T.N., con atto 15.4.2003, ha proposto ricorso innanzi alla Corte d’appello di Roma chiedendo che fosse accertata la violazione del termine di ragionevole durata del processo, promosso innanzi alla Corte dei Conti con atto del 13.1.79 e definito con sentenza del 3.10.200, e quindi che la Presidenza del Consiglio dei Ministri fosse condannata ad indennizzarlo dei conseguenti asseriti danni patrimoniali e non patrimoniali.
Radicatosi il contraddittorio, la Corte territoriale adita, con decreto depositato il 3.11.2003, facendo decorrere il termine per il riconoscimento dell’indennizzo dalla data del 20.1.294 in cui era stata depositata dal ricorrente istanza di sollecito, ha stimato nel merito che la causa, la cui trattazione si è protratta per ben 21 anni, avrebbe dovuto avare la durata di 6 anni, e che il ritardo ingiustificato era stato di soli 2 anni, non imputabile nè alle parti nè a specifiche negligente dell’organo giudicante, ma comunque suscettibile di equa riparazione.
Ha quindi liquidato il solo danno non patrimoniale con criterio equitativo, nella somma complessiva di Euro 500,00, oltre interessi legali, escludendo invece il pregiudizio di natura patrimoniale, siccome nè specificato nè provato.
L’istante ricorre ora per la cassazione di questo decreto articolando quattro mezzi d’impugnazione.
La Presidenza del Consiglio intimata ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorrente, denunciando col primo motivo violazione e/o falsa applicazione della L. del 23 aprile 2001, n. 89, art. 2 e dell’ art. 6 delle CEDU, con riferimento alla consolidata giurisprudenza della Corte europea in materia di liquidazione del danno non patrimoniale, lamenta che la Corte territoriale ha provveduto sul punto In misura inadeguata, avendo concesso un ristoro non effettivo, ancorato al valore della controversia, che si discosta dai parametri elaborati nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, alla quale la giurisprudenza interna e tenuta ad uniformarsi.
Cita a sostegno della sua critica la decisione della CEDU del 27 marzo 2003 sul ricorso Scordino c. l’Italia, che ha affermato l’obbligo delle giurisdizioni nazionali, discendente dal principio di sussidiarietà, d’interpretare ed applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione anche in ordine alla quantificazione dell’equa riparazione.
Col secondo motivo, deducendo violazione degli artt. 6 e 11 del Prot.
N. 11 della salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e della norma nazionale già citata, sostiene che la Corte territoriale ha erroneamente computato la durata ragionevole del processo a far tempo dalla data del deposito dell’istanza di sollecito, di cui non avrebbe invece tener conto.
Col terzo mezzo, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e degli artt. 2056 e 1226 c.c., sostiene che la Corte di merito ha quantificato l’indennizzo dovuto in relazione al periodo di durata non giustificata in maniera inadeguata, senza rispettare le tabelle di raffronto che pur erano state prodotte.
Col quarto motivo infine, denunciando violazione e falsa applicazione di tutte le norme già sopra citate, deduce che la liquidazione del danno in misura così irrisoria equivale a denegata giustizia, e viola i criteri di liquidazione elaborati dalla giurisprudenza CEDU, formatasi in materia.
L’intimata resiste deducendo l’infondatezza dei motivi.
Il secondo motivo, che merita di essere esaminato con precedenza in ragione della sua priorità logica, appare fondato.
La Corte di merito, avendo attribuito a negligenza del ricorrente l’omessa presentazione dell’istanza di "sollecito", ha computato il periodo utile ai fini della valutazione del comportamento dell’organo di giustizia e quindi dello scrutinio della ragionevolezza della durata del processo, dal 20.12.94, data del deposito della suddetta istanza. Nè ha tratto il corollario che, siccome il processo avrebbe dovuto concludersi nel 1998, la durata rilevante ai fini dell’equa riparazione è di soli anni due.
Questa decisione appare errata.
La norma contenuta nella L. 14 gennaio 1994, n. 19 art. 6, prevede che lo spirare del termine perentorio semestrale per l’istanza di prosecuzione del giudizio pensionistico senza che la parte ricorrente abbia presentato l’atto suddetto determina l’estinzione del giudizio (cfr. Corte dei Conti – giur. Liguria n. 94/2002); siffatto effetto di perenzione opera nel medesimo senso previsto, nel sistema vigente prima della riforma introdotta con la L. n. 205 del 2000, in relazione all’omessa presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza nei due anni dal deposito del ricorso proposto innanzi al giudice amministrativo.
Tale onere d’impulso, nondimeno, non interferisce sul dovere dell’organo di giustizia adito di provvedere in un tempo che deve essere scrutinato nella sua ragionevolezza a partire sin dal momento iniziale d’introduzione del giudizio.
L’ordinamento peraltro non prevede che alcun obbligo a carico del ricorrente, sanzionabile in termini di supposta negligenza, di presentare, al di fuori del caso di cui si è detto, istanze di "sollecito" per imprimere un’accelerazione ai tempi del processo,che dipendono piuttosto dall’organizzazione degli uffici giudizi ari che dovrebbe garantire assorbimento del carico di lavoro in tempi sufficienti rapidi.
Sebbene non sia stata esaminata specificamente, l’ipotesi presenta invero contorni di affinità con la questione relativa alla rilevanza nella materia de qua della presentazione dell’istanza di prelievo nel processo amministrativo, e può essere perciò risolta alla stregua del principio che è stato enunciato in proposito da questa S.C. con la recente pronuncia delle SS.UU. n. 28507/2005, con cui si è preso atto della prevalenza della costruzione esegetica, affermatasi nella giurisprudenza prevalente, secondo cui, per le cause proposte davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo di tempo decorso dall’instaurazione del procedimento, non incide la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo, poichè la presenza di strumenti sollecitatori non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per la definizione del giudizio salva restando la valutazione del comportamento della parte, ma al solo fine dell’apprezzamento dell’entità del lamentato pregiudizio.
Il giudice del merito nella specie non ha applicato tale principio non avendo tenuto conto, nel computo della durata ragionevole del processo, anche del periodo antecedente all’istanza di prosecuzione del giudizio.
Anche i restanti tre motivi, i quali sono connessi logicamente e possono essere esaminati congiuntamente, appaiono fondati.
La Corte di merito ha liquidato il danno non patrimoniale equitativamente in Euro 500,00 tenuto conto anche della negligenza del ricorrente al quale va imputata principalmente la causa del ritardo.
La censura in esame ai dirige contro questo approdo censurandolo puntualmente in parte qua sotto plurimi profili, e quindi merita accoglimento.
Articolandosi in una critica corretta nella sua impostazione, che richiama l’enunciato, espresso sia nei precedenti citati della Corte di Strasburgo che nelle pronunce di questa Corte succitate, essa contesta la determinazione del quantum del pregiudizio liquidato dalla Corte di merito che ha consumato disapplicazione dei criteri di determinazione applicati in sede europea che, nella giurisprudenza ormai consolidata di questa S.C., affermatosi sul solco dei principi enunciati nelle pronunce dalle SS.UU. n. 1338 – 1339 – 1340 e 1341 del 26.1.2004 e n. 15093 del 5 agosto 2004, devono essere osservati in senso sostanziale, uniformandosi ad essi in linea di massima.
Il valore di precedente delle decisioni della Corte di Strasburgo opera infatti come guida ermeneutica, vincolando il giudice nazionale, che non può disattenderle, salvo, beninteso, il suo potere di escludere del tutto il danno, ovvero di discostarsi dai canoni elaborati in sede europea, ma in termini ragionevoli, se, tenendo conto delle peculiarità della singola concreta fattispecie portata al suo esame, ravvisi elementi concreti di positiva smentita incidenti sull’"an" ovvero sul "quantum", di cui però deve dar conto specificamente (cfr. per tutte Cass. nn. 8852/2005, 8600/05, 15093/2005).
Nella specie emergono sia l’inadeguatezza della liquidazione in termini di irragionevole divario rispetto ai criteri CEDU, sia l’assenza di una motivazione che ne abbia dato adeguata spiegazione.
In questa prospettiva, anche alla luce del principio enunciato il relazione al secondo motivo, la pronuncia deve essere cassata.
Gli atti devono rinviati alla Corte d’appello di Roma in altra composizione che provvederà anche sul governo delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la pronuncia impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in altra composizione anche per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2006