1. – B.M., con ricorso del 19 dicembre 2002, adiva la Corte d’appello di Firenze, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, per ottenere la condanna della Presidenza del Consiglio dei ministri alla corresponsione dell’equa riparazione in relazione ai danni derivati dal superamento del termine ragionevole di durata del processo, avente ad oggetto l’accertamento del diritto al riconoscimento del diritto alla maggiorazione del trattamento pensionistico di guerra, iniziato dal proprio marito C. G. con ricorsi del giugno 1969 e del gennaio 1981 e da essa proseguito, dopo il decesso di quest’ultimo avvenuto nel gennaio 1988. Tale giudizio era stato deciso in primo grado dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale dell’Umbria, soltanto nel giugno 2000, con una sentenza di accoglimento parziale, ed il procedimento in appello era stato definito dalla sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti nel maggio 2002, con il rigetto del gravame interposto dalla B..
2. – La Corte d’appello di Firenze, con decreto depositato il 18 marzo 2003, condannava la resistente Presidenza del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore della ricorrente, della somma di Euro 42.500,00 e delle spese legali.
2.1. – La Corte territoriale ravvisava la denunciata violazione della ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado, protrattosi per trentuno anni, laddove il termine ragionevole di definizione di un procedimento del genere di quello svoltosi doveva considerarsi di tre anni.
La Corte fiorentina respingeva l’eccezione di difetto di legittimazione ad agire della B.. Non rilevava, ad avviso della Corte d’appello, che all’epoca del decesso dell’originario ricorrente, avvenuto nel 1988, non fosse stata ancora emanata la "legge Pinto", atteso che con la suddetta legge lo Stato italiano ha inteso trasportare nel diritto interno i rimedi ed i diritti già assicurati in precedenza dall’ordinamento internazionale e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la Legge di Autorizzazione alla ratifica 4 agosto 1955, n. 848. Sicchè il diritto all’equa riparazione, già maturato a favore del C. ed entrato a far parte stabilmente del suo patrimonio, si era trasmesso per diritto ereditario alla ricorrente.
3. – Avverso il decreto della Corte d’appello, la Presidenza del Consiglio dei ministri, con atto notificato il 10 gennaio 2004, ha interposto ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi di censura.
L’intimata ha resistito con controricorso illustrato con memoria depositata in prossimità dell’udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la ricorrente Presidenza del Consiglio dei ministri eccepisce l’intervenuta decadenza, essendo stata la domanda di riparazione proposta trascorso il termine di sei mesi dal momento in cui la decisione, che concluse il procedimento, divenne definitiva. Difatti, "la sentenza della Corte dei Conti. per la Ragione Campania fu depositata in data 26 ottobre 2000, mentre il ricorso ex L. n. 89 del 2001 fu depositato in data 3 settembre 2001". Ed osserva che, con l’espressione sentenza definitiva, la L. n. 89 del 2001, art. 4 ha riguardo alla data della pronuncia che chiude il processo, non al passaggio in giudicato della stessa.
2. – Il motivo e scrutinatile nel merito, essendo infondata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla controricorrente, sul rilievo che l’eccezione di improponibilità della domanda sarebbe stata prospettata soltanto con il ricorso per Cassazione.
In tema di equa riparazione per superamento della durata ragionevole del processo, quando si produca la causa di decadenza per il mancato rispetto del termina semestrale per la proposizione della relativa domanda, di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4, il giudice è tenuto a rilevarla, anche d’ufficio ed in sede di legittimità, ed a dichiarare, di conseguenza, l’improponibilità dell’azione: giacchè, mentre il diritto all’equa riparazione spettante al privato ricorrente in base alla citata legge è senza dubbio disponibile, non lo è, per contro, la posizione del soggetto passivo rispetto a tale diritto, cioè dall’amministrazione pubblica chiamata a corrispondere il richiesto indennizzo, non potendo detta amministrazione, soggetta alla norma sulla contabilità pubblica ed agli specifici vincoli di bilancio richiamati dall’art. 7 della stessa legge, rinunciare alla decadenza, in considerazione dagli interassi pubblici che presiedono all’erogazione delle spesa gravanti sui pubblici bilanci (cfr. Sez. 1^, 5 dicembre 2002, n. 17261; Sez. 1^, 18 luglio 2003, n. 11231).
Non opera, pertanto, il limite che non consente di prospettare, col motivo di ricorso, questioni nuove in sede di legittimità, giacchè tale preclusione non vale allorchè – come nella specie – si tratti di questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo (Sez. 3^, 31 gennaio 2006, n. 2140).
2.1. – Il motivo e, peraltro, infondato.
A prescindere dal rilievo che la difesa della ricorrente si riferisce a provvedimenti, sia come data sia come organo emanante, diversi da quelli del processo presupposto – il quale si e svolto, non dinanzi alla sezione giurisdizionale della Campania della Corte dei conti, ma dinanzi alla sezione giurisdizionale dell’Umbria e, in appello, alla sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti; ed è stato definito con sentenza depositata, non il 3 settembre 2001, ma il 15 maggio 2002 -, la censura muove da un’interpretazione non condivisibile della portata della L. n. 89 del 2001, art. 4.
La norma citata prevede espressamente che la domanda di equa riparazione per irragionevole durata di un procedimento già chiuso debba essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi "dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva".
Questa Corte ha avuto modo di precisare che il termine in esame "non decorre dalla data del provvedimento conclusivo del processo della cui durata ci si dolga, e neppure da quella in cui detto provvedimento è stato portato a conoscenza dell’interessato nelle forme eventualmente a ciò prescritte dall’ordinamento. Decorre, invece, da quando quel provvedimento conclusivo è divenuto definitivo; e con tale espressione il legislatore ha inteso riferirsi al significato che comunemente si assegna alla nozione di definitività di un provvedimento giurisdizionale: vale a dire al fatto che quel provvedimento non sia più suscettibile di essere revocato, modificato o riformato dal medesimo giudice che lo ha emesso o da altro giudice chiamato a provvedere in un grado successivo" (Sez. 1^, 5 dicembre 2002, n. 17261).
Nè ciè è in contraddizione con l’assunto secondo cui il concetto di "decisione definitiva", adoperato nella citata L. n. 89 del 2001, art. 4, indicherebbe soprattutto il momento in cui il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione (in tal senso Sez. 1^, 26 luglio 2002, n. 11046, Sez. 1^, 20 settembre 2002, n. 13768, Sez. 1^, 22 ottobre 2002, n. 14885, citate dalla Presidenza ricorrente, ma relative all’applicazione della "leggo Pinto" alla procedure di esecuzione immobiliare, per le quali si è chiarito che il momento rilevante ai fini della definitività della decisione è quello della riconsegna del bene all’avente diritto). E’ così, ovviamente, in tutti i casi in cui il provvedimento del giudice che pone formalmente termine al processo in corso dinanzi a lui presupponga un’ulteriore fase attuativa, destinata appunto a consentire l’effettiva realizzazione del diritto la cui tutela in quel processo era stata invocata. Allorquando, pertanto, ci si dolga della irragionevole durata di un processo esecutivo, la definitività del provvedimento, che determina il decorso del termine semestrale per la proposizione della domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo stesso, va valutata, non con riferimento alla formazione del titolo esecutivo, ma al momento in cui il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione. Ma quando, viceversa, la irragionevole durata del processo venga fatta valere in relazione ad un ordinario processo di cognizione, non vi è ragione per ritenere che la definitività del procedimento indichi un concetto diverso da quello di preclusione all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti in via ordinaria avverso quel tipo di provvedimento (Sez. 1^, 29 settembre 2004, n. 19526, seguita da Sez. 1^, 9 novembre 2005, n. 21723).
In tale senso, del resto, si è espressa anche Sez. 1^, 18 luglio 2003, n. 11231, la quale ha appunto affermato che "ai fini della condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione, prevista dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, sussiste la pendenza del procedimento, nel cui ambito la violazione del termine di durata ragionevole si assume verificata, allorchè sia stata emessa la relativa sentenza di primo grado e non sia ancora decorso il termine lungo per l’impugnazione": con il che rendendosi evidente che, in relazione ai giudizi di cognizione, la domanda di equa riparazione può essere proposta entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento della cui ragionevole durata si dubiti.
Nella specie, dal provvedimento impugnato emerge che la domanda di equa riparazione è stata proposta con ricorso depositato il 19 dicembre 2002, in relazione ad un giudizio nel quale era stata pronunciata sentenza, dalla sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti, il 15 maggio 2002.
Ma la data del 15 maggio 2002 non coincide con quella del passaggio in giudicato della sentenza, essendo la pronuncia resa dalla Corte dei Conti in grado di appello ricorribile per Cassazione, dinanzi alle Sezioni Unite, per motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dall’art. 362 c.p.c., comma 1, e dell’art. 111 Cost., u.c., ed essendo pertanto applicabile (in virtù del R.D. 13 agosto 1933, n. 1038, art. 26, recante approvazione del regolamento di procedura per i giudizi dinanzi alla Corte dei conti) la norma dell’art. 324 cod. proc. civ., ai cui sensi non s’intende passata in giudicato la sentenza ancora soggetta a ricorso per Cassazione.
Onde, quando – il 19 dicembre 2002 – il ricorso per equa riparazione e stato depositato, il termine semestrale di decadenza per la proponibilità della domanda di equa riparazione non era ancora trascorso.
Ciò stando, non rileva la questione, spiegata dalla difesa della controricorrente, circa l’applicabilità alla specie della sospensione del predetto termine semestrale disposta, in vista della possibile definizione transattiva e, comunque, per non oltre novanta giorni, dal soppresso (dalla L. Conversione 14 novembre 2002, n. 259) D.L. 11 settembre 2002, n. 201, art. 1.
3. – Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la Presidenza del Consiglio dei Ministiri rilava che non vi sarebbe alcun criterio di collegamento tale da giustificare la competenza dell’adita Corte d’appello di Firenze. Essendo inapplicabile l’art. 3 della citata legge (il quale, per il suo carattere derogatorio rispetto alle regole ordinarie di competenza, si riferirebbe esclusivamente ai processi svoltisi dinanzi ai giudici ordinari, per i quali è prevista l’articolazione territoriale su base distrettuale), la competenza andava determinata secondo i criteri ordinari che individuano il giudice competente nei giudizi in cui è convenuta una amministrazione dello Stato (art. 25 cod. proc. civ.), alla stregua dei quali sarebbe competente la corte d’appello nel distretto della quale si trova il luogo in cui è sorta l’obbligazione o deve eseguirsi l’obbligazione. E siccome il giudizio connotato da durata eccessiva si è svolto dinanzi alla Corte dei Conti – sezione giurisdizionale dall’Umbria, la domanda di equa riparazione doveva essere proposta dinanzi alla Corte d’appello di Perugia.
4.- Il motivo è inammissibile.
L’eccezione di incompetenza territoriale della Corte d’appello – alla quale l’interessato abbia proposto, con ricorso, la domanda di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3 – non può essere proposta per la prima volta in Cassazione. La questiona di competenza, per assumere rilevanza, deve manifestarsi, su rilievo d’ufficio o su eccezione di parte, nel corso del procedimento dinanzi alla Corte d’appello, di talchè non è ammissibile impugnare per Cassazione il decreto conclusivo prospettando una ragione di incompetenza precedentemente non emersa.
5. – Con il terzo mezzo (violazione e falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, artt. 2 e 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la ricorrente censura il decreto impugnato nella parte in cui ha riconosciuto la trasmissibilità del diritto al risarcimento del danno iure hereditatis, pur essendosi aperta la successione in epoca anteriore alla L. 24 marzo 2001, n. 89, che ha creato, innovativamente, tale diritto.
Secondo la ricorrente, non può essere riconosciuto a posteriori e retroattivamente un diritto creato ex novo dalla L. n. 89 del 2001.
Inoltre, l’equa riparazione sarebbe stata riconosciuta in assenza del benchè minimo riscontro probatorio in ordine alla sussistenza del danno nonchè del nesso di causalità tra la durata del processo ed il pregiudizio asseritamene subito. Secondo la Presidenza del Consiglio, ai fini del riconoscimento dell’equa riparazione a titolo di danno non patrimoniale occorre la prova, in positivo, a sia pura per presunzioni, dai fatti costitutivi dalla pretesa. Per poter presumere in capo a chi sia parte di un giudizio pendente uno stato di sofferenza morale (cd. patema d’animo), non basta semplicemente che il giudizio penda, ma è altresì necessario valutare quali siano le oggettive caratteristiche di quel giudizio, per poi apprezzare se esso possa avere determinato nella parte interessata alla sua sollecita definizione pregiudizi di carattere non patrimoniale. Il danno determinato dalla protrazione del giudizio oltre il termine ragionevole rappresenta un evento diverso ed ulteriore rispetto al fatto lesivo che può averlo generato: e la parte istante non avrebbe dimostrato il nesso causale tra l’eccessiva durata del processo pensionistico e la pretesa lesione alla qualità della vita ed alla serenità familiare. D’altra parte, le circostanze di fatto (processo pensionistico che a seguito di approfondimento di istruttoria si è concluso con esito positivo) porterebbero ad escludere che tale tipologia di danno sia astrattamente ipotizzabile.
Osserva, infine, l’Avvocatura che l’onere probatorio della parte danneggiata rimane integro anche per le ipotesi di liquidazione in via equitativa del danno risarcibile.
6. – Il complesso motivo di censura è infondato.
6.1. – Questa Corte – a Sezioni Unite (sentenza 23 dicembre 2005, n. 28507) -, superato l’orientamento secondo cui la fonte del diritto all’equa riparazione sarebbe ravvisabile nella sola normativa nazionale, ha affermato il principio che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell’ art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con ciò escludendo che sia ipotizzabile una distinzione tra diritto ed un processo di ragionevole durata, introdotto dalla citata Convenzione, e diritto all’equa riparazione, introdotto solo con la L. n. 89 del 2001; e ne ha fatto derivare la conseguenza – che qui, prestandosi adesione a quell’arresto, va ribadita – secondo cui il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo verificatosi prima dell’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto, prima di tale data, il giudizio del quale si lamenta la non ragionevole durata (con il solo limite – nella specie non rilevante – che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e che questa si sia già pronunciata sulla sua ricevibilità).
6.2. – Per orientamento ormai costante di questa Corte, dopo l’intervento delle Sezioni Unite (sentenze n. 1338 e n. 1339 del 26 gennaio 2004), il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di ordine psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca a chi ne è titolare; sicchè, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, una volta accertata quest’ultima deve, invece, considerarsi di regola in re ipsa la prova del relativo pregiudizio, che il giudice deve quindi ritenere esistente, a meno che non constino, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che il danno in questione sia stato subito dal ricorrente (cfr., dopo l’intervento risolutore delle Sezioni Unite, ex multis, Sez. 1^, 5 agosto 2004, n. 15093; Sez. 1^, 3 ottobre 2005, n. 19288; Sez. 1^, 22 settembre 2005, n. 18650; Sez. 1^, 4 novembre 2005, n. 21391).
A tale principio, che il Collegio condivida e fa proprio, la Corte d’appello si e attenuta, non essendo stata dedotta nè evidenziata alcuna circostanza specifica dalla quale possa positivamente desumersi che l’irragionevole protrarsi del giudizio non abbia prodotto il riconosciuto danno non patrimoniale.
7. – Il ricorso è rigettato.
Sussistono giustificati motivi per la compensazione delle spese di questa fase del giudizio, prospettando il ricorso per Cassazione, notificato il 10 gennaio 2004, questioni (la legittimazione dell’erede e la prova del danno non patrimoniale) risolte nella giurisprudenza di questa Corte in senso sfavorevole alle conclusioni della difesa erariale soltanto a seguito del successivo intervento delle Sezioni Unite (rispettivamente, 26 gennaio 2004 e 23 dicembre 2005).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2006