M.M., con ricorso del 13 maggio 2003, deducendo di aver subito danno per l’eccessiva durata di un giudizio in materia pensionistica promosso con atto del 27 febbraio 1986, definito dalla Sezione giurisdizionale dell’Umbria della Corte dei conti con sentenza dell’1.8.2002, chiedeva alla Corte d’appello di Firenze la condanna della Presidenza del Consiglio dei ministri al pagamento di un’equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2.
Resisteva alla domanda la convenuta.
La Corte d’appello di Firenze, con decreto del 6 novembre 2003, osservava che il giudizio presupposto era stato definito con sentenza del 1 agosto 2002 quindi il ricorso era stato proposto oltre il termine di sei mesi dalla data in cui la decisione era divenuta "definitiva" (L. n. 89 del 2001, art. 4). Secondo il decreto, la locuzione "decisione definitiva" "non coincide con quella di sentenza passata in giudicato" ed "in base al combinato disposto degli articoli 111 Cost., comma 7, e art. 362 c.p.c., comma 1, nei confronti della Corte dei conti è rimasto in vigore il limite dell’impugnazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione".
Inoltre, in pendenza del termine dell’impugnazione, spetta al "giudice di altra causa verificare incidenter tantum che la decisione sia passata in giudicato, per essere le parti carenti di interesse ad impugnarla" e, nella specie, l’impugnazione per motivi concernenti la giurisdizione, l’unica ammissibile, neppure sarebbe stata proponibile, "perchè la Sezione giurisdizionale Regionale dell’Umbria della Corte dei Conti ha respinto la domanda".
Il decreto concludeva dichiarando inammissibile il ricorso, in quanto proposto "oltre il termine semestrale dalla data di pubblicazione della sentenza con la quale la Sezione giurisdizionale Regionale dell’Umbria della Corte dei conti ha respinto la domanda proposta dalla ricorrente, definendo il procedimento", condannando l’istante alle spese del giudizio.
Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso M. M., affidato a quattro motivi; la Presidenza del Consiglio dei ministri ha depositato "atto di costituzione".

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- L’istante, con il primo motivo, denuncia violazione di legge (L. n. 19 del 1994, art. 1; D.L. n. 543 del 1996, art. 1, convertito nella L. n. 639 del 1996), deducendo che il giudice ha erroneamente omesso di accertare la definitività della sentenza resa nel giudizio presupposto in riferimento alle norme che disciplinano il giudizio innanzi alla Corte dei conti, malamente ritenendo che la sentenza pronunciata dalla sezione giurisdizionale regionale di detta Corte sia impugnabile esclusivamente per motivi inerenti alla giurisdizione.
Le norme sopra richiamate hanno infatti istituito le sezioni centrali della Corte dei conti che giudicano sull’appello avverso le sentenze rese dalle Sezioni giurisdizionali regionali che, in materia di pensioni, è proponibile entro il termine di sessanta giorni dalla notifica della decisione, ovvero, in mancanza di notifica, entro il termine lungo di un anno e 46 giorni dalla data della pubblicazione.
L’appello può essere proposto per motivi di diritto, e cioè per la violazione di norme sostanziali e processuali, anche per vizi relativi alla motivazione, sicchè la sentenza resa nel giudizio presupposto non poteva ritenersi passata in giudicato, ovvero definitiva, come è comprovato da numerosi casi – espressamente indicati – nei quali il giudice contabile ha accolto la domanda in sede di appello, essendo peraltro la pronuncia anche suscettibile di revocazione da parte del giudice che l’ha pronunciata.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge ( R.D. n. 1214 del 1934, art. 68; R.D. n. 1038 del 1933, artt. 106 ss.) in riferimento ai mezzi di impugnazione proponibili avverso le sentenze della sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti. La sentenza pronunciata da detto organo giurisdizionale è suscettibile di revocazione entro tre anni dal deposito (ovvero, secondo un indirizzo, dalla notificazione) ed è questo un mezzo di impugnazione configurabile quale "revocazione ordinaria", siccome proponibile anche per un "vizio del ragionamento rispetto ad un fatto in ordine al quale non era sorta controversia", oppure qualora la pronuncia contrasti con altra resa tra le stesse parti, avente autorità di giudicato. Pertanto, poichè la sentenza è stata pubblicata il 1 agosto 2002, è divenuta definitiva il 30 ottobre 2003, e cioè in data successiva a quella della proposizione della domanda di equi riparazione, senza considerare che – indipendentemente dalla circostanza che la sentenza era appellabile, come peraltro è accaduto – secondo l’interpretazione meno rigorosa, il termine di sei mesi della L. n. 89 del 2001, art. 4, decorreva dal 1 agosto 2005, in quanto sino a detto termine era suscettibile di revocazione ordinaria.
L’istante, con il terzo motivo, denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, deducendo che in data 9 settembre 2003 aveva anche proposto appello, sicchè alla data del decreto impugnato il giudizio presupposto era ancora in corso e, conseguentemente, la Corte territoriale ha malamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso, dato che non ha tenuto conto della disciplina concernente l’impugnazione delle sentenze della Corte dei conti, ha omesso di accertare se la sentenza fosse impugnabile anche per motivi deducibili con l’appello e si è limitata a delibare l’ammissibilità della deduzione di vizi relativi alla giurisdizione.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2 Cost., L. n. 89 del 2001, art. 2, artt. 6 e 41 della CEDU, sostenendo che le Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 1339 e n. 1340 del 2004) hanno affermato che il giudice nazionale deve interpretare le norme della Convenzione adeguandosi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il danno non patrimoniale costituisce conseguenza normale della violazione del termine di durata ragionevole del processo. Pertanto, una volta accertata l’infondatezza dell’eccezione di decadenza, dovrà procedersi alla liquidazione in suo favore della somma dovuta a titolo di equa riparazione.
2.- In linea preliminare va osservato che l’intimata ha depositato "atto di costituzione", non notificato alla ricorrente, che costituisce atto inidoneo a contraddire le tesi svolte nel ricorso, dato che la parte, qualora avesse inteso ciò fare avrebbe dovuto proporre controricorso da notificare alla ricorrente nei termini e nelle forme di cui dell’art. 370 c.p.c. (Cass. n. 1737 del 2005; n. 11160 del 2004).
Nel merito, i primi tre motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto logicamente e giuridicamente connessi, sono in parte fondati e devono essere accolti per quanto di ragione, entro i limiti di seguito precisati.
La L. n. 89 del 2001, art. 4 stabilisce che "la domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva".
Nell’interpretare detta norma questa Corte, con orientamento al quale va data continuità, ha affermato che il termine di decadenza semestrale non decorre dalla data del provvedimento conclusivo del processo della cui durata ci si dolga e neppure da quella in cui lo stesso è stato portato a conoscenza dell’interessato nelle forme eventualmente a ciò prescritte dall’ordinamento. Il termine decorre, invece, dalla data in cui il provvedimento conclusivo è divenuto definitivo ed il legislatore, con siffatta espressione, ha inteso fare riferimento al significato che nell’ordinamento è assegnato alla "definitività di un provvedimento giurisdizionale: vale a dire al fatto che quel provvedimento non sia più suscettibile di essere revocato, modificato o riformato dal medesimo giudice che lo ha emesso o da altro giudice chiamato a provvedere in un grado successivo" (Cass. n. 17261 del 2002; n. 19526 del 2004; v. anche Cass. n. 11231 del 2003; n. 13163 del 2004; n. 17818 del 2004; n. 21723 del 2005).
Pertanto, nel caso in cui la decisione sia emanata a conclusione non dell’intero procedimento, ma di una fase processuale intermedia, essa diviene "definitiva", nel senso richiesto dalla norma, soltanto dopo la scadenza dei termini stabiliti per la sua impugnazione. Il procedimento va dunque considerato pendente fino a quando la decisione è impugnabile e, conseguentemente, la domanda di equa riparazione è proponibile non entro sei mesi dal momento in cui la decisione è stata pronunziata, bensì entro sei mesi dalla data dalla quale non è più impugnabile (Cass. n. 13163 del 2004; v. anche Cass. n. 17818 del 2004). In altri termini, a prescindere dal caso in cui il provvedimento del giudice che pone formalmente termine al processo richieda un’ulteriore fase attuativa, allo scopo di permettere l’effettiva realizzazione del diritto la cui tutela era stata invocata, che qui non interessa, la definitività del provvedimento indica un concetto coincidente con quello di preclusione all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti in via ordinaria avverso quel tipo di provvedimento e, contrariamente a quanto sostenuto dall’istante, al succitato fine occorre avere riguardo alla proponibilità di detti mezzi. Al riguardo va peraltro ricordato che la distinzione tra impugnazione ordinaria e straordinaria è ancorata alla nozione di cosa giudicata formale e, come bene è stato osservato in dottrina, sono ordinari quei mezzi di impugnazione la cui esperibilità impedisce che la sentenza acquisti quel grado di stabilità che si definisce come cosa giudicata formale e che sono soggetti al termine annuale di decadenza, decorrente dalla pubblicazione della sentenza o ai termini cd. acceleratori decorrenti dalla notificazione della sentenza; straordinari sono invece i mezzi di impugnazione che sopravvivono alla cosa giudicata formale, non sono soggetti al termine annuale di decadenza e non sono soggetti ad alcun termine, ovvero sono soggetti a termini decorrenti dal giorno in cui la parte o il terzo ha avuto conoscenza del vizio.
Infine, come anche ha osservato questa Corte, l’accertamento del momento in cui la pronuncia è divenuta definitiva, nel senso e nei termini sopra richiamati, richiede evidentemente di avere riguardo alla disciplina del tipo di processo in cui si assume essersi verificata la violazione del termine ragionevole di durata (Cass. n. 7978 del 2005).
2.1.- Nel caso in esame la disciplina alla quale occorre avere riguardo è quella del processo pensionistico svoltosi innanzi ad una Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti, essendo appena il caso di rilevare che è ormai definitivamente fissata la competenza per territorio della Corte d’appello di Firenze, in quanto nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dal decreto, non sono stati sollevati rilievi sul punto, nè d’ufficio, nè ad opera della convenuta.
In particolare, per quanto qui interessa, occorre fare riferimento al D.L. 15 novembre 1993, n. 453, convertito nella L. 14 gennaio 1994, n. 19, nel testo modificato dal D.L. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito nella L. 20 dicembre 1996, n. 639 (non rilevano al fine in esame le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 113 del 2002, art. 1, comma 3, ed all’art. 5, nonchè a quest’ultima norma dal D.L. n. 201 del 2005) ed alla L. 21 luglio 2000, n. 205. Le riforme realizzate con questo complesso di norme hanno condotto all’istituzione in tutte le regioni di sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, ove non già esistenti, con circoscrizione estesa al territorio regionale, con sede nel capoluogo di regione. Le competenze in materia di contenzioso pensionistico devolute alla Corte dei conti sono state attribuite a dette sezioni giurisdizionali regionali che giudicano in composizione monocratica, avendo la L. n. 205 del 2000, art. 5, comma 1, stabilito che "in materia di ricorsi pensionistici, civili, militari e di guerra la Corte dei conti, in primo grado, giudica in composizione monocratica, attraverso un magistrato assegnato alla sezione giurisdizionale regionale competente per territorio, in funzione di giudice unico (salva la riserva di collegialità per i provvedimenti cautelari. Inoltre, è stata rimodulata la disciplina processuale (v. D.L. n. 453 del 1993, art. 6, nel testo risultante dalle modificazioni apportate dagli atti normativi sopra richiamati;
in questa sede non assumono rilevanza le disposizioni concernenti gli adempimenti necessari ad impedire l’estinzione dei giudizi pendenti), tra l’altro, anche rendendo applicabili alcune norme del codice di rito civile in tema di processo del lavoro (L. n. 205 del 2000, art. 5) e prevedendo l’ammissibilità della decisione in forma semplificata (art. 9, legge ult. cit.), che resta tuttavia soggetta alle impugnazioni concernenti le pronunce rese in forma ordinaria.
Il D.L. n. 453 del 1993, art. 1, comma 5, ha disposto che "avverso le sentenze delle sezioni giurisdizionali regionali, salvo quanto disposto in attuazione dell’ articolo 23 dello statuto della regione Sicilia, è ammesso l’appello alle sezioni giurisdizionali centrali".
Questa norma ha stabilito il principio dell’appellabilità della decisione, anche se resa in materia pensionistica, benchè abbia previsto che "nei giudizi in materia di pensioni l’appello è consentito per soli motivi di diritto", indicando quali questioni di fatto "quelle relative alla dipendenza di infermità, lesioni o morte da causa di servizio o di guerra e quelle relative alla classifica o all’aggravamento di infermità o lesioni". L’appello, detta il comma 5 bis, "è proponibile dalle parti o dal procuratore regionale competente per territorio o dal procuratore generale, entro sessanta giorni dalla notificazione p, comunque, entro un anno dalla pubblicazione" e la norma fissa anche le modalità del deposito, disponendo che la "facoltà attribuita dall’articolo 6 comma 4, si applica anche ai giudizi di appello in materia pensionistica e comprende il potere di proposizione del gravame" (l’art. 6, comma 4, ult. cit., riguarda la facoltà dell’Amministrazione di farsi rappresentare in giudizio da un proprio dirigente o da un funzionario appositamente delegato).
Questa disciplina aveva dato luogo ad un contrasto nella giurisprudenza della Corte dei conti in ordine all’individuazione dei limiti alla proponibilità dell’appello determinato dalla "ambiguità della norma e dalle difficoltà interpretative che ne sono derivate" (così, Corte dei Conti, Sez. Riun. 1 aprile 1998 n. 10/98/QM).
Sul contrasto sono intervenute le Sezioni Riunite della Corte dei conti che, con una prima pronuncia, hanno desunto i criteri ermeneutici per l’individuazione dei motivi di diritto facendo riferimento ai motivi di ricorso per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 (1 aprile 1998 n. 10/98/QM); una successiva sentenza delle stesse Sezioni Riunite ha ribadito la possibilità di fare utile riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, chiarendo che l’appello in materia pensionistica deve "investire la portata dispositiva di una norma giuridica e/o il suo ambito applicativo a fattispecie astratte" e può avere ad oggetto la denuncia di vizi "che comportino la nullità della sentenza o del processo". Questa seconda pronuncia ha tuttavia precisato che il vizio di cui al n. 5 di questa norma non concreta un "motivo di diritto", ritenendo che "i limiti dell’appello in materia di pensioni quando venga dedotto il vizio di motivazione su questioni di fatto sono quelli segnati dall’art. 111 Cost. e dal R.D. n. 11038 del 1933, artt. 21 e 22", chiarendo il significato delle "questioni di fatto" espressamente elencate nell’art. 1, comma 5, cit. (sentenza 24 ottobre 2000, n. 10/2000/QM).
La disciplina processuale così interpretata da quest’ultimo orientamento, che il Collegio condivide e fa proprio, dimostra che l’appello pensionistico, sotto alcuni profili, è assimilabile al ricorso per Cassazione del rito civile, dato che le Sezioni centrali della Corte dei conti, in riferimento a detta impugnazione, assumono la veste di giudici della legittimità, e, a seguito della abrogazione del R.D. n. 1038 del 1933, art. 105, comma 2, da parte della L. n. 205 del 2000, art. 10, comma 3, in caso di accoglimento dell’appello devono necessariamente decidere il merito dei giudizi, salvo limitati casi nei quali è ammissibile il rinvio della trattazione al primo giudice. Peraltro, è questa l’interpretazione sostanzialmente accolta anche dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, cit., in parte qua, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 Cost., escludendo il denunciato vulnus delle norme costituzionali, in quanto la regola del doppio grado della cognizione di merito non ha rango costituzionale (ord. n. 84 del 2003).
La conformazione così attribuita all’appello nei giudizi in materia pensionistica innanzi alla Corte dei conti non permette di negarne il carattere di impugnazione ordinaria. Questa configurazione non è infatti esclusa dalla circostanza che esso costituisce un mezzo di impugnazione a critica vincolata, dato che, come sopra è stato precisato, la distinzione tra impugnazione ordinaria e straordinaria è correlata alla nozione di cosa giudicata formale ed alla disciplina della modalità e del termine di impugnazione nei termini sopra precisati. Il D.L. n. 453 del 1993, art. 1, comma 5 bis, – nel testo risultante dalle modifiche introdotte dagli atti normativi sopra indicati – disponendo che l’appello è proponibile "entro sessanta giorni dalla notificazione o, comunque, entro un anno dalla pubblicazione" dimostra l’esistenza del carattere che ne conforta la configurazione quale mezzo di impugnazione ordinario, la cui esperibilità impedisce quindi che la decisione acquisisca la stabilità della cosa giudicata formale. Le norme esaminate, in difetto di esplicite previsioni contrarie ed in forza del principio dell’immediata applicazione della disposizioni processuali sopravvenute agli atti ancora da compiersi, riguardano anche le decisioni rese in giudizi in materia pensionistica pendenti alla data della loro entrata in vigore.
Nel quadro di questi principi, il decreto impugnato non è immune dal vizio denunciato.
Il giudizio in riferimento al quale è stata proposta la domanda ex L. n. 89 del 2001 aveva infatti ad oggetto l’impugnazione di un decreto di rigetto di un ricorso gerarchico diretto ad ottenere un ulteriore trattamento pensionistico per aggravamento delle infermità ed è stato definito dalla Sezione giurisdizionale regionale dell’Umbria, in composizione monocratica, "dal Giudice Unico delle pensioni" (così l’epigrafe della pronuncia), con sentenza depositata il 1 agosto 2002, che ha respinto il ricorso.
La Corte d’appello di Firenze ha inesattamente ritenuto che questa sentenza fosse impugnabile esclusivamente per motivi concernenti la giurisdizione ai sensi del combinato disposto dell’art. 111 Cost. e art. 362 c.p.c., comma 1, e, dopo avere precisato che questo mezzo neppure sarebbe stato utilmente esperibile, ha affermato che il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi ex L. n. 89 del 2001 "deve essere individuato nella data di deposito della sentenza della Corte dei conti", ritenendo quindi inammissibile il ricorso in quanto depositato il 13 maggio 2003. Orbene, nella specie non occorre occuparsi della correttezza dell’affermazione concernente l’ammissibilità della delibazione da parte del giudice dell’equa riparazione della utile proponibilità del ricorso ex art. 362 c.p.c, nonchè dell’incidenza del medesimo sull’acquisizione da parte della succitata sentenza della "definitività", nel senso che qui interessa, e neppure del termine entro il quale è proponibile, stante il carattere preliminare ed assorbente della considerazione che la pronuncia era impugnabile con l’appello e, in mancanza di prova della notificazione della stessa, lo era entro il termine di un anno dalla pubblicazione (D.L. n. 453 del 1993, art. 1, comma 5 bis), avvenuta il 1 agosto 2002. Ne consegue che dalla maturazione del termine di un anno da detta data decorreva quello di sei mesi della L. n. 89 del 2001, art. 4, e, poichè il ricorso ai sensi di questa legge è stato depositato il 13 maggio 2003, la Corte territoriale erroneamente lo ha ritenuto inammissibile, senza che neppure sia necessario approfondire la questione della applicabilità della sospensione processuale dei termini in periodo feriale (ed a prescindere dall’accertamento della proposizione dell’impugnazione).
2.2.- Il quarto motivo è inammissibile.
La Corte territoriale ha erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso per la ragione sopra esaminata e, conseguentemente, non ha affrontato il profilo della sussistenza della denunciata violazione del termine di ragionevole durata del giudizio e dei presupposti per potere riconoscere il diritto azionato. Pertanto, il motivo in esame non è conferente, poichè il decreto impugnato non ha reso alcuna pronuncia sul punto e, quindi, le censure, in quanto prive di specifica attinenza al decisum sono inammissibili (Cass., n. 21490 del 2005; n. 3612 del 2004), salvo restando il potere-dovere del giudice di rinvio di procedere al corretto accertamento in ordine alla eventuale fondatezza della domanda, in applicazione delle regole a questo scopo fissate.
In conclusione, l’accoglimento del ricorso – nei termini e nei limiti sopra precisati – comporta la cassazione, in relazione, del decreto impugnato ed il giudizio deve proseguire in fase di rinvio, dato che si rendono necessari ulteriori accertamenti circa i fatti influenti al fine del riscontro sia del superamento del termine di ragionevole durata, sia della sua puntuale individuazione sia dell’accertamento sulla sussistenza degli ulteriori elementi che condizionano il riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Il Giudice di rinvio, da designarsi nella stessa Corte d’appello in altra composizione, procederà al riesame della causa, attenendosi al principio sopra enunciato, provvedendo anche sulle spese di questa fase processuale.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il quarto motivo, accoglie per quanto di ragione i primi tre motivi del ricorso, cassa in relazione il decreto impugnato, e rinvia alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese di questa fase.
Così deciso in Roma, il 3 aprile 2006.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2006