00 per ciascun anno eccedente la durata ragionevole come sopra determinata.
Avverso questo decreto il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a tre censure.
Il P. ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
A sostegno del ricorso, con il primo motivo l’Amministrazione della Giustizia deduce "art. 360 c.p.c., n. 3: Violazione di legge in relazione alla L. n. 89 del 2001, art. 3: Improponibilità della domanda in pendenza del grado di giudizio del processo cui si riferisce". Censura l’impugnato decreto sostenendo che con riferimento ai giudizi – quale quello di specie – in corso, la domanda di equa riparazione non sia proponibile prima della loro conclusione, atteso il riferimento alla pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 4, e, comunque, il contrasto di una diversa interpretazione con i principi fondamentali relativi alla precostituzione del giudice naturale (art. 25 Cost., comma 1) ed alla imparzialità del giudice (artt. 101, 102 e 104 Cost.); ciò sia in quanto il giudice del processo a quo, sfiduciato dalla parte che nel contempo ha proposto domanda di equa riparazione, dovrebbe astenersi e sarebbe suscettibile di ricusazione, e sia in quanto verrebbe evidentemente compromesso il valore dell’imparzialità del giudice, tutelato anche dalla stessa convenzione. Il motivo non ha pregio.
Secondo il condiviso orientamento di questa Corte (cass. 6187/2003) "Nella disposizione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, sull’equa riparazione del danno derivante dalla irragionevole durata dei processi, secondo cui la domanda di riparazione può essere proposta anche durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, l’espressione pendenza del procedimento non deve essere interpretata nel senso, restrittivo, che essa non sia comprensiva del grado di giudizio in cui si è manifestato il ritardo, di guisa che resti esclusa la proponibilità della domanda nel corso di quel grado a causa della violazione, in caso contrario, del principio del giudice naturale (art. 25 Cost.) conseguente alla possibilità, insita nel sistema, di una astensione o ricusazione di quel giudice", le quali è da escludere che possano prospettarsi come effetti necessitati dalla previsione contenuta nella medesima L. n. 89 del 2001, art. 4.
D’altra parte, la norma costituzionale, nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità – terzietà del giudice) ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, come ha affermato la Corte costituzionale (sentenze n. 387 del 1999 e n. 460 del 2005), il legislatore, con scelta non arbitraria in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, ha inteso garantire l’imparzialità – terzietà del giudice solo attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione (Cass. 7252/2004), che alcun rilievo attribuiscono al mero sospetto di reattività emotive.
Con il secondo motivo il Ministero della Giustizia deduce "art. 360 c.p.c., n. 3: Violazione di legge in relazione alla L. n. 89 del 2001, art. 6, comma 1. Inammissibilità della domanda in quanto priva del requisito di legge".
L’Amministrazione si duole che la Corte territoriale non abbia ritenuto l’inammissibilità della domanda di equa riparazione, sul rilievo che il ricorrente aveva omesso sia di indicare la data di proposizione del ricorso alla CEDU e sia di dimostrare l’assenza di pronuncia sulla ricevibilità del ricorso da parte del giudice sovranazionale.
La censura è inammissibile per difetto di interesse.
La Corte territoriale ha, infatti, accertato che il giudizio presupposto, sebbene iniziato il 16/111/1988, era ancora pendente all’atto della proposizione della domanda di equa riparazione, intervenuta il 18/1/2002, per cui, non trattandosi di situazione esaurita in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001, la domanda era proponibile in base all’art. 4 della medesima legge.
Come infatti, chiarito da questa Corte (tra le altre cass. 2005/19445) "La L. 24 marzo 2001, n. 89 è irretroattiva, mancando una norma che ne preveda espressamente l’applicabilità alle situazioni esaurite, salvo il limite risultante dall’art. 6 che, allo scopo di favorire la riduzione della pendenza dei ricorsi dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha esteso l’applicazione della legge alle situazioni esaurite relativamente alle quali, alla data di entrata in vigore della legge medesima, fosse stato promosso, ma non ancora dichiarato ricevibile, il giudizio dinanzi alla Corte europea. Poichè per situazione esaurita al momento dell’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 deve intendersi quella in cui si sia avuto il passaggio in giudicato della sentenza (o, comunque, la definitività della decisione) conclusiva del processo con tempi che si assumono irragionevoli, il diritto all’equa riparazione sicuramente compete per le fattispecie – quale quella di specie – che, alla data di entrata in vigore della L. n. 89 del 2001, debbano considerarsi non ancora esaurite e, così, tanto per l’ipotesi in cui a tale data non sia ancora intervenuta la conclusione del processo, quanto per l’ipotesi in cui a quella data non sia ancora decorso il termine di sei mesi di cui all’art. 4 della citata legge…".
Con il terzo motivo l’Amministrazione denunzia "art. 360 c.p.c., n. 3; Violazione di legge e dei principi di diritto L. n. 89 del 2001 e dell’art. 6 Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo. Art. 360 c.p.c., n. 5: Per errata e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della causa prospettato dalle parti.".
Contesta che il danno morale possa essere ritenuto sussistente in base i al mero riscontro della durata irragionevole del processo presupposto ed in difetto della relativa allegazione e prova, e comunque la congruità della operata liquidazione. La censura non è fondata per la parte relativa all’an dell’indennizzo Secondo, infatti, l’orientamento consolidato di questa Corte, a partire dalle sentenze 26 gennaio 2004, nn. 1339 e 1340, pronunciate a Sezioni unite, la durata irragionevole del processo arreca, normalmente, alle parti sofferenze di carattere psicologico sufficienti a giustificare la liquidazione di un danno non patrimoniale e, pertanto, una volta accertato che essa è stata "irragionevole", il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che un pregiudizio siffatto sia stato subito dal ricorrente, estranee al caso di specie (da ultimo cass. 2005/21857). Inoltre relativamente al danno non patrimoniale, consistito nella sofferenza psicologica di natura transitoria, ossia al cd. danno morale soggettivo, determinato dalla durata eccessiva del processo, è sufficiente la richiesta di equa riparazione del danno subito, e non è nemmeno necessario che la parte istante indichi analiticamente in quale forma di sofferenza esso si sia concretato ed adduca specifici riferimenti alla sua situazione personale (cass. 19999/2005, 2005/14379).
Il dispositivo dell’impugnato decreto deve pertanto sul punto ritenersi conforme al diritto (art. 384 c.p.c., comma 2), seppure erroneamente motivato con riferimento al pregiudizio non patrimoniale derivato ex se dall’ingiustificato ritardo. Per il profilo concernente la liquidazione del danno in argomento, la doglianza è, invece, inammissibile, attesa la genericità dei rilievi e comunque la non sindacabilità in sede di legittimità della liquidazione del danno non patrimoniale, consistente nell’ingiusto turbamento dello stato d’animo, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice del merito, nella specie anche coerenti con le note indicazioni del giudice sovranazionale.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
 
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Ministero della Giustizia a rimborsare a P.S. le spese del giudizio di Cassazione, spese che liquida nella complessiva somma di Euro 2.100,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2006