F.G. adiva la Corte d’appello di Napoli, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al Tar per la Campania con ricorso del 30 luglio 1994, avente ad oggetto il riconoscimento e la liquidazione del contributo economico previsto dalla L.R. Campania n. 11 del 1984, in favore delle famiglie che provvedono direttamente all’assistenza di soggetti non autosufficienti portatori di handicaps psico-fisici, definito con sentenza dell’15.5.02, e in secondo grado, con sentenza dell’8.5.2003.
Nel giudizio si costituiva la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendo il rigetto della domanda.
La Corte d’appello di Napoli, con decreto del 20.2.04, richiamando un orientamento di questa Corte, osservava che nel computo del termine di durata del giudizio non poteva tenersi conto del tempo anteriore alla cd. "istanza di prelievo", depositata il 22.5.1998. Pertanto, poichè il giudizio era stato definito, in primo grado, con sentenza del 15.5.2001, tenuto conto della natura e dell’oggetto del medesimo e della circostanza che la sentenza era stata pronunciata nei tre anni dall’istanza di prelievo, escludeva la denunciata violazione.
Analogamente, escludeva la violazione del termine di ragionevole durata in riferimento al giudizio di secondo grado, protrattosi per un anno e dieci mesi. La Corte d’appello rigettava, quindi, il ricorso, compensando tra le parti le spese del procedimento.
Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso F. G., affidato a sei motivi; ha resistito con controricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- La ricorrente, con il primo motivo, denuncia erronea e falsa applicazione di legge, in riferimento alla L. n. 89 del 2001, art. 2 e L. n. 1034 del 1971, art. 23, nonchè insufficiente e incongrua motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, peraltro è indicato anche l’art. 112 c.p.c.) nella parte in cui, secondo il decreto impugnato, al fine del calcolo della durata del giudizio, non deve tenersi conto del tempo maturato anteriormente al deposito della cd. istanza di prelievo, la cui presentazione è invece, a suo avviso, ex se sintomatica di un ritardo ascrivibile ad una disfunzione dell’apparato giudiziario.
Dunque, occorre avere riguardo esclusivamente all’istanza di fissazione dell’udienza ex L. n. 1034 del 1971, art. 23. Infatti l’istanza di prelievo non è prevista da alcuna norma; l’obbligo del Giudice amministrativo di decidere il ricorso sorge con il deposito della domanda ai sensi di detta norma e, quindi, erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che non debba tenersi conto della durata del giudizio maturata sino al deposito dell’istanza di prelievo.
Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia erronea e falsa applicazione di legge, in riferimento alla L. n. 89 del 2001, art. 2, e art. 6., p. 1 della CEDU ("violazione art. 360 c.p.c., n. 3 e 5"), in quanto la Corte territoriale ha erroneamente fissato in tre anni il periodo di ragionevole durata del processo in primo grado, senza considerare che va individuato per i processi civili ordinari in due anni per il primo grado, un anno e mezzo per il secondo ed un anno per il grado di legittimità, mentre per le cause di lavoro e previdenziali – cui sarebbe sostanzialmente riconducibile la controversia in esame – tenuto conto dei termini stabiliti dal codice di rito, dovrebbe ritenersi superato, per il primo grado, qualora il giudizio non sia stato definito dopo sei mesi dal deposito del ricorso introduttivo. A questo termine dovrebbe farsi riferimento anche per il giudizio presupposto, in considerazione "della maggiore essenzialità di queste procedure (silenzio rifiuto) anche rispetto a quelle di cui alla L. n. 533 del 1973" ed in quanto il processo amministrativo è strutturato in modo da essere svolto in un termine anche più breve di quello civile.
Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di legge, motivazione incongrua ed insufficiente su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5; L. n. 89 del 2001, artt. 2, 3, 4; art. 6, p. 1, CEDU), (art. 360 c.p.c., n. 5), dolendosi che erroneamente il decreto ha ritenuto che il processo presupposto non incide su questioni di particolare rilievo morale e sociale, dato che esso riguarda prestazioni per l’assistenza a persone disabili e, comunque, anche ritenendo che la posta in gioco sia esigua – situazione neppure sussistente – ciò avrebbe potuto incidere sull’entità della somma da liquidare, giammai far escludere la sussistenza del diritto.
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia "violazione e falsa applicazione di L. n. 1034 del 1971, e succ. mod. art. 360 c.p.c., n. 3 e 5 c.p.c.", sostenendo che nel computo della durata del giudizio avrebbe dovuto farsi riferimento anche alla fase stragiudiziale relativa alla costituzione in mora della P.A., in quanto fase prodromica necessaria per l’instaurazione del giudizio innanzi al Tar.
Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia "erronea e falsa applicazione di legge, art. 360 c.p.c., n. 3 e violazione art. 6 p. 1" della CEDU, nonchè "contrasti con la normativa e giurisprudenza europea" e "motivazione incongrua e contrastante con gli indirizzi giurisprudenziali comunitari, art. 360 c.p.c., n. 5, artt. 132 e 112 c.p.c.", deducendo che il Giudice nazionale è vincolato dai principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare da quelli contenuti "in alcune recenti sentenze tutte del 10.11.2004" e, quindi: a) deve ritenere che il danno non patrimoniale sussista sempre, una volta accertata la irragionevole durata del giudizio; b) deve liquidare il danno avendo riguardo all’intera durata del giudizio e non solo alla parte eccedente il termine ragionevole; c) deve liquidare, a titolo di danno non patrimoniale, la somma di Euro 1.500,00 per ogni anno di durata del giudizio; d) deve individuare il termine medio di durata del giudizio in materia di lavoro in quello di due anni per il primo grado, un anno e mezzo per il secondo grado ed un anno par il grado di legittimità e, in relazione alla causa de qua, in sei mesi per il primo grado; e) deve liquidare, a titolo di danno non patrimoniale, la somma di Euro 1.500,00 per ciascun anno di durata del giudizio, oltre "Euro 2.000,00, trattandosi di causa previdenziale".
La ricorrente con il sesto motivo, denuncia "violazione e falsa applicazione di legge art. 6 par. 1 Conv. Europea Diritti Uomo.
Violazione L. n. 89 del 2001", deducendo che le Sezioni Unite, con le sentenze n. 1338, n. 1339, n. 1340 e n. 1341 del 2004, hanno affermato che il danno non patrimoniale deve ritenersi presunto e va liquidato in una misura che deve essere rapportata a quella liquidata dal Giudice europeo in casi simili. A suo avviso, la CEDU, le sentenze della Corte europea e le norme comunitarie sono direttamente applicabili nel nostro ordinamento, sono sovraordinate rispetto alle norme nazionali e quindi vincolano il Giudice italiano ed i principi ricavabili da detto complesso di atti vanno applicati anche nel caso in esame.
2.- In linea preliminare, va rilevato che la mancanza del fascicolo d’ufficio della fase di merito, nonostante il rituale deposito da parte del ricorrente dell’istanza ex art. 369 cod. proc. civ., è irrilevante, stante la non indispensabilità del medesimo al fine della decisione (Cass., n. 10857 del 2003, in motivazione; cfr., anche Cass., n. 15996 del 2003; n. 3852 del 2002, sia pure in riferimento al caso di mancanza conseguente dall’omesso deposito dell’istanza dell’art. 369 cod. proc. civ.).
3.- Il primo ed il secondo, da esaminare congiuntamente, in quanto logicamente e giuridicamente connessi sono in parte fondati e vanno accolti per quanto di ragione, entro i limiti di seguito precisati.
Le censure pongono le seguenti questioni: a) la prima richiede di stabilire se, nei giudizi amministrativi instaurati prima della L. n. 205 del 2000, il ritardo riferibile all’organo di giustizia e la connessa insorgenza del diritto ad equa riparazione sia configurabile soltanto dalla data del deposito della cd. istanza di prelievo; b) la seconda concerne l’individuazione del termine di ragionevole durata del processo.
Relativamente alla questione sub a), le Sezioni Unite, con la sentenza n. 28507 del 2005, componendo un contrasto emerso nella giurisprudenza di questa Corte, hanno affermato, in adesione all’indirizzo espresso dalla Corte di Strasburgo, che "la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo va riscontrata, anche per le cause proposte davanti al Giudice amministrativo, con riferimento al periodo di tempo decorso dall’instaurazione del procedimento, senza che su di esso possa incidere la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo". La sentenza ha precisato "che la presenza di strumenti sollecitatori non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento dell’entità del lamentato pregiudizio".
Il decreto impugnato in contrasto con questa interpretazione, che merita adesione e va ribadita, ha invece ritenuto che, al fine del computo del termine di ragionevole durata, possa essere preso in considerazione soltanto il tempo decorrente dal deposito della cd.
istanza di prelievo la cui mancata presentazione, in virtù del succitato principio, non può influire sul calcolo dei termini del processo, ma può costituire oggetto di valutazione nei termini sopra precisati. Il decreto, in questa parte, non è, quindi, immune dalla censura svolta con il ricorso.
In ordine alla questione sub b) occorre osservare che è erronea la tesi dell’istante nella parte in cui sostiene la possibilità di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato, identificato nella specie, con argomentazioni talora anche scarsamente chiare, in quello di sei mesi dal deposito del ricorso.
La nozione di ragionevole durata del processo, come questa Corte ha più volte precisato, non ha carattere assoluto, bensì relativo, e non si presta ad una determinazione in termini assoluti, poichè è condizionata da parametri fattuali strettamente legati alla singola fattispecie, che impediscono di fissarla facendo riferimento a cadenze temporali rigide. La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone, infatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma la quale, stabilendo che il Giudice deve accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del Giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, impone di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare (ex plurimis, Cass., n. 25008 del 2005; n. 21391 del 2005;
n. 1094 del 2005; n. 6856 del 2004; n. 4207 del 2004).
In tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98), tenuto conto del dovere del Giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, di interpretarla in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal suo testo e sempre che un eventuale contrasto tra le norme della stessa e la CEDU non ponga una questione di conformità della stessa con la Costituzione, ovvero non ne sia possibile un’interpretazione adeguatrice alla Carta fondamentale (Sez. un., n. 1338 del 2004; n. 1340 del 2004). Dall’interpretazione del Giudice europeo è, quindi, possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004; in seguito, tra le molte, Cass., n. 18686 del 2005).
Nella specie, la constatazione che la Corte di Strasburgo ha già esaminato un caso concernente proprio un giudizio innanzi al Tar avente ad oggetto il contributo previsto dalla L.R. Campania n. 11 del 1984 impone, in virtù di detti principi, di avere riguardo alla relativa pronuncia (sentenza del 5 ottobre 2000, sul ricorso n. 33804/96), facendo quindi applicazione dei criteri stabiliti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2. Peraltro, contrariamente alla deduzione svolta dall’istante, diretta a valorizzare al fine dell’individuazione del termine un processo ritenuto simile a quello in esame, quale quello del lavoro e di previdenza, e la rilevanza dei termini previsti dal codice di rito, va ricordato che, secondo l’orientamento di questa Corte, la violazione del principio della ragionevole durata del processo non può discendere in modo automatico dalla accertata inosservanza degli stessi, dovendo in ogni caso il Giudice della riparazione procedere a tale valutazione alla luce degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (Cass., 19352 del 2005; n. 6856 del 2004).
4.- Il terzo, quinto e sesto motivo sono inammissibili nelle censure che hanno carattere autonomo e non costituiscono mera reiterazione delle doglianze svolte nei primi due mezzi in ordine al termine di durata e sopra già esaminate.
La Corte territoriale ha infatti negato il diritto all’equa riparazione, in quanto ha escluso – sia pure inesattamente, per quanto sopra precisato – la violazione del termine di ragionevole durata del processo, condizione necessaria per riconoscerne la sussistenza, e, conseguentemente, non ha affrontato il profilo dei presupposti per la sussistenza del danno e dei criteri concernenti la relativa quantificazione. Pertanto, i motivi in esame non sono conferenti, poichè il decreto impugnato non ha reso alcuna pronuncia sul punto e, quindi, la censure priva di specifica attinenza al decisum devono ritenersi inammissibili (Cass., n. 21490 del 2005; n. 3612 del 2004), salvo restando il potere-dovere del giudice di rinvio di procedere al corretto accertamento in alla fondatezza della domanda ed alla misura dell’eventuale riparazione dopo avere accertato la sussistenza, e la misura, della violazione del termine ragionevole di durata del giudizio.
5.- Il quarto motivo è infondato.
Questa Corte ha già affermato che l’art. 6 p. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, richiamata dalla L. n. 89 del 2001, stabilendo che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, fa chiaro ed esclusivo riferimento all’esercizio della funzione giurisdizionale e non permette di tenere conto, come la parte vorrebbe, anche del procedimento di carattere meramente amministrativo, quantunque abbia avuto ad oggetto la stessa pretesa poi fatta valere in via giurisdizionale (Cass., n. 483 del 2004).
Inoltre, come è stato sottolineato in riferimento ad un giudizio avente natura ed oggetto diversi, ma con argomentazione che conserva piena validità nella fattispecie in esame, quando "la preventiva proposizione della domanda amministrativa costituisce (…) un presupposto dell’azione giudiziaria, ma non appartiene al processo, nè contribuisce alla definizione di questo, essendo invece preordinata a verificare la possibilità di comporre in sede amministrativa la pretesa" – ovvero, può aggiungersi è comunque pregiudiziale rispetto alla instaurazione del giudizio – la relativa fase non appartiene al processo (Cass., n. 5386 del 2004) e di essa non può tenersi conto ai fini del computo della ragionevole durata del processo.
In conclusione, l’accoglimento del ricorso – nei termini e nei limiti sopra precisati – comporta la cassazione, in relazione, del decreto impugnato ed il giudizio deve proseguire in fase di rinvio, dato che, alla luce dei criteri dinanzi evidenziati, si rendono necessari ulteriori accertamenti circa i fatti influenti al fine del riscontro del superamento del termine di ragionevole durata e della sua puntuale individuazione, con i connessi riflessi sulla domanda d’indennizzo.
Il Giudice di rinvio, da designarsi nella stessa Corte d’Appello in altra composizione, procederà al riesame della causa, attenendosi ai principi sopra enunciati, provvedendo anche sulle spese di questa fase processuale.

P.Q.M.
La Corte rigetta il quarto motivo, dichiara inammissibili il terzo, quinto e sesto motivo del ricorso, accoglie per quanto di ragione i primi due motivi, cassa in relazione il decreto impugnato, e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2006.
Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2006