Con la impugnata ordinanza il Tribunale di Torino in funzione di giudice del riesame, ha applicato a B.G.P.L., indagato dei reati di cui agli art. 609 bis c.p., commi 1 e 2, art. 609 ter c.p., comma 1, n. 1 e u.c., artt. 610, 527 e 572 c.p., la misura cautelare dell’obbligo di dimora nel Comune di Settimo Torinese, in sostituzione di quella degli arresti domiciliari, già sostitutiva di quella della custodia in carcere, applicata al medesimo con l’impugnato provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Torino in data 27.1.2006.
I giudici del riesame hanno ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato in ordine ai reati di violenza sessuale oggetto di indagine, ascrittigli per avere compiuto, in diverse occasioni, abusi sessuali sulla piccola L.P.G., di anni sette, consistiti nel toccarla nella zona dei genitali, in considerazione della attendibilità delle dichiarazioni rese dalla predetta minore.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso l’indagato, che la denuncia con sette motivi di gravame.
Con il primo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 280 c.p.p., deducendo che la misura cautelare personale non poteva essere disposta in relazione al reato di cui all’art. 527 c.p., non consentendo il limite massimo di pena previsto per detto reato l’applicazione di alcun tipo di misura coercitiva.
Con il secondo mezzo di annullamento si denuncia la mancanza di motivazione dell’ordinanza in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per i reati di cui agli artt. 610 e 572 c.p., contestati nell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere.
Si deduce che né l’ordinanza del G.I.P., né il provvedimento impugnato hanno indicato gli elementi in base ai quali è stata ritenuta la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato per tali reati.
Con l’ulteriore mezzo di annullamento si denuncia la carenza di motivazione dell’ordinanza con riferimento alla esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico del B. in ordine al reato di cui agli art. 609 bis e ss. c.p., nella parte in cui viene ipotizzata la condotta criminosa consistita nell’avere costretto o comunque indotto la minore a compiere atti sessuali su se stessa. Si deduce che sul punto non è stata indicato dai giudici di merito alcun elemento di prova da cui potesse desumersi la descritta condotta criminosa a carico dell’indagato.
Con il quarto mezzo di annullamento si denuncia la manifesta illogicità della motivazione della ordinanza, nella parte in cui sono stati ritenuti sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato per il reato di cui agli art. 609 bis c.p. e ss., con riferimento alla condotta consistita nell’avere commesso atti sessuali sulla minore, consistiti in toccamenti dei genitali sotto i vestiti, con introduzione del dito nella vagina.
Si deduce che i giudici di merito hanno affermato la attendibilità delle dichiarazioni rese dalla minore, perché ripetute in quattro diverse occasioni, scindendo illogicamente dal contesto del narrato la valutazione delle circostanze riferite dalla minore circa le modalità ed il numero degli episodi criminosi, punto sul quale era stata rilevata l’esistenza di insanabili contraddizioni.
Con l’ulteriore motivo di gravame si riportano in proposito le dichiarazioni rese dalla bambina, dalle quali emerge la dedotta contraddittorietà del narrato, con particolare riferimento al fatto di essere vestita o svestita nel momento in cui l’imputato avrebbe posto in essere gli abusi sessuali dalla medesima descritti.
Con il sesto mezzo di annullamento si denuncia la illogicità della motivazione con riferimento alla misura cautelare applicata, avendo il tribunale rilevato che la condotta dell’indagato era connotata da una accentuata personalizzazione nei confronti della parte lesa.
Con l’ultimo motivo di gravame si denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 275 c.p.p., comma 4.
Si deduce che il tribunale per il riesame ha ritenuto carente di interesse la doglianza dell’indagato, afferente alla applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di soggetto ultrasettantenne, in quanto sostituita nelle more con quella degli arresti domiciliari, senza tener conto dei principi di diritto secondo i quali in caso di sostituzione della misura originaria permane l’interesse ad ottenere l’annullamento del provvedimento che la ha applicata, ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione.
Con motivi aggiunti, pervenuti in data 15.5.2006, il ricorrente ribadisce le precedenti censure con riferimento alla illogicità della motivazione dell’ordinanza nella parte in cui ha affermato che il pericolo di reiterazione criminosa giustifica l’imposizione dell’obbligo di dimora dell’indagato nel comune di residenza.
Il ricorso non è fondato.
Osserva la Corte in ordine ai primi due motivi di gravame che la carenza di qualsiasi riferimento ai reati di cui agli artt. 527, 572 e 610 c.p. nel provvedimento del G.I.P., che ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’indagato, rende evidente che la citazione dei capi di imputazione ad essi relativi, nella parte cosiddetta narrativa del provvedimento, è finalizzata esclusivamente ad individuare i reati oggetto di indagine, mentre la misura cautelare è stata adottata solo con riferimento alla fattispecie criminosa di cui agli artt. 609 bis e 609 ter c.p., cui esclusivamente si riferisce la parte motiva.
E’, altresì, infondato il terzo motivo di gravame.
E’ noto che nella fase delle indagini preliminari la formulazione del capo di imputazione non è definitiva, venendo in esso descritta la condotta criminosa in base alle risultanze delle prime emergenze processuali acquisite dalla pubblica accusa, sicché si palesa del tutto ininfluente, ai fini della validità del provvedimento restrittivo, la circostanza che la condotta descritta nel capo di imputazione risulti parzialmente diversa da quella oggetto dei successivi accertamenti, allorché sia stata comunque integrata la fattispecie criminosa.
Osserva ancora la Corte con riferimento al quarto e quinto motivo di gravame che i giudici di merito hanno tenuto ben presenti gli elementi di discordanza esistenti nelle dichiarazioni rese dalla minore, ma li hanno ritenuti di scarsa rilevanza in considerazione della difficoltà incontrata dalla piccola parte lesa nel quantificare con precisione il numero degli episodi e della possibilità di sovrapposizione nel ricordo della bambina di fatti svoltisi in momenti diversi, mentre a sostegno della credibilità della L.P. sono stati indicati ulteriori elementi di valutazione riferiti ai particolari descritti dalla medesima, sicché non sussiste affatto la dedotta illogicità della motivazione sul punto, mentre i rilievi del ricorrente costituiscono esclusivamente una censura di merito avverso la valutazione delle predette dichiarazioni dalla parte lesa.
In ordine al sesto motivo di gravame ed ai motivi aggiunti di ricorso rileva la Corte che l’applicazione della misura cautelare è stata giustificata dalla considerazione del concreto pericolo di reiterazione della condotta criminosa, mentre ai fini della prevenzione si è ritenuto sufficiente la imposizione dell’obbligo di dimora nel comune di residenza, stante la accentuata personalizzazione della condotta dell’indagato nei confronti della parte lesa di cui si tratta, sicché non sussiste alcun vizio di motivazione del provvedimento sul punto, mentre anche in questo caso le censure del ricorrente sono fondate su considerazione di fatto avverso la valutazione dei giudici di mento in ordine alla scelta della misura cautelare.
Osserva, infine, la Corte in ordine all’ultimo motivo di gravame che l’interesse ad una pronuncia circa la illegittimità della misura della custodia in carcere è connesso, secondo la giurisprudenza di legittimità citata dallo stesso ricorrente, alla possibilità che sull’accertamento definitivo della illegittimità della misura possa successivamente essere fondato il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p., comma 2.
Orbene, tale interesse nella fattispecie in esame non sussiste, come rilevato, sia pure senza una adeguata motivazione, dai giudici di merito.
Ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 2, infatti, l’indennizzo per ingiusta detenzione può essere riconosciuto in favore della persona prosciolta per qualsiasi causa o condannata che sia stata sottoposta a custodia cautelare, applicata malgrado la insussistenza delle condizioni di applicabilità ai sensi degli artt. 273 e 280 c.p.p. Nella previsione della norma citata, pertanto, non rientra anche l’ipotesi di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4, invocata dal ricorrente, sicché non sussiste un interesse della persona sottoposta alla misura cautelare all’accertamento sul punto, essendo stato peraltro affermata dai giudici di merito la esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, sicché risultano sussistenti le altre condizioni di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. al rigetto dell’impugnazione segue a carico della ricorrente l’onere del pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2006