Con ricorso depositato il 17 ottobre 2001 il Sig. A.A. e gli altri sessantacinque ricorrenti indicati in epigrafe proponevano dinanzi alla Corte d’appello di Perugia domanda di equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, per la violazione del termine ragionevole di durata del processo che assumevano essersi verificata nell’ambito dei diversi procedimenti penali instaurati a seguito del decesso degli ottantuno passeggeri dell’aeroplano DC9 Itavia, precipitato ed inabissatosi in mare al largo di Ustica il 27 giugno 1980.
Rappresentavano come al procedimento penale volto ad accertare le responsabilità per tale evento si fossero aggiunti, nel corso del tempo, ulteriori procedimenti aventi ad oggetto condotte criminose ascritte a persone coinvolte a vario titolo nel processo. Si erano avuti cosi, in particolare:
a) un procedimento penale per strage a carico di ignoti, nel quale Giudice istruttore di Tribunale di Roma aveva emesso il 31 agosto 1999 sentenza di non doversi per essere rimasti ignoti gli autori del reato, ai sensi dell’art. 378 c.p.p. 1930;
b) un procedimento penale per falsa testimonianza ed altri reati a carico di A.G. ed altri, definito con la medesima sentenza sopra indicata, che aveva prosciolto gli imputati per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione;
c) un procedimento penale per calunnia a carico di V.A. (fatto commesso nell'(OMISSIS)) e per falsa testimonianza a carico di S.F. e altri (fatti commessi dal (OMISSIS)), pendente davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Roma, a seguito di ordinanza del Giudica istruttore del medesimo Tribunale del 31 agosto 1999 che aveva ordinato la prosecuzione delle indagini per tali fatti secondo le norme del nuovo codice di rito;
d) un procedimento per attentato contro organi costituzionali (art. 289 c.p.) ed alto tradimento (art. 77 c.p.m.p.) a carico di B.L. ed altri, pendente in fase dibattimentale dinanzi alla Corte di assise di Roma a seguito dell’ordinanza di rinvio a giudizio del Giudice istruttore di Roma del 31 agosto 1999;
e) un procedimento penale per falsa testimonianza a carico di P.F. ed altri (fatti commessi dal (OMISSIS)), pendente davanti al Pubblico Ministero del Tribunale di Roma a seguito dell’ordinanza della Corte di assise d’appello di Roma del 1 dicembre 2000, che aveva dichiarato la nullità del decreto di citazione a giudizio degli imputati per errata applicazione delle norme transitorie del codice di procedura penale del 1988 (e, conseguentemente, del regime di ultrattività del codice del 1930), rinviando quindi gli atti al Pubblico Ministero secondo la disciplina del nuovo codice: sicchè, in sostanza, il procedimento era regredito alla fase delle indagini preliminari.
I ricorrenti – congiunti di alcune delle persone decedute a seguito dei fatti di Ustica o loro eredi – chiedevano, quindi, la condanna del Ministero della giustizia al pagamento della somma di L. cinquecento milioni per ognuno di essi, a titolo di ristoro del danno non patrimoniale conseguente alla dedotta violazione.
La domanda veniva rigettata dall’adita Corte d’appello di Perugia con decreto del 19 maggio 2003.
La Corte territoriale osservava come rispetto al procedimento per strage, concluso dalla sentenza del 31 agosto 1999 di non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori del reato, la domanda di equa riparazione fosse inammissibile, in quanto proposta dopo il decorso del termine di decadenza di sei mesi dalla decisione definitiva, previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4. Il concetto di "decisione definitiva" non poteva essere inteso, difatti, nel senso ristretto di sentenza passata in giudicato, comprendendo, al contrario, la generalità dei provvedimenti che comunque chiudano il procedimento di volta in volta considerato e, dunque, anche la sentenza istruttoria di proscioglimento emessa ai sensi dall’art. 378 c.p.p. 1930, ancorchè inidonea ad acquistare l’autorità di cosa giudicata.
In tal ottica, "ancora più palese" risultava quindi l’intempestività della domanda con riguardo al procedimento per falsa testimonianza, definito dalla medesima sentenza con il proscioglimento degli imputati per prescrizione.
Rispetto ad una parte dei ricorrenti e a larga parte delle vicende processuali in questione, era peraltro ravvisatile anche una ulteriore ragione di inammissibilità della domanda, connessa al fatto che la legittimazione a dolersi dell’irragionevole durata del processo doveva essere riconosciuta, alla luce del disposto dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, esclusivamente alle parti del processo stesso e, dunque, non alla persona danneggiata dal reato in quanto tale, ove non costituitasi parte civile. Ne seguiva che la legittimazione a richiedere l’equa riparazione poteva competere solo a coloro, fra gli odierni i ricorrenti, che si erano costituiti parte civile nel processo contro B.L. ed altri, pendente dinanzi alla Corte d’assise di Roma: giacchè, quanto ai processi pendenti davanti al Pubblico Ministero del Tribunale di Roma, erano gli stessi ricorrenti a riconoscere di essere "regrediti", per effetto del ritorno del procedimento nella fase delle indagini preliminari, da parti civili a persone offese o danneggiati.
Nel merito, la domanda doveva ritenersi comunque infondata – ad avviso della Corte territoriale – per un triplice ordine di ragioni.
Per un verso, infatti, l’irragionevole durata del processo doveva essere imputata, alla stregua della prospettazione degli stessi ricorrenti, non tanto al cattivo funzionamento del sistema giudiziario – da intendere, alla luce della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, come complesso di pubblici poteri destinati istituzionalmente a concorrere all’espletamento del servizio giurisdizionale – quanto e soprattutto ai comportamenti ostruzionistici o di "depistaggio" di soggetti appartenenti a diverse amministrazioni (militari, funzionari e agenti di servizi segreti, gestori di aeroporti e porti), che avevano interesse ad ostacolare il processo e che avevano partecipato indi ad esso come imputati comportamenti che, peraltro – in quanto non solo posti in essere al di fuori delle competenze istituzionali di detti soggetti ed in consapevole spregio di norme imperative, ma integrativi addirittura di reati dolosi – non risultavano neppure imputabili, stante la rottura del nesso organico, alle amministrazioni di appartenenza.
In secondo luogo, poi, non poteva non tenersi conto dell’eccezionale complessità del processo legato alla tragedia di Ustica, il quale costituiva, per questo verso, un unicum, come testimoniava eloquentemente la circostanza che il legislatore, con reiterati provvedimenti, avesse procrastinato l’ultrattività delle disposizioni dell’ormai abrogato codice di procedura penale del 1930 – e, con esse, della figura del giudice istruttore – proprio per consentire lo svolgimento del processo in questione.
In terzo luogo e da ultimo – posto che il diritto all’equa riparazione non poteva ritenersi collegato al fatto in sè dell’irragionevole durata del processo, ma doveva essere al contrario riconosciuto solo a chi, in conseguenza di tale eccessiva durata, abbia subito un danno – la Corte territoriale rilevava come nella specie i ricorrenti non solo non avessero assolto all’onere della prova di tale danno, ma fossero venuti meno anche al semplice onere di allegazione, avendo omesso persino di indicare i pregiudizi concretamente sofferti per effetto dell’indebito protrarsi del processo.
Per la cassazione di tale decreto propongono ricorso l’ A. e consorti sulla base di cinque motivi, illustrati con successiva memoria, cui resiste con controricorso il Ministero della giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censurando la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto inammissibile, per tardività, il ricorso per equa riparazione da essi proposto in relazione al procedimento per strage concluso con sentenza di non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato, emessa il 31 agosto 1999 ai sensi dell’art. 378 c.p.p. 1930.
La "definitività" della sentenza, che segna il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione, presupporrebbe difatti necessariamente, per la valenza propria della categoria concettuale evocata, che sia al cospetto di un provvedimento non suscettibile di revoca, modifica o riforma da parte del medesimo giudice che l’ha emesso o da altro giudice chiamato a provvedere in grado successivo.
In questa prospettiva, nel qualificare l’anzidetta sentenza di proscioglimento come "decisione definitiva", la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che essa, alla stregua della disciplina del codice di rito penale del 1930, (artt. 402 ss.), non precludeva la riapertura dell’istruzione per i medesimi fatti ogni qualvolta divenisse possibile identificare il responsabile, e quindi non determinava la formazione di alcun giudicato, nè sostanziale nè processuale. Dopo la pronuncia della sentenza in parola, il procedimento rimaneva pertanto pendente – sia pure in uno stato di quiescenza – con la conseguenza che il termine decadenziale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4 non sarebbe mai iniziato a decorrere.
La contraria e restrittiva interpretazione adottata dalla Corte di merito si porrebbe d’altro canto in contrasto con l’orientamento di questa Corte, in forza del quale, stante l’esigenza di garantire l’effettività del meccanismo riparatorio introdotto dalla citata legge, il concetto di "decisione definitiva" indica il momento in cui il diritto azionato ha trovato concreta realizzazione.
2. – Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in relazione alla medesima fattispecie concreta (Cass., 20 gennaio 2006, n. 1184), il concetto di "decisione definitiva" – impiegato nella L. n. 89 del 2001, art. 4 al fine di segnare il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione, sulla falsariga dell’omologa, espressione ("decisioni interne definitive") che compare nell’art. 35, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848 – assume una valenza ampiamente comprensiva, in rapporto all’esigenza di coprire ogni tipo di procedimento nel quale sia ipotizzabile una violazione del principio di ragionevole durata e, al tempo stesso, ogni possibile epilogo della vicenda processuale.
Detto concetto non può essere inteso, dunque, come equivalente a quello di sentenza passata in giudicato, che identifica soltanto una species del genus della "definitività": ma abbraccia, al contrario, qualsiasi provvedimento giurisdizionale, ancorane a contenuto meramente processuale, che si presenti comunque idoneo – ex se, ovvero a seguito dell’inutile decorso dei termini per l’esperimento dei rimedi prefigurati dall’ordinamento al fine di rimuoverlo – a porre formalmente termine al processo, così da impedire che quest’ultimo possa considerarsi ancora pendente.
Siffatta attitudine va indubbiamente riconosciuta alla sentenza di proscioglimento emessa dal giudice istruttore ai sensi dell’art. 378 c.p.p. 1930, anche qualora si tratti di proscioglimento pronunciato per essere ignoti gli autori del reato, ai sensi dell’ultimo comma del medesimo articolo: rientrando tale provvedimento nel novero dei possibili epiloghi formali del processo penale delineati dal legislatore di quel codice. D’altro canto, se per la rimozione delle sentenze istruttorie di proscioglimento è in linea di principio necessario far ricorso alle impugnazioni contemplate dall’art. 387 c.p.p. 1930; la sentenza di non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato – secondo quanto reiteratamente affermato dalle Sezioni penali di questa Corte – è inoppugnabile (Cass. pen., 5 febbraio 1975, n. 1361; Cass. pen., 31 ottobre 1973, n. 1204; Cass. pen., 7 marzo 1973, n. 1243), salvo che presenti anomalie di forma o di sostanza tali da conferirle connotati di abnormità ( Cass. pen., 30 maggio 1985, n. 1553; Cass. pen., 12 gennaio 1972, n. 3170). Di modo che, con la pronuncia della sentenza in parola – ovvero con l’inutile decorso dei termini per la sua impugnazione, quando consentita – il procedimento deve considerarsi concluso e non più pendente.
In senso contrario, non vale far appello alla circostanza – costituente pure la ragione della ritenuta normale inoppugnabilità della sentenza di cui si discute – che essa venga pronunciata "allo stato degli atti" e non esplichi, dunque, alcun effetto preclusivo, in maniera tale che ove, in qualsiasi momento, il presunto autore del reato appaia identificato o identificabile il procedimento penale può essere direttamente instaurato nei suoi confronti nei modi ordinari (Cass. pen., 30 settembre 1974, n. 1361). Siffatto riavvio dalle attività processuali – al pari, mutatis mutandis, di quello conseguente alla riapertura dell’istruzione prevista dall’art. 402 c.p.p. 1930 allorchè, dopo una sentenza istruttoria di proscioglimento (diversa da quella considerata), sopravvengano nuove prove – resta infatti legato ad un accadimento futuro e meramente ipotetico, l’eventualità della cui verificazione non basta, all’evidenza, per poter ritenere che il procedimento concluso con la sentenza in parola sia ancora in corso, anche se "in uno stato di quiescenza" (la cui durata rimarrebbe, peraltro, indefinita).
L’impraticabilità della soluzione ermeneutica prospettata dai ricorrenti risulta del resto palese ove si consideri che, aderendo ad essa, dovrebbero considerarsi pendenti dine die, ai fini della proponibilità della domanda di equa riparazione – in contrasto con il trasparente intento legislativo sotteso alla previsione della L. n. 89 del 2001, citato art. 4 – tutti i procedimenti penali che, in base alla disciplina del vigente codice di rito, si concludano con provvedimenti privi di efficacia preclusiva, quale il decreto di archiviazione, in rapporto alla possibile riapertura delle indagini (art. 414 cod. proc. pen.) o la sentenza di non luogo a procedere (art. 425 cod. proc. pen.), avuto riguardo alla possibile revoca della stessa in caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove (art. 434 cod. pen. pen.).
Fuori dell’allibito del processo penale, d’altra parte, il medesimo ragionamento porterebbe – altrettanto irrazionalmente – a considerare pendenti tutti i procedimenti civili conclusisi con provvedimenti soggetti, per loro natura, alla clausola "rebus sic stantibus", e dunque suscettibili di revisione a fronte di successivi mutamenti della situazione di fatto posta a base della decisione (quali, ex plurimis, i provvedimenti contenenti statuizioni in materia di prestazioni alimentari o di mantenimento" art. 156 c.c., u.c., e art. 440 cod. civ.).
Così come – per richiamare un altro caso di "riapertura" – dovrebbero, contro ogni logica, reputarsi pendenti le procedure fallimentari chiuse per ripartizione finale dell’attivo o per insufficienza di attivo ( L. Fall., art. 118, comma 1, nn. 3 e 4), dato che il decreto di chiusura non preclude – almeno per un quinquennio – la ripresa delle procedure stesse quando risultino nuove attività nel patrimonio del fallito ( L. Fall., art. 121).
Nella specie, è pacifico in punto di fatto che la sentenza di proscioglimento sia stata emessa, nel procedimento presupposto per strage contro ignoti, il 31 agosto 1999" di modo che – non avendo alcuna delle parti dedotto l’avvenuta proposizione di impugnazioni contro di essa (ammesso pure che queste fossero consentite, al lume di quanto dianzi ricordato) – del tutto correttamente la Corte d’appello ha ritenuto tardiva la domanda dei ricorrenti, in quanto presentata solo il 17 ottobre 2001, e dunque ben oltre il termine di sei mesi dalla "decisione definitiva" che ha concluso il procedimento stesso.
Tale termine risultava, in effetti, largamente spirato prima ancora della data di entrata in vigore della L. n. 89 del 2001, con la conseguenza che la situazione deve considerarsi ormai "esaurita" ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione.
La citata legge è infatti irretroattiva, mancando una norma che ne preveda espressamente l’applicabilità alle situazioni esaurite, fatta eccezione per la sola ipotesi contemplata dall’art. 6, che, allo scopo di favorire la riduzione della pendenza dei ricorsi dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ammesso in via transitoria a proporre la domanda di equa riparazione coloro i quali avessero in precedenza tempestivamente presentato – avuto riguardo all’omologo termine semestrale dalla decisione definitiva previsto dall’art. 35 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Cass., 10 settembre 2004, n. 18240) – ricorso alla Corte europea per l’accertamento della violazione del principio di ragionevole durata, e sempre che non fosse ancora intervenuta una decisione sulla relativa ricevibilità (Cass., 6 ottobre 2005, n. 19445). Condizioni, queste ultime, la cui sussistenza non è stata peraltro, nella specie, affatto prospettata.
3. – Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione, sotto diverso profilo, della L. n. 89 del 2001, art. 4, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha dichiarato inammissibile la domanda di equa riparazione in rapporto ai ricorrenti non costituiti parte civile nei procedimenti in questione.
I ricorrenti osservano preliminarmente come il preteso difetto di legittimazione non potrebbe comunque venire in considerazione – oltre che in rapporto al procedimento contro B.L. ed altri, di cui alla lett. d) della narrativa in fatto della presente sentenza, come la stessa Corte territoriale ha riconosciuto – neanche in relazione ai procedimenti di cui alle lett. a) e b), in relazione alle persone costituitasi parte civile in fase istruttoria; e neppure in relazione al procedimento per falsa testimonianza contro P. F. ed altri, di cui alla lett. e), pendente davanti al Pubblico Ministero a seguito dell’ordinanza della Corte di assise di Roma che ha dichiarato la nullità del decreto di citazione a giudizio, giacchè – anche alla luce di precedenti pronunce di questa Corte – nessun rilievo potrebbe assumere la regressione del procedimento rispetto alla già avvenuta costituzione di parte civile di una parte dei ricorrenti.
Ma anche rispetto ai residui procedimenti e ricorrenti l’argomentazione della Corte d’appello dovrebbe ritenersi del tutto infondata. Essa non terrebbe conto, infatti, della circostanza che – anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale del 1988 – il processo per la strage di Ustica era rimasto disciplinato, nei suoi vari "filoni", per effetto di una serie di provvedimenti legislativi di proroga, dalle norme del codice di procedura penale del 1930, il quale contemplava, all’art. 3, la cd.
pregiudizialità penale, precludendo l’esercizio dell’azione risarcitoria per i danni derivanti dal reato dinanzi al giudice civile in pendenza dell’accertamento penale. Tale circostanza renderebbe del tutto priva di rilievo la distinzione tra parte civile e persona offesa dal reato, stante l’impedimento che l’irragionevole durata del processo penale, a fronte della legge processuale applicabile, era comunque idoneo a recare all’esercizio dell’azione risarcitoria.
4. – Anche riguardo a tale doglianza – il cui esame, stante l’esito sfavorevole ai ricorrenti del precedente motivo, resta limitato ai soli procedimenti indicati alle lett. c), d) ed e) della narrativa in fatto – la Corte non può che confermare il giudizio di infondatezza già espresso con riferimento alla medesima vicenda concreta (Cass., 20 gennaio 2006, n. 1184).
In particolare, va ribadita la piena correttezza dell’affermazione, contenuta nella decisione impugnata, in forza della quale il diritto alla trattazione del processo entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – specificamente richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 – solo in relazione alle cause "proprie" e, quindi, solo in favore delle "parti": qualifica che, quanto al processo penale, non spetta alla persona offesa dal reato (o da esso danneggiata) che non si sia costituita parte civile (Cass., 29 settembre 2005, n. 19032; Cass., 24 luglio 2003, n. 11480; Cass., 23 gennaio 2003, n. 996; v. altresì Cass. pen., Sez. Un., 19 gennaio 1999, n. 24).
Nè rileva, in senso contrario, che il procedimento penale, del quale si lamenta l’eccessiva durata, si sia svolto in base alla disciplina del codice di procedura penale del 1930, che all’art. 3 prevedeva un’ipotesi di sospensione necessaria del processo civile ove l’accertamento di un fatto costituente reato, in rapporto al quale fosse stata iniziata l’azione penale, influisse sulla decisione della controversia civile. Tale previsione, per vero, non implicava affatto – contrariamente a quanto mostrano di ritenere i ricorrenti – una preclusione "legale" all’esercizio dell’azione risarcitoria da parte della persona danneggiata dal reato, ma presupponeva, viceversa, al lume del suo stesso tenore letterale, proprio che la controversia civile fosse stata instaurata: solo in tal caso potendo infatti trovare applicazione la prevista sospensione del processo da parte del giudice civile; e solo in tal caso potendosi quindi valutare, riguardo al danneggiato non costituitosi parte civile nel processo penale, se la durata di quest’ultimo – per il prolungamento della sospensione (e dunque della durata) del processo civile che ne conseguiva – sia stata o meno ragionevole, al fine del riconoscimento alle relative parti del diritto all’equa riparazione.
Per quanto attiene, poi, ai procedimenti per calunnia e falsa testimonianza di cui alle lett. c) ed e), va egualmente ribadito quanto già rilevato da questa Corte in relazione alla stessa fattispecie concreta: e, cioè, che gli anzidetti procedimenti sono regrediti "ad una fase – davanti al Pubblico Ministero – antecedente a quelle previste dall’art. 79 c.p.p. 1988", nella quale resta preclusa "al privato danneggiato dal reato – la facoltà di costituzione di parte civile" (Cass., 20 gennaio 2006, n. 1184).
Col prevedere, infatti, che "la costituzione di parte civile può avvenire per l’udienza preliminare e, successivamente, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’art. 484" (ossia gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti in dibattimento), il citato art. 79 esclude, a contrario sensu, che il danneggiato possa costituirsi parte civile nel corso delle indagini preliminari:
e ciò in conformità alla sistematica del nuovo codice, a fronte della quale tale fase del procedimento si colloca in momento anteriore e prodromico all’esercizio dell’azione penale, essendo finalizzata propriamente a consentire al pubblico ministero di assumere le determinazioni ad esso relative (art. 327 cod. proc. pen.). Nel corso delle indagini preliminari, pertanto, "non esiste un vero e proprio rapporto processuale", ma solo "una situazione nella quale il pubblico ministero indaga per stabilire se sussistano o meno gli elementi per promuovere l’azione penale o se invece dovrà chiedere l’archiviazione" (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 192 del 1991): donde la "naturale" estraneità ad essa dell’interesse (in quanto tale) al risarcimento del danno, il quale potrà esser fatto valere nella sede civile sua propria, in accordo, peraltro, con l’accentuato favor separationis che caratterizza il nuovo ordinamento processuale penale.
Nè, in direzione opposta, può farsi utilmente leva sul cd.
principio di immanenza della costituzione di parte civile, di cui all’art. 76 c.p.p. 1988, comma 2, il quale implica soltanto che detta costituzione, una volta ammessa, "attribuisce il diritto di partecipare a tutte le fasi successive a quella iniziale individuata dal menzionato art. 79" (Cass., 20 gennaio 2006, n. 1184).
La pronuncia di questa Corte che i ricorrenti allegano a sostegno del loro assunto (v. Cass., 23 gennaio 2003, n. 996) attiene, per vero, ad ipotesi diversa da quella che al presente viene in considerazione:
essendosi infatti nell’occasione affermato che, ai fini della legittimazione alla proposizione della domanda di equa riparazione, il rinvio dell’udienza penale, conseguente all’accertata nullità del decreto di citazione a giudizio dell’imputato, non comporta la caducazione degli effetti della costituzione di parte civile che sia già ritualmente avvenuta ai sensi dell’art. 78 cod. proc. pen..
Conclusione, questa, supportata peraltro dal rilievo che, in quel caso, la costituzione di parte civile poteva essere effettuata anche prima del compimento delle formalità di apertura del dibattimento e della verifica della ritualità della citazione a giudizio delle parti e dello stesso imputato (al riguardo, v. ancora Cass., 20 gennaio 2006, n. 1184).
Donde, in conclusione, la correttezza anche della statuizione con cui il decreto impugnato ha dichiarato il ricorso ammissibile con esclusivo riguardo ai ricorrenti costituiti parte civile nel procedimento per attentato contro organi costituzionali ed alto tradimento a carico del B. ed altri (lett. d della narrativa).
5. – Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto infondata nel merito la domanda da essi proposta, sul rilievo che l’eccessiva durata dei processi in questione risultava addebitatile esclusivamente ad apparati pubblici estranei al "sistema giustizia" e segnatamente ad "azioni di ostruzionismo" integrative di illeciti penali.
In tal modo, la Corte territoriale, per un verso" non si era confrontata con la complessità delle ragioni poste a fondamento del ricorso, alla stregua delle quali le azioni sopra indicate non esaurivano affatto le ragioni dell’allungamento dei tempi del procedimento, che andavano ricercate anche, ed innanzi tutto, nell’abnorme ed immotivata durata della fase dell’istruzione sommaria davanti al Pubblico Ministero, protrattasi ben oltre il termine previsto dall’art. 392 bis cod. proc. pen. 1930, e, quindi, nelle omissioni e nei ritardi delle amministrazioni chiamate a coadiuvare il giudice nell’accertamento.
Per altro verso, poi, la stessa Corte aveva a torto escluso che i comportamenti degli appartenenti a dette amministrazioni potessero farsi rientrare fra quelli "di ogni altra autorità chiamata a concorrere" con il giudice del procedimento, di cui è parola nella L. n. 89 del 2001, art. 2 e che, secondo la giurisprudenza tanto della Corte europea dei diritti dell’uomo che di questa Corte, comprendono qualunque condotta posta in essere da organi dello Stato chiamati ad integrare il servizio giustizia, nonchè qualunque fattore organizzativo di ordine generale riconducibile all’attività o all’inerzia dei pubblici poteri.
Nè a diversa conclusione poteva pervenirsi sulla base della considerazione che si era al cospetto di azioni dolose riconducibili ad ipotesi di reato, giacchè nello schema della L. n. 89 del 2001 il riconoscimento dell’equa riparazione prescinde dalla verifica dell’elemento soggettivo a carico di un agente, essendo ancorato soltanto all’accertamento di un evento lesivo del diritto della persona, garantito dalla Convenzione, alla durata ragionevole del processo.
6. – Con il quarto motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, medesimo art. 2, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, per avere la Corte d’appello valorizzato – ai fini dell’esclusione della dedotta violazione del diritto alla ragionevole durata – le peculiarità del procedimento presupposto sulla base di considerazioni assolutamente generiate, trascurando i dati specifici da essi evidenziati nonchè l’abnorme durata del procedimento stesso.
7. – I due motivi ora indicati – che vanno esaminati congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, e la cui incidenza resta peraltro limitata al procedimento contro il B. ed altri, stante l’esito dei motivi precedenti – sono fondati.
A mente della L. n. 89 del 2001, art. 2, l’accertamento della violazione del termine ragionevole di durata del processo passa, infatti, attraverso un percorso segnato dalla valutazione della complessità del caso e, in relazione a questa, del comportamento delle parti e del giudice del procedimento presupposto, nonchè di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire comunque alla sua definizione.
Ne consegue che, nel procedere a detto accertamento, il giudice dell’equa riparazione è chiamato anzitutto ad individuare l’intero arco temporale del processo presupposto; indi a selezionare i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli riferibili invece all’operato del giudice e delle altre autorità indicate dalla norma, per poi sottrarre i primi dalla durata complessiva del procedimento:
operazione, quest’ultima, il cui risultato vale ad identificare il tempo processuale imputabile all’"apparato giustizia" (inteso come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all’espletamento del servizio), in relazione al quale deve essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della durata del processo (Cass., 26 gennaio 2006, n. 1184; Cass., 3 febbraio 2004, n. 1921).
Tale percorso logico-giuridico non risulta ansare stato per converso seguito dalla Corte territoriale, la quale, con il decreto impugnato, non ha provveduto a determinare, in apicibus, l’arco temporale complessivo durante il quale si è svolto il processo in questione, avuto riguardo segnatamente alle date nelle quali i ricorrenti si sono costituiti parte civile: essendosi limitata soltanto a rilevare che l’attentato ad organi costituzionali e l’alto tradimento ascritti al B. ed ai suoi coimputati si erano verificati "non già il 27 giugno 1980" (data della tragedia di Ustica) "ma successivamente" (p. 2.5.1 della motivazione) e che alcuni dei ricorrenti si erano costituiti parte civile nel relativo processo penale – allora pendente dinanzi alla Corte d’assise d’appello di Roma – "come da certificazione di quell’ufficio in data 25 settembre 2002 in atti" (p. 2.4).
In assenza di qualsiasi ulteriore specifico riferimento al processo in questione – pure indicato come unico residuo tema dell’indagine nel merito (p. 2.5 ss.) – anche per quanto attiene alle singole fasi in cui esso si era articolato ed alla loro durata, la Corte di merito ha quindi escluso la configurabilità della dedotta violazione del principio di ragionevole durata sulla base di considerazioni generiche ed astratte, svolte peraltro secondo una sequenza inversa rispetto alla prefigurata dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2.
Ossia dapprima negando che la durata – peraltro nella specie non determinata – del processo potesse essere addebitata al Ministero della giustizia, in quanto dipendente "essenzialmente" da comportamenti di "depistaggio" di appartenenti ad altre amministrazioni "posti in essere dolosamente in violazione di norme proibitive" (pp. 2.5.2.1 e 2.5.2.2)) per poi porre l’accento sulla eccezionale complessità del caso, desunta dalle "proporzioni enormi" del "processo per la tragedia di Ustica", caratterizzato da "accertamenti peritali di complessità senza pari" preceduti "dalle difficoltà di recupero del relitto", al punto da aver "ricevuto dal legislatore un trattamento unico" sul piano della disciplina processuale.
Siffatte considerazioni risultano peraltro Inidonee a giustificare la conclusione raggiunta.
Quanto alla seconda – prioritaria sul piano logico – vale infatti osservare come i diversi parametri sulla base dei quali, giusta quanto ripetutamele affermato, va formulato il giudizio di merito sulla complessità del caso ai fini previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 e dall’art. 6 della Convenzione – materia e tipo di procedura trattata; novità o serialità delle questioni discusse; numero delle parti e delle domande; tipologia (quantitativa e qualitativa) dell’istruttoria espletata; presenza di subprocedimenti – debbano essere, per un verso, puntualmente individuati; e, per altro verso, necessariamente calati nella concretezza dello specifico procedimento presupposto nel quale si assume verificata la violazione del principio di ragionevole durata: procedimento che, nel caso del B. e coimputati – come la stessa Corte territoriale rimarca – ha ad oggetto fatti distinti e cronologicamente successivi alla vicenda di Ustica.
In ogni caso, poi – come questa Corte non ha mancato di avvertire (Cass., 20 gennaio 2006, n. 1184) – la complessità del caso non consente di prescindere totalmente dal dato temporale, sia perchè il giudice deve farvi fronte con un più risoluto impegno ed attivando tutti i possibili rimedi; sia perchè la valutazione relativa alla violazione del principio di ragionevole durata deve risultare comunque conforme alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Di modo che, se pure i limiti temporali individuati in via generale da quest’ultima ai fini del rispetto del predetto principio – quale, in specie, il termine di tre anni per l’esaurimento del primo grado di merito dei processi penali ordinari – non debbono essere intesi in senso assoluto, rimanendo valicabili, per affermazione della stessa Corte europea, in presenza di problemi istruttori o di altro tipo di non facile soluzione ( Cass., 26 aprile 2005, n. 858); pur tuttavia, anche nelle ipotesi ora indicate è consentito discostarsi dai parametri cronologici di massima solo in misura ragionevole: ferma restando, altresì, l’esigenza che l’apprezzamento relativo alla ragionevolezza dello scostamento sia sorretto da argomentazioni concrete, logicamente coerenti e congrue (Cass. 26 aprile 2005, n. 8600; v. pure Cass. 2 marzo 2004, n. 4207).
Altrettanto inadeguata si palesa poi l’altra affermazione della Corte d’appello, alla stregua della quale l’eccessiva durata del processo in questione dovrebbe essere comunque imputata, non già al cattivo funzionamento del sistema giudiziario, ma a condotte "ostruzionistiche" (esse neppure, peraltro, specificamente individuate) "di militari, servizi segreti, gestori di aeroporti e porti", tese ad ostacolare lo svolgimento delle indagini, e delle quali il Ministero della giustizia non potrebbe essere in alcun modo chiamato a rispondere.
Tale asserto si palesa, anzitutto, privo del necessario collegamento logico con l’unico processo penale la cui ragionevole durata la Corte territoriale si riconosceva abilitata a scrutinare nel merito.
Secondo quanto si afferma nello stesso decreto impugnato, infatti, il processo per attentato ad organi costituzionali e alto tradimento a carico del Ba. e coimputati era diretto proprio ad accertare taluni dai comportamanti di "depistaggio" considerati (p. 2.5.2.2 dalla motivazione del decreto impugnato): onde non è dato comprendere – ne si chiarisce – in qual modo i comportamenti criminosi in parola possano assurgere a causa efficiente dell’eccessiva durata di un processo iniziato successivamente ad essi e proprio allo scopo di acclararne la commissione.
Al di là di ciò, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 – nel prevedere che: nella valutazione della ragionevole durata del processo, debba tenersi conto del comportamento di ogni "altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione" – mira a rendere rilevanti, ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, anche condotte di soggetti ulteriori rispetto al giudicai soggetti che, alla luce dell’espressione usata – "altra autorità" – non possono essere identificati unicamente nei collaboratori e negli ausiliari del giudice stesso, ma comprendono anche organi diversi ("altri") rispetto a quello giudiziario, purchè connotati, al pari di questo, come "autorità": e, dunque, anche autorità amministrative la cui attività abbia in concreto inciso sulla procedura in contestazione, in quanto chiamate concretamente a collaborare nell’espletamento di incombenze finalizzata a garantire lo sviluppo di quel processo (Cass., 26 gennaio 2006, n. 1184; Cass., 2 novembre 2004, n. 21045;
Cass., 24 ottobre 2003, n. 16053).
Allorchè, peraltro, ricorra l’indicata condizione, la circostanza che i comportamenti dei funzionar delle predette autorità, che hanno ritardato la definizione del procedimento, si connotino come dolosi o colposi, resta affatto ininfluente ai fini considerati. Tale circostanza può assumere bensì rilievo ai fini disciplinari ed in sede contabile, quale fonte di responsabilità per il danno arrecato allo Stato (cfr. della L. n. 89 del 2001, art. 5), nonchè in sede penale, in rapporto alla eventuale configurabilità di (ulteriori) reati a carico dei funzionar stessi: ma non nel giudizio per equa riparazione, quale causa di diniego della medesima, essendo l’indennizzo riconosciuto in dipendenza di ogni prolungamento del processo provocato tanto dalle scelte organizzative, quanto dalle obiettive disfunzioni ed inefficienze palesate dal sistema dianzi individuato, cui è affidato il compito di dare risposta alla domanda di giustizia, a prescindere dalla configurabilità o meno di specifiche manchevolezze, ovvero del dolo o della colpa dei soggetti chiamati a concorrervi (Cass., 26 gennaio 2006, n. 1184; Cass., 9 gennaio 2004, n. 119).
8. – Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, censurando il decreto impugnato nella parte in cui afferma che essi sarebbero venuti meno all’onere probatorio riguardo al pregiudizio subito per l’irragionevole durata del processo, ed anzi, ancor più a monte, allo stesso onere di allegazione delle voci di danno.
Posto, infatti, che i ricorrenti avevano richiesto la somma di L. cinquecento milioni ciascuno a titolo di risarcimento del danno morale per le sofferenze derivanti dal mancato soddisfacimento delle aspettative di giustizia in tempi ragionevoli, la Corte territoriale avrebbe a torto trascurato la possibilità di far ricorso, in materia, alla prova presuntiva ed alla liquidazione in via equitativa.
9. – Anche tale motivo è fondato.
Per orientamento ormai costante di questa Corte, dopo l’intervento delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n. 1338;
Cass., sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1339), il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di ordine psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca a chi ne è titolare: sicchè, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – una volta accertata quest’ultima deve, invece, considerarsi di regola in re ipsa la prova del relativo pregiudizio, che il giudice deve ritenere quindi esistente, sempre che non constino, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che il danno in questione sia stato subito del ricorrente (come tipicamente avviene, ad esempio, nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte stessa percepisce come a se favorevoli) (ex plurimis, tra le ultime Cass., 11 novembre 2005, n. 21857; Cass., 28 ottobre 2005, n. 21094; Cass., 3 ottobre 2005, n. 19288; Cass., 29 settembre 2005, n. 19029).
Nel caso di specie, dunque – contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale – la mancanza di una prova specifica, da parte dei ricorrenti, circa la sussistenza del danno non patrimoniale, e anche l’omessa allegazione delle singole "voci" di pregiudizio morale connesse alla dedotta violazione del principio di ragionevole durata, non possono costituire ragione di reiezione della loro domanda, in difetto delle particolari circostanze dianzi evidenziate.
10. – Il decreto impugnato va dunque cassato in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, la quale provvedere ad una nuova disamina nel merito della domanda di equa riparazione limitatamente al procedimento penale per attentato ad organi costituzionali ed alto tradimento a carico di B.L. ed altri, nonchè ai ricorrenti costituitisi parte civile in tale procedimento, attenendosi ai principi di diritto enunciati nei paragrafi 7 e 9 che precedono.
Il Giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, accoglie, nei termini di cui in motivazione, il terzo, il quarto ed il quinto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2006