Ricorso n. 3357/2010 proposto avverso la decisione del Tribunale amministrativo regionale del Lazio -Sede di Roma – n. 12593/2009
Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio -Sede di Roma – ha parzialmente respinto il ricorso con il quale era stato chiesto dall’impresa odierna appellante Vodafone Omnitel N.V l’annullamento del provvedimento adottato nei propri confronti dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato con cui, ravvisata una pratica commerciale scorretta in violazione degli artt. 20, 21 e 22 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 ("Codice del Consumo"), essa ne aveva vietato l’ulteriore diffusione e le aveva irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria .
La società odierna appellante era insorta avverso il provvedimento irrogativo della sanzione prospettando talune violazioni di natura procedimentale (nell’atto di avvio, come nel successivo atto integrativo, sarebbe mancata l’indicazione della specifica condotta rimproverata al gestore mobile nonché il titolo giuridico ed i motivi di imputazione della condotta; non sarebbe stato indicato per quale comportamento o motivo gli operatori telefonici, tra cui Vodafone, avrebbero dovuto rispondere dell’operato di un altro soggetto, – il provider David2-) e lamentando la lesione del proprio diritto di difesa e l’omessa garanzia del contraddittorio sulle contestazioni.
Nel merito, ha sostenuto che la sanzione ad essa irrogata, oltre che sproporzionata era ingiusta in quanto conseguenza di una inammissibile estensione delle disposizioni consumeristiche in violazione dei precetti sull’illecito amministrativo che vietavano la configurazione di forme di responsabilità oggettiva.
Il Tribunale amministrativo regionale ha analiticamente esaminato le dedotte censure. respingendo in primo luogo quelle di natura procedimentale; ha parimenti disatteso le doglianze di merito ed ha accolto il ricorso soltanto in punto di quantificazione della sanzione. Affermando che vi era stata sottovalutazione ( od omessa valutazione) da parte dell’Autorità dell’emergenza processuale rappresentata dalla circostanza che nella consumazione dell’illecito la condotta omissiva di Vodafone era stata senza dubbio subvalente rispetto alla condotta attiva del provider, che aveva realizzato e diffuso il messaggio.
Da ciò ha fatto discendere l’incongruenza di un importo base, sia pure di poco, superiore a quello in concreto inflitto alla società materialmente responsabile della condotta. Ha pertanto affermato che la misura della sanzione da irrogare a Vodafone doveva essere rideterminata dalla stessa Autorità, nel suo importo base, in esecuzione della sentenza, e tenendosi altresì in considerazione che l’applicazione di "circostanze aggravanti" si appalesava corretta, e delle stesse doveva tenersi debitamente conto nella rideterminazione della sanzione.
L’originaria ricorrente di primo grado rimasta soccombente ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento in quanto viziata da errori di diritto ed illegittima: la Vodafone non aveva in nessun modo partecipato alla condotta posta in essere dal provider David 2.
Tale condotta doveva pertanto essere attribuita unicamente a quest’ultimo.
Ha in particolare riproposto le doglianze procedimentali già contenute nel mezzo di primo grado (nell’atto di avvio e nella integrazione era carente alcuna indicazione della condotta addebitabile a Vodafone).
La interpretazione resa dal primo giudice con riferimento agli artt. 6,12 co. II e 16 del Regolamento di procedura appariva inesatta, contraria al dato letterale, ed ignorava l’elementare precetto per cui, quantomeno prima dell’emissione del provvedimento finale, l’incolpato deve conoscere ciò di cui è accusato.
Essa avrebbe avuto diritto – avendolo tempestivamente richiesto – ad essere sentita in audizione.
L’interpretazione resa dal Tribunale amministrativo regionale dell’art. 12 co. II del Regolamento di procedura era errata: ma se fosse stata esatta essa violava l’art. 27 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 e la detta disposizione regolamentare, avrebbe dovuto essere disapplicata.
Nel merito, la "responsabilità editoriale" che si era assunto gravare sull’appellante società, postulerebbe un inesistente "potere/dovere" di controllo sull’operato del provider: al contrario, però, l’appellante ha dimostrato che il provider si era reso inottemperante agli obblighi negoziali contratti con l’appellante medesima.
Il primo giudice aveva quindi obliato circostanze pacifiche e soprattutto, avrebbe modificato la prospettiva seguita dall’Autorità, di fatto sostituendosi ex post (e quanto ormai l’appellante non poteva più difendersi) all’organo di amministrazione attiva.
Il presunto difetto di predisposizione di un sistema di monitoraggio asseritamente riscontrato dal Tribunale amministrativo, in realtà non esisteva: al contrario l’appellante aveva predisposto idonei sistemi di controllo (ma nel procedimento innanzi all’Autorità era mancata alcuna istruttoria sul punto, proprio perché quest’ultima aveva perseguito una impostazione del tutto difforme da quella ipotizzata dal Tribunale amministrativo regionale),
Nessuna pronuncia v’era stata sul quarto, quinto, e sesto motivo del mezzo di primo grado: era palese il vizio di cui all’art. 112 del codice di procedura civile.
Né l’art. 2049 del codice civile né l’art. 2195 del codice civile potevano indurre a configurare la esistenza di un onere di sorveglianza in capo ad una impresa sulla condotta di una impresa terza, alla prima legata da un mero rapporto negoziale sinallagmatico.
Né l’appellante avrebbe potuto imporre a David 2 alcunché.
L’appellante aveva svolto una diligente opera di controllo preventivo: se tale controllo si era dimostrato insufficiente ciò era ascrivibile unicamente al provider (che aveva pubblicato sul proprio sito internet – non controllabile dall’appellante – i messaggi per cui è causa).
La facoltà (mai esercitata in concreto) di vagliare preventivamente i messaggi pubblicati dal provider era stata impedita dalla circostanza che quest’ultimo non li aveva mai sottoposti all’attenzione dell’appellante.
Conclusivamente, era stata introdotta una inammissibile forma di responsabilità oggettiva per il fatto del terzo che violava i canoni del diritto sanzionatorio. La contraddizione diveniva poi eclatante laddove i rapporti negoziali da essa intrattenuti con il provider venivano configurati, da un canto, qual rilevanti e fonte di prova del coinvolgimento dell’appellante.
Essi venivano invece del tutto obliati allorché se ne doveva valutare l’incidenza a fini dimostrativi dell’assenza di negligenza in capo a parte appellante.
Sotto altro profilo, il Tribunale amministrativo aveva travisato la nozione di "professionista" desumibile ex art. 18 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206: una tale interpretazione postulava la necessità di sollevare questione interpretativa innanzi alla Corte di Giustizia CE per violazione della Direttiva CE 11 maggio 2005 n. 29.
Ricorso n. 3445/2010 proposto avverso la decisione del Tribunale amministrativo regionale del Lazio – Sede di Roma – n. 12594/2009;
Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio – Sede di Roma – ha parzialmente respinto il ricorso con il quale era stato chiesto dall’impresa odierna appellante Wind Telecomunicazioni S.p.A., l’annullamento del provvedimento adottato nei propri confronti dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato con cui, ravvisata una pratica commerciale scorretta in violazione degli artt. 20, 21 e 22 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 ( c.d. "Codice del Consumo"), essa ne aveva vietato l’ulteriore diffusione e le aveva irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria.
La società odierna appellante era insorta avverso il provvedimento irrogativo della sanzione prospettando talune violazioni di natura procedimentale (nell’atto di avvio, come nel successivo atto integrativo, sarebbe mancata l’indicazione della specifica condotta rimproverata al gestore mobile nonché il titolo giuridico ed i motivi di imputazione della condotta; non sarebbe stato indicato per quale comportamento o motivo gli operatori telefonici, tra cui Wind, avrebbero dovuto rispondere dell’operato del provider David2) sollevando le censure di lesione del proprio diritto di difesa e di omessa garanzia del contraddittorio sulle contestazioni (violazione dell’art. 6, co. III, dell’art. 12 co. II del Regolamento di procedura 15 novembre 2007, n. 17589 e dell”art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689).
Nel merito, ha sostenuto che la sanzione ad essa irrogata, oltre che sproporzionata era ingiusta in quanto conseguenza di una inammissibile estensione delle disposizioni in materia di illecito consumeristico in violazione dei precetti sull’illecito amministrativo che vietavano la configurazione di forme di responsabilità oggettiva.
Il Tribunale amministrativo regionale ha analiticamente esaminato le dedotte censure respingendo in primo luogo quelle di natura procedimentale; ha parimenti disatteso le doglianze di merito ed ha accolto il ricorso soltanto in punto di quantificazione della sanzione affermando che vi era stata sottovalutazione (od omessa valutazione) da parte dell’Autorità dell’emergenza processuale rappresentata dalla circostanza che nella consumazione dell’illecito la condotta omissiva di Wind era stata senza dubbio subvalente rispetto alla condotta attiva del provider, che aveva realizzato e diffuso il messaggio.
Da ciò ha fatto discendere l’incongruenza di un importo base, sia pure di poco, superiore a quello in concreto inflitto alla società materialmente responsabile della condotta.Ha pertanto affermato che la misura della sanzione da irrogare a Wind doveva essere rideterminata dalla stessa Autorità, nel suo importo base, in esecuzione della sentenza, e tenendosi altresì in considerazione la circostanza che l’applicazione di "circostanze aggravanti" si appalesava corretta, e delle stesse doveva tenersi debitamente conto nella rideterminazione della sanzione.
L’originaria ricorrente di primo grado rimasta soccombente ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento in quanto viziata da errori di diritto ed illegittima. L’appellante non aveva in nessun modo partecipato alla condotta posta in essere da David 2 che doveva essere attribuita pertanto unicamente a quest’ultima.
Essa, peraltro, aveva tempestivamente rappresentato all’Autorità che nessuno dei segnalanti era un proprio cliente: non avendo posto in essere alcuna condotta materiale e/o compartecipativa e neppure agevolativa, non era ammissibile che essa fosse stata sanzionata
Ha in particolare riproposto le doglianze procedimentali già contenute nel mezzo di primo grado (nell’atto di avvio e nella integrazione era carente alcuna indicazione della condotta ad essa addebitabile).
La interpretazione resa dal primo giudice con riferimento agli artt. 6,12 co.II e 16 del Regolamento di procedura appariva inesatta, contraria al dato letterale, ed ignorava l’elementare precetto per cui, quantomeno prima dell’emissione del provvedimento finale, l’incolpato deve conoscere ciò di cui è accusato.
Essa avrebbe avuto diritto – avendolo tempestivamente richiesto – ad essere sentita in audizione. L’interpretazione resa dal Tribunale amministrativo regionale dell’art. 12 co.II del Regolamento di procedura era errata: ma se fosse stata esatta essa violava l’art. 27 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 e la detta disposizione regolamentare, avrebbe dovuto pertanto essere disapplicata.
Nel merito, la "responsabilità editoriale" che si era assunto gravare sull’appellante società, postulerebbe un inesistente "potere/dovere" di controllo sull’operato del provider: al contrario, però, l’appellante ha dimostrato che il provider si era reso inottemperante agli obblighi negoziali contratti con l’appellante medesima.
Il primo giudice aveva quindi obliato circostanze pacifiche e soprattutto, avrebbe modificato la prospettiva seguita dall’Autorità, di fatto sostituendosi ex post (e quanto ormai l’appellante non poteva più difendersi) all’organo di amministrazione attiva.
Il presunto difetto di predisposizione di un sistema di monitoraggio asseritamente riscontrato dal Tribunale amministrativo regionale, in realtà non esisteva: al contrario l’appellante aveva predisposto idonei sistemi di controllo (ma nel procedimento innanzi all’Autorità era mancata alcuna istruttoria sul punto, proprio perché quest’ultima aveva perseguito una impostazione del tutto difforme da quella ipotizzata dal Tribunale amministrativo regionale).
Nessuna pronuncia v’era stata sul quarto, quinto, sesto, settimo ed ottavo motivo del mezzo di primo grado: era palese il vizio di cui all’art. 112 del codice di procedura civile.
Né l’art. 2049 del codice civile né l’art. 2195 del codice civile potevano indurre a configurare la esistenza di un onere di sorveglianza in capo ad una impresa sulla condotta di una impresa terza alla prima legata da un mero rapporto negoziale sinallagmatico.
Né l’appellante avrebbe potuto imporre a David 2 alcunché.
L’appellante aveva invece svolto una diligente opera di controllo preventivo: se detto controllo si era dimostrato insufficiente ciò era ascrivibile unicamente al provider (che aveva pubblicato sul proprio sito internet, non controllabile dall’appellante, i messaggi per cui è causa).
La facoltà (mai esercitata in concreto) di vagliare preventivamente i messaggi pubblicati dal provider era stata impedita dalla circostanza che quest’ultimo non li aveva mai sottoposti all’attenzione dell’appellante.
Era stata introdotta una inammissibile forma di responsabilità oggettiva per il fatto del terzo che violava i canoni del diritto sanzionatorio.
La contraddizione diveniva poi eclatante, laddove i rapporti negoziali da essa intrattenuti con il provider veniva configurati, da un canto, qual rilevanti e fonte di prova del coinvolgimento dell’appellante, e del tutto obliati allorché se ne doveva valutare l’incidenza a fini dimostrativi dell’assenza di negligenza in capo a parte appellante.
Sotto altro profilo, il Tribunale amministrativo aveva travisato la nozione di "professionista" desumibile ex art. 18 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206: una tale interpretazione postulava la necessità di sollevare questione interpretativa innanzi alla Corte di Giustizia CE per violazione della Direttiva CE 11 maggio 2005 n. 29.
All’udienza pubblica del 21 gennaio 2011, presenti i difensori delle parti costituite come da verbale d’udienza, i ricorsi venivano trattenuti in decisione.

DIRITTO
1.I ricorsi in appello devono essere riuniti per connessione oggettiva e parzialmente soggettiva. Nel caso in esame, infatti, le impugnazioni (non a caso identiche con riferimento alle doglianze prospettate) sono state proposte da due società, rivestenti la stessa qualità e posizione, che con i ricorsi di primo grado avevano censurato lo stesso provvedimento sanzionatorio (n. 19202 del 26 novembre 2008 reso dall’Autorità nell’ambito di un unico procedimento a carico del provider David 2 e di numerosi gestori telefonici).
Devono pertanto essere riuniti e definiti con un’unica decisione anche gli odierni appelli sebbene rivolti avverso sentenze diverse, in quanto comportanti la soluzione di identiche questioni sollevate nei riguardi dei medesimi provvedimenti impugnati in primo grado (si veda Consiglio Stato , sez. IV, 17 giugno 2003, n. 3415).
2. Essi sono infondati e devono essere respinti.
3. Le identiche censure proposte verranno esaminate congiuntamente, dandosi atto di volta in volta degli eventuali profili di specificità riguardanti le posizioni delle appellanti società.
4. In ossequio al principio di gradualità e pregiudizialità verranno in primo luogo esaminate le doglianze di natura endoprocedimentale volte a postulare l’integrale illegittimità dell’azione amministrativa spiegata dall’Autorità e trasmodante sul provvedimento finale impugnato.
4.1. A tale proposito, la prima doglianza da esaminare riposa nell’asserita violazione degli artt. 6 e 16 del Regolamento di procedura 15 novembre 2007, n. 17589 ovvero nella illegittimità delle prescrizioni in esso contenute.
La critica non è persuasiva.
Il concreto dipanarsi del procedimento ha consentito alle imprese coinvolte di articolare pienamente le proprie difese; non esiste un principio generale in base al quale la concreta modulazione delle garanzie difensive -comunque da assicurare in fase infraprocedimentale- debba strutturarsi attraverso la immediata formulazione della ipotesi d’accusa né attraverso la integrale ostensione delle fonti di prova a carico (circostanza quest’ultima comunque avvenuta).
La qualificazione giuridica della condotta ascritta ad un soggetto giuridico del quale si postula il coinvolgimento in un illecito – anzi – può risentire della iniziale fluidità della impostazione accusatoria, per poi compiutamente definirsi con l’atto finale (che non a caso tiene conto delle precisazioni e delle eventuali discolpe fornite dalla impresa medesima).
Tale evenienza è proprio quella verificatasi nel caso in esame laddove il riferimento all’illecito perpetrato ha subito una significativa riduzione nel corso del procedimento sol che si consideri che la contestazione iniziale menzionava disposizioni del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 (artt. 23-26) non indicate nel provvedimento finale
Nel caso di specie, sin dalla fase embrionale della procedura sanzionatoria, l’Autorità si diede carico di precisare quale fosse l’elemento materiale della condotta e per quali motivi la campagna pubblicitaria in esame apparisse violare le regole di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206.
Autorevole giurisprudenza ha ritenuto perfettamente legittimo detto modus procedendi ("in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative, previsto dall’art. 187 septies del d.lg. 24 febbraio 1998 n. 58, postula solo che, prima dell’adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato; pertanto, non violano il principio del contraddittorio l’omessa trasmissione all’interessato delle conclusioni dell’ufficio sanzioni amministrative della Consob e la sua mancata personale audizione innanzi alla Commissione, non trovando d’altronde applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo di procedimento giurisdizionale."
– Cassazione civile , sez. un., 30 settembre 2009 , n. 2093-): ritiene il Collegio che nessuna lesione al diritto di difesa ed ai principi del giusto procedimento sia ravvisabile.
4.2. Anche la doglianza fondata sull’asserito malgoverno dell’art. 12 comma II del predetto Regolamento di procedura merita la reiezione.
La citata disposizione così recita: "Il responsabile del procedimento, ove ciò sia necessario ai fini della raccolta o della valutazione degli elementi istruttori, o venga richiesto da almeno una delle parti, può disporre che le parti siano sentite in apposite audizioni nel rispetto del principio del contraddittorio, fissando un termine inderogabile per il loro svolgimento.".
La espressa dizione della norma ("può disporre") è chiaramente riferita ad entrambe le evenienze in cui l’audizione viene ritenuta necessaria (e cioè sia laddove la necessità discenda da una valutazione promanante dall’Autorità medesima che laddove sia stata una delle parti del procedimento a richiederla).
L’indicazione è pleonastica laddove riferita alla prima evenienza (è ovvio che se si ritiene necessario procedere ad audizione debba potersi disporre il predetto incombente).
Rivela tutta la sua pregnanza nel senso della facoltatività del potere di disporre o meno l’audizione, nella seconda fattispecie descritta (laddove cioè essa sia stata richiesta dalla parte).
Ciò risponde ad una generale esigenza di non aggravio dei procedimenti ed è coerente con la premessa secondo cui pertiene al responsabile del procedimento la valutazione della completezza – o meno – dell’istruttoria sino a quel momento svolta.
Si inquadra armonicamente nel sistema ad istruttoria scritta che governa il procedimento amministrativo.
In contrario senso le appellanti invocano il disposto dell’art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689 – che prevede l’obbligatoria audizione dell’incolpato che ne abbia fatto richiesta – e le tassative conseguenze che dalla violazione di tale disposizione discenderebbero ("la mancata audizione dell’interessato, che ne abbia fatto richiesta, da parte dell’autorità competente a ricevere il rapporto, costituisce una violazione di regola procedimentale, il cui rispetto è prescritto dall’art. 18 l. 24 novembre 1981 n. 689 a garanzia del diritto di difesa del presunto trasgressore nella fase amministrativa, e questa violazione rende illegittima l’ordinanza – ingiunzione emanata a conclusione del procedimento stesso."- Cassazione civile , sez. I, 21 luglio 2004 , n. 13505)
Anche sotto tale profilo la doglianza non persuade: proprio l’art. 27 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 invocato dalle appellanti, infatti, nel richiamare le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689 applicabili (nei limiti della compatibilità, peraltro) ai procedimenti in materia di illecito consumeristico esclude che l’intera sezione II del capo I della legge (artt. 13 – 31) possa trovarvi ingresso.
La censura merita quindi la reiezione: del resto analogo divisamento era stato già in passato manifestato dalla Sezione (con riguardo all’antevigente disciplina) essendosi condivisibilmente affermato che "in materia di pubblicità ingannevole (l’art. 8, d.P.R. 10 ottobre 1996 n. 627) faculta il responsabile del procedimento a far luogo all’audizione, anche su istanza di parte, dei soggetti interessati ove tale incombente sia utile ai fini istruttori. La disposizione, tuttavia, non va letta nel senso che ad ogni richiesta del soggetto interessato debba corrispondere un obbligo di sua audizione, ma va sempre correlata alle esigenze istruttorie che dall’espletamento di tale incombente possono venire soddisfatte. Tanto più che la disposizione non interferisce con i diritti partecipativi dell’interessato di cui all’art. 7, i quali si compendiano nella possibilità di prendere visione degli atti del procedimento nonché di presentare memorie e documenti."(Consiglio Stato, sez. VI, 23/07/2009, n. 4598)
5. Quanto poi al denunciato vizio ex art. 112 del codice di procedura civile asseritamente attingente la impugnata decisione, ritiene la Sezione di condividere la tradizionale impostazione secondo cui "l’omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all’art. 112, c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo." (Consiglio Stato , sez. IV, 16 gennaio 2006, n. 98).
In punto di verifica della fondatezza della predetta censura l’univoco insegnamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato ritiene che "il vizio di omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertato con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile."(Consiglio Stato , sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).
Esso, a parere del Collegio non sussiste.
I primi giudici hanno condiviso l’impianto sostanziale del provvedimento impugnato nella parte in cui quest’ultimo ha statuito che a cagione di un duplice dato oggettivo – riposante nella accertata percezione da parte dell’appellante di proventi del traffico telefonico discendente dalla campagna pubblicitaria in oggetto mercè il meccanismo del c.d. "revenue sharing" (circostanza, questa incontestata); e nell’effetto pubblicitario indiretto ricavabile dall’avere associato il proprio marchio a quello del provider (circostanza, questa contestata dagli appellanti gestori sotto un duplice profilo e sulla quale di seguito ci si soffermerà)- fosse configurabile in capo alle predette società un onere di penetrante controllo e che questo non fosse stato adempiuto
Appare evidente pertanto che, sia pure non fornendo analitica e partita risposta sulle questioni dedotte nei sopracitati motivi del ricorso di primo grado, essi si sono implicitamente pronunciati sulle medesime, respingendole, avendo riscontrato la legittimità degli atti impugnati in primo grado sotto profili assorbenti rispetto alla portata delle censure medesime.
Ritiene il Collegio di potere condividere detto modus procedendi, e che nel caso di specie non sia ravvisabile alcuna lesione del principio di cui all’art. 112 del codice di procedura civile; in ogni caso, si deve rilevare che -anche laddove il vizio denunciato fosse stato effettivamente sussistente- nessun concreto beneficio ne sarebbe disceso in favore delle appellanti posto che "l’omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l’annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa."(Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289).
5.2. In ultimo, prima di affrontare il merito delle censure, appare opportuno precisare che neppure coglie nel segno la censura secondo cui le appellate decisioni muterebbero sensibilmente la prospettiva seguita dall’Autorità.
I Gestori appellanti sostengono, sostanzialmente, che il primo giudice avrebbe "riscritto" il provvedimento sanzionatorio svolgendo una inammissibile attività di riqualificazione del fatto e giungendo per tal via a contestare una "responsabilità editoriale" in precedenza mai neppure evocata.
Così travalicando i compiti propri del giudicante e, al contempo, ledendo il diritto di difesa delle incolpate che si sono trovate di fronte ad una affermazione di responsabilità relativa ad una ipotesi di accusa mai contestata in precedenza.
Tale censura non appare aderente al dato processuale.
È bene rammentare in proposito che il provvedimento impugnato così sintetizzava il nucleo della contestazione a carico dei gestori "il semplice carrier della proposta contrattuale e dell’accettazione, infatti, non risponde dell’ingannevolezza del messaggio per esserne stato il "vettore", e ciò a maggior ragione quando, come nella specie, è solo vettore dell’accettazione definitiva da parte del suo cliente nel momento in cui invia il proprio sms; e ciò neanche quando nel rapporto contrattuale interno con il professionista che propone il servizio si sia riservata una sorta di diritto di censura….. I predetti poteri di controllo assumono, invece, nel caso di specie, rilievo ai fini probatori in ragione della evidenziata situazione di cointeressenza delle società telefoniche rispetto all’attività commerciale pubblicizzata e ai messaggi pubblicitari oggetto del procedimento.
Ulteriore conferma della stretta collaborazione sinergica tra content provider e gestori mobili nella promozione, commercializzazione e fornitura dei servizi in abbonamento a contenuti per cellulari è, infine, rappresentata dallo stesso Codice di Condotta (CASP) che è stato redatto in forma coordinata e stimolato dai gestori di telefonia mobile, i quali hanno ottenuto la sottoscrizione dello stesso da parte dei principali content provider proprio al fine di disciplinare la stretta collaborazione necessaria per la promozione, vendita e fornitura dei servizi a decade 4 in questione nei confronti dei clienti dei gestori mobili.".
Tale differenziata valutazione della condotta dei gestori (che traeva le mosse dal potere/dovere di controllo sui medesimi incombente) rispetto a quella del provider veniva ribadita nella parte finale del provvedimento impugnato, in punto di quantificazione della sanzione ("Si deve, altresì, tenere conto dello specifico ruolo svolto dal content provider rispetto ai gestori di telefonia mobile nella pratica commerciale oggetto del presente provvedimento").
Ed anche le discolpe infraprocedimentali proposte dalle appellanti e riportate nel provvedimento impugnato erano tese a negare il proprio coinvolgimento nella pratica, anche a livello omissivo: (" – Wind non ha potere di intervenire su quanto pubblicato sul sito di cui è titolare esclusiva David2;
– il messaggio pubblicato sul sito internet oggetto di esame non è stato sottoposto a preventiva autorizzazione da parte di Wind; – Vodafone non ha potere di intervenire su quanto pubblicato sul sito di cui è titolare esclusiva David2;- il messaggio pubblicato sul sito Internet oggetto di esame non è stato sottoposto a preventiva autorizzazione da parte di Vodafone;).
Al di là delle espressioni definitorie utilizzate (il primo giudice ha effettivamente utilizzato il termine di "responsabilità editoriale" proponendo all’evidenza un suggestivo accostamento alla fattispecie di cui all’art. 57 del codice penale) è agevole riscontrare che non si rinviene alcun mutamento prospettico rispetto alla ipotesi tenuta presente dall’Autorità di concorso nell’illecito amministrativo riconducibile ad una condotta ascrivibile a soggetti cointeressato alla campagna pubblicitaria ed alla pratica commerciale per cui è causa.
6. Nel merito ritiene il Collegio che i gestori telefonici odierni appellanti abbiano fondato le proprie difese su argomentazioni non persuasive alla stregua del dato normativo vigente.
6.1 Deve rammentarsi che l’A.G.C.M. aveva contestato all’operatore pubblicitario suindicato David2 S.P.A. ed ai gestori telefonici (tra cui le odierne appellanti Vodafone e Wind) di aver diffuso messaggi ingannevoli per i propri potenziali fruitori in relazione alle effettive condizioni economiche cui sarebbe stata subordinata l’offerta di trasmissione di suonerie e contenuti per telefoni cellulari.
In concreto, era accaduto:
– che la società predetta avesse pubblicizzato su alcuni siti internet l’offerta di alcuni servizi c.d. ‘a valore aggiunto’ (es.: relativi allo scaricamento di loghi o suonerie per telefoni cellulari), veicolati attraverso una numerazione telefonica ‘a decade 4’ (ossia, attraverso un’utenza telefonica condivisa e gestita direttamente dagli operatori telefonici, titolari delle utenze in questione rispetto alla propria utenza finale);
– che la stessa avesse svolto il ruolo c.d. di ‘content provider’ (fornendo il contenuto ideativo del servizio offerto al pubblico), mentre ciascuno dei gestori telefonici aveva svolto il ruolo di ‘carrier’ dei messaggi, mettendo a disposizione (dietro compenso) le risorse di banda necessarie a veicolare i messaggi pubblicitari oggetto di indagine;
– che il meccanismo di remunerazione del servizio era basato sul c.d. ‘revenue sharing’, con la conseguenza che ai gestori telefonici venisse versata una percentuale del fatturato telefonico complessivo generato dalla vendita di contratti multimediali da parte della predetta società, anche a titolo di remunerazione per le attività svolte in sede di offerta dei servizi.
All’esito dell’istruttoria l’Autorità aveva ritenuto che i messaggi in questione, attraverso l’uso del termine ‘gratis’ contenessero indicazioni contraddittorie circa la totale assenza di corrispettivi da un lato, espressa mediante la promessa in regalo di contenuti gratuiti al momento dell’attivazione del servizio e il carattere oneroso dall’altro, insito nella natura del servizio in abbonamento reclamizzato. La condotta in tal modo posta in essere, quindi, concretava gli estremi dell’ingannevolezza ai sensi della lettera b) del comma 1 dell’art. 20, d.lgs. 206, cit.
Sul punto non vi è contestazione nell’ambito del presente giudizio;
– aveva altresì ritenuto che , che nell’ambito della complessiva vicenda anche gli operatori telefonici (tra cui l’odierna appellante) avesse assunto la qualifica di ‘operatori pubblicitari’, in quanto sostanzialmente co-autori dei messaggi contestati ai sensi dell’art. 20, d.lgs., cit.;
Sotto tale aspetto, l’Autorità ha affermato che sussistevano in capo ai gestori tre elementi/indici rivelatori della richiamata qualificabilità come co-autori dei messaggi contestati:
a)in primo luogo, l’esistenza di un potere (preventivo e successivo) di verifica sul contenuto dei messaggi pubblicitari, riconosciuta (sia pure, secondo modulazioni diverse) dai contratti stipulati con il content provider (primo elemento di responsabilità editoriale);
b)in secondo luogo, la circostanza per cui i gestori telefonici avessero espressamente consentito l’utilizzo dei propri loghi e segni distintivi nell’ambito delle operazioni pubblicitarie relative ai servizi reclamizzati, in tal modo palesando il proprio coinvolgimento diretto nell’ambito delle operazioni reclamizzate (secondo elemento di responsabilità editoriale);
c)in terzo luogo, il fatto che i gestori telefonici avessero tratto un diretto vantaggio economico dalle operazioni contestate dal momento che (in base al meccanismo del c.d. ‘revenue sharing’) i proventi derivanti dal traffico telefonico sulla numerazione a decade 4 nella specie utilizzata venivano ripartiti fra il fornitore di contenuti e gli stessi operatori telefonici.
6.2. La critica mossa dalle appellanti alla decisione resa dal Tribunale amministrativo e brevemente anticipata nella parte in fatto della presente decisione trova il suo presupposto in tre distinte argomentazioni (speculari al nucleo della contestazione mossa dall’Autorità).
Secondo tali premesse critiche, nessun effettivo apporto era stato arrecato dai gestori telefonici all’attività di ideazione, realizzazione e diffusione dei contenuti; l’utilizzo del proprio logo non aveva alcuna finalità pubblicitaria (né avrebbe in alcun modo potuto possederla), ma serviva unicamente a fornire un apporto informativo di carattere ‘neutrale’ alla clientela circa i servizi offerti; l’esistenza di un meccanismo di remunerazione delle risorse di banda poste a disposizione del content provider non testimonierebbe in alcun modo una cointeressenza circa gli obiettivi e i risultati della campagna pubblicitaria, ma rappresenterebbe un’ordinaria operazione svolta a condizioni di mercato, oltretutto resa necessaria dalla necessità (di tipo pro-concorrenziale) di rendere possibile l’offerta di servizi informativi che altrimenti non presenterebbero un adeguato carattere di rimuneratività.
7. Il Collegio ritiene che tali argomenti non possano essere accolti.
7.1. Ad avviso del Collegio, infatti, la chiave di volta sotto il profilo logico e strutturale nell’esame della questione appena divisata è rappresentata dalla scelta (tradotta in puntuali pattuizioni negoziali) di individuare un meccanismo di remunerazione per la realizzazione delle campagne pubblicitarie oggetto di censura tale da determinare una diretta cointeressenza degli operatori telefonici appellanti nella diffusione dei messaggi e, in ultima analisi, nella migliore riuscita della campagna pubblicitaria in termini di diffusione e remuneratività.
7.2. Il funzionamento del richiamato meccanismo di remunerazione, contenuto nel regolamento contrattuale definito con il content provider, prevedeva che l’operatore telefonico si impegnava a riconoscere al content provider, a titolo di corrispettivo, una quota del costo addebitato al cliente per ogni contenuto/servizio da questi acquistato (c.d. quota riconosciuta all’Azienda.
La parte restante del prezzo corrisposto dal cliente per i servizi forniti dal content provider era trattenuta dal Gestore a titolo di ‘revenue share’, ossia di percentuale sul fatturato complessivo generato dalla vendita dei contenuti multimediali da parte del provider, anche quale remunerazione per le attività svolte dal carrier nell’offerta dei servizi.
Ebbene, il Collegio ritiene che la scelta di collegare la messa a disposizione delle proprie risorse di banda all’operatività del richiamato meccanismo di remunerazione non si traduca nella pura e semplice cessione delle richiamate risorse a un operatore terzo e distinto secondo normali condizioni di mercato, ma si risolva nella volontaria e consapevole partecipazione a un’iniziativa di tipo imprenditoriale finalizzata alla messa a disposizione dei richiamati servizi e alla massimizzazione degli utili conseguentemente ritraibili.
L’aver consapevolmente optato per un meccanismo di remunerazione il quale collegava in modo inscindibile l’apporto dell’operatore telefonico (indispensabile alla realizzazione e diffusione della campagna pubblicitaria) al ritorno economico dell’iniziativa, mediante un sistema di sostanziale compartecipazione sul ricavato, giustifica appieno il giudizio dell’Autorità, la quale ha ritenuto che in tal modo operando le compagnie telefoniche avessero giustificato un giudizio di riferibilità soggettiva delle campagne pubblicitarie nel loro complesso.
Al riguardo si osserva:
– che la circostanza per cui le appellanti ritraessero una quota percentuale dei proventi del traffico telefonico generato attraverso la fornitura dei servizi offerti dal provider rende chiaro che le prime non si limitassero a cedere risorse di rete a condizioni di mercato (i.e.: secondo un approccio tendenzialmente orientato alla sola copertura del costo marginale della risorsa ceduta), ma che fossero direttamente ed immediatamente interessate alla massima diffusione dei messaggi e alla conseguente massimizzazione del traffico telefonico generato (insomma, che fossero a pieno titolo compartecipi dell’iniziativa economica nel suo complesso);
– che l’opzione per un siffatto meccanismo di remunerazione eccedesse di certo il quid minimum reso necessario dalle regolazioni pro-concorrenziali di settore (finalizzate a garantire l’accesso al mercato delle risorse di rete a condizioni eque e negoziate secondo buona fede). Al contrario, nessuna regola pro-concorrenziale impone agli operatori di TLC di favorire a tal punto le iniziative loro proposte, sino ad assumerne volontariamente i connessi rischi di gestione e a collegare il proprio interesse imprenditoriale alla migliore riuscita dell’iniziativa stessa;
– che, sintomaticamente, le stesse appellanti avevano fatto presente, in primo grado, che la scelta per il richiamato meccanismo fosse finalizzata ad assicurare una adeguata remunerazione per le attività svolte [dall’operatore telefonico] nell’offerta dei servizi;
– che, conseguentemente, se la scelta del richiamato meccanismo di remunerazione non derivava da obblighi pro-concorrenziali resi vincolanti dalla regolazione di settore, essa discendeva invece da una libera scelta imprenditoriale del singolo operatore il quale aveva ritenuto economicamente conveniente partecipare a una determinata iniziativa pubblicitaria attraverso il proprio indefettibile apporto tecnico, convenendo con la controparte negoziale un meccanismo di remunerazione tale da determinare una diretta ed immediata cointeressenza alla più ampia diffusione dell’iniziativa e – in via mediata – una diretta compartecipazione alla sua maggiore remuneratività economica.
7.3. Per ragioni connesse a quelle appena evidenziate, anche la scelta di consentire l’utilizzo del proprio segno distintivo nell’ambito delle campagne oggetto di contestazione (e, in particolare, del logo d’impresa nell’ambito delle diverse schermate alle quali i potenziali clienti del servizio accedevano attivando i collegamenti resi disponibili dalla pagina iniziale predisposta dall’operatore David2 SPA), lungi dal rivestire la mera finalità informativa sulla quale hanno insistito, anche nel corso della discussione orale, le difese delle appellanti, costituiva a propria volta un’opzione idonea ad assicurare il miglior successo dell’iniziativa stessa e a rafforzare la diretta partecipazione e cointeressenza alla sua realizzazione.
Si osserva al riguardo:
– che la circostanza per cui i loghi dei principali operatori nazionali di telefonia mobile (tra cui le odierne appellanti) comparissero sulle pagine Internet dell’operatore pubblicitario conferiva ai messaggi diffusi (e di questo i Gestori coinvolti non potevano non essere consapevoli) una maggiore immagine di attendibilità, tale da indurre i potenziali clienti ad accostarsi all’offerta proposta con un più alto grado di fiducia;
– che non appare persuasivo l’argomento secondo cui l’utilizzo contestuale e congiunto dei propri loghi unitamente a quello degli altri due Gestori (quattro loghi complessivamente) non potesse sortire alcun effetto pubblicitario favorevole per ciascuno degli operatori, dal momento che nessun operatore economico accetterebbe di accostare il proprio marchio a quello di un diretto concorrente nell’ambito della medesima pubblicità.
Al riguardo si osserva:
a) che non si è contestato alle appellanti di aver partecipato all’iniziativa pubblicitaria in questione al fine di promuovere in modo diretto i propri servizi; ma si è contestata la ben diversa condotta di aver contribuito in modo determinante a favorire l’offerta pubblicitaria del provider (condotta, questa, ben compatibile con l’utilizzo contestuale e congiunto dei quattro loghi di impresa);
b) che l’interesse immediato e diretto delle odierne appellanti (e per quanto di interesse degli altri Gestori) era comunque quello di garantire la massimizzazione del traffico telefonico generato con l’offerta dei servizi a sovraprezzo offerti dal content provider e che tale massimizzazione (pur ‘pantografando’ le quote di mercato possedute da ciascun operatore e lasciando inalterata la quota percentuale rispettivamente posseduta) avvantaggiava comunque ciascuno di essi (e quindi anche le odierne appellanti) attraverso un incremento pro quota del traffico generato e – in via mediata – attraverso una più congrua ritrazione della revenue share di rispettiva spettanza.
7.4. Concludendo anche su questo punto, si può affermare che il provvedimento sanzionatorio gravato nell’ambito dei primi ricorsi risulti esente dalle censure rubricate per la parte in cui ha ritenuto la sussistenza di un comportamento attivo da parte delle compagnie telefoniche appellanti (realizzato – inter alia – attraverso la volontaria compartecipazione alla riuscita economica dell’iniziativa e attraverso la messa a disposizione dei propri segni distintivi), tale da individuare le imprese in questione (ed anche gli altri Gestori) quale soggetti co-autori della campagna pubblicitaria oggetto di contestazione.
8. È alla luce di tale impostazione che vanno quindi valutati gli ulteriori argomenti difensivi profusi dalle società appellanti.
8.1. In particolare, una volta dimostrata l’esistenza di un comportamento commissivo, idoneo a concretare la fattispecie illecita sotto il profilo oggettivo, occorre domandarsi se il medesimo comportamento possa considerarsi o meno esente da un giudizio di riprovevolezza sotto il profilo soggettivo.
8.2. Al riguardo è noto che un consolidato orientamento giurisprudenziale interpreta la previsione di cui al primo comma dell’art. 3, l. 689, cit. (secondo cui "nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa") non già nel senso dell’indifferenza in ordine alla sussistenza o meno di un comportamento – quanto meno – colposo, bensì nel senso di porre una praesumptio juris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso, riservando poi a quest’ultimo l’onere di dimostrare di aver agito senza colpa (Cass. Civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12391).
8.3. Ebbene, ritiene il Collegio che le odierne appellanti non siano in condizione di vincere la richiamata presunzione, atteso:
– che esse hanno coscientemente e volontariamente collaborato alla realizzazione dell’illecito;
– che esse rivestono la qualità di operatore professionale del settore delle comunicazioni elettroniche, disponevano di strumenti (contrattuali e conoscitivi) idonei ad prendere cognizione ed apprezzare il carattere illecito dei messaggi diffusi attraverso i propri mezzi tecnologici e che, cionondimeno, hanno consentito che la condotta illecita si realizzasse in tutta la sua portata lesiva.
– che le giustificazioni addotte, tendenti a dimostrare che esse hanno messo in opera ogni accorgimento idoneo a prevenire e ad impedire il prodursi della condotta illecita non appaiono convincenti.
9.L’esame delle pertinenti pattuizioni contrattuali rispettivamente intercorse con il content provider dimostra, da una parte, come ciascuna delle appellanti disponesse contrattualmente di strumenti in via astratta idonei a consentire un’indagine sul contenuto dei messaggi diffusi e che, in quanto operatori professionale del settore delle comunicazioni elettroniche disponessero di strumenti idonei ad apprezzare il carattere illecito dei messaggi diffusi attraverso i propri mezzi tecnologici, dall’altra, che esse erano tuttavia volte ad addossare unicamente al content provider le conseguenze di eventuali profili di illiceità sottesi alle campagne pubblicitarie in questione.
In particolare, risponde certamente al vero che i contratti stipulati con il provider davano atto della circostanza che i "contenuti" erano elaborati unicamente da quest’ultimo; che questi avrebbe dovuto attenersi ad alcuni standards; che i servizi offerti dal provider non potevano essere pubblicizzati in assenza di preventiva autorizzazione scritta delle appellanti società; e che a tale onere erano del pari genericamente sottoposte le attività promozionali da questi realizzate.
È parimenti incontestabile che nei contratti stipulati dalle appellanti con il provider erano previste sanzioni crescenti (sino alla risoluzione del rapporto negoziale) laddove tali incombenti fossero stati violati.
Tuttavia tale articolata pattuizione negoziale, da un canto non può essere invocata per traslare esclusivamente su un altro soggetto la esclusiva responsabilità della condotta posta in essere in relazione ad una iniziativa imprenditoriale che arrecava vantaggio economico ad entrambi.
Sotto altro profilo, essa non può costituire efficace scriminante per condotte di rilievo pubblicistico (quale indubbiamente è la commissione di un illecito sanzionato amministrativamente).
Ed infatti: laddove si avallasse un siffatto criterio distributivo, si ammetterebbe la sostanziale disapplicazione in via pattizia dei criteri legali di determinazione della responsabilità da illecito (criteri certamente ascrivibili all’ambito delle clausole di ordine pubblico e in quanto tali sottratti al potere dispositivo dei soggetti privati). Ancora, laddove si consentisse il pieno dispiegarsi delle richiamate clausole di manleva, si ammetterebbe l’introduzione per via pattizia di nuove ipotesi scriminanti destinate ad operare nell’ambito (evidentemente, indisponibile) della disciplina degli illeciti amministrativi.
Le appellanti non possono fondatamente addurre a propria discolpa la circostanza per cui la controparte contrattuale contravvenendo alla lettera e allo spirito delle richiamate pattuizioni, non avesse in concreto reso informazioni tempestive e puntuali in ordine al contenuto delle campagne pubblicitarie oggetto di diffusione, in tal modo precludendo la possibilità per il carrier di operare un controllo effettivo sui richiamati contenuti.
Ciò, in quanto, l’iniziale previsione di un pervasivo sistema di comunicazioni e approvazioni preventive; il carattere di particolare qualificazione professionale dello stesso carrier (primario operatore del settore delle comunicazioni elettroniche e anch’esso attivo nel settore pubblicitario) nonché l’immediata co-interessenza economica nei risultati delle campagne pubblicitarie in questione (attraverso il meccanismo di remunerazione c.d. di ‘revenue sharing’), erano tutti elementi tali da innestare in capo alle attuali appellanti un onere specifico di prevenire la realizzazione di condotte illecite attraverso gli strumenti tecnologici posti a disposizione delle proprie controparti negoziali.
Riguardando la condotta censurata sotto l’angolo visuale dell’illecito di tipo commissivo, la conoscenza (o la conoscibilità) del contenuto delle campagne pubblicitarie costituisce il presupposto sul quale si fonda la condivisione e la cointeressenza nei confronti della condotta illecita.
Conseguentemente, anche ad ammettere la violazione da parte del content provider degli obblighi di comunicazione preventiva assunti contrattualmente, ciò non potrebbe determinare un effetto scriminante nei confronti dell’odierna appellante, la quale aveva omesso in modo colpevole di predisporre un adeguato e soprattutto effettivo sistema di controllo preventivo (certamente esigibile alla luce delle circostanze del caso concreto).
Di più: aveva omesso di attivare in concreto anche gli stessi strumenti di controllo e prevenzione negozialmente stabiliti.
Dette pattuizioni, per come applicate, si limitavano a stabilire i principi cui il provider si sarebbe dovuto attenere nella predisposizione dei contenuti ed un onere di preventiva approvazione dei medesimi da parte delle appellanti.
L’attuazione dei predetti principi e l’approvazione preventiva da parte delle appellanti medesime erano state però, in concreto, rimesse alla buona volontà del provider cui negozialmente perteneva l’incombente di sottoporre loro i contenuti dei servizi offerti, in via preventiva.
Ma tale operato è, appunto, quanto di più lontano dal concetto di "effettivo controllo preventivo" e di "sistema di monitoraggio" si possa immaginare.
Il meccanismo di distribuzione degli oneri di preventiva vigilanza dianzi richiamato non può determinare (contrariamente a quanto affermatosi nel ricorso in appello) alcuna traslazione in capo a soggetti privati dei poteri di vigilanza e controllo sugli illeciti sanzionabili, tipicamente spettanti all’Autorità di settore.
È evidente al riguardo che la prospettazione delle appellanti sarebbe in astratto percorribile solo laddove si condividesse il relativo presupposto logico-fattuale (ossia, che l’attività di verifica e controllo imposta ai carrier si innestasse su un fatto altrui – lo svolgimento di un’attività pubblicitaria da parte del content provider, cui i carrier restavano essenzialmente estranei, senza che su di essi gravassero puntuali obblighi di facere -).
Tuttavia, la prospettazione in parola risulta radicalmente da escludere solo che si tenga presente (oltre al dato di compartecipazione economica prima a più riprese richiamato) che la condotta contestata alle appellanti non riguarda in alcun modo un controllo di tipo pubblicistico relativo a una condotta altrui cui i soggetti onerati restavano sostanzialmente estranei, ma riguarda – al contrario – un fatto commissivo proprio, contrario alla condotta possibile ed alternativa, la quale era in concreto esigibile sulla base del concreto atteggiarsi del regolamento negoziale.
Non può infine trovare accoglimento la tesi appellatoria secondo cui non sarebbe stato esigibile nei propri confronti un comportamento tale da prevenire ed impedire il verificarsi della condotta sanzionata attraverso un adeguato (ma onerosissimo) sistema di controlli preventivi sui contenuti e le modalità delle campagne pubblicitarie.
Ed infatti, pur non potendosi sottacere l’indubbia complessità tecnico-organizzativa del sistema di controlli reso necessario dalla tipologia e dal numero delle attività pubblicitarie poste in essere, è altresì certo che non sussistesse nella specie alcun impedimento di carattere assoluto alla sua realizzazione. È altresì certo che il quantum di esigibilità nell’attivazione di rimedi di tipo preventivo deve essere in concreto modulato tenendo in adeguata considerazione: a) la diretta co-interessenza economica delle odierne appellanti alla riuscita e diffusione dei messaggi pubblicitari oggetto di contestazione; b) la notevolissima dimensione organizzativa delle medesime (primarii operatori di mercato);
c) la loro indubbia attitudine (in qualità di operatori del settore delle telecomunicazioni, a propria volta dotati di coacervata esperienza nel settore pubblicitario) ad apprezzare i profili di ingannevolezza contenuti nelle campagne oggetto di contestazione
10. Per le ragioni sin qui esaminate, non risulta determinante ai fini della presente decisione stabilire se uno specifico onere di verifica e controllo spettasse in capo alle odierne appellanti anche in applicazione dell’art. 18 del d.m. 2 marzo 2006, n. 145 (‘regolamento recante la disciplina dei servizi a sovraprezzò).
11. Tracciando alcune conclusioni sui punti sin qui esaminati, è possibile affermare:
a)che le odierne appellanti avessero apportato un contributo efficiente certamente determinante sotto il profilo eziologico al fine di rendere possibile il realizzarsi della condotta illecita oggetto dell’attività sanzionatoria da parte dell’Autorità;
b)che l’apporto concausale ad esse riferibile era riconducibile ad un’ipotesi di illecito di tipo commissivo, e quindi alla previsione di cui all’art. 5, l. 689 del 1981 (in tema di concorso di soggetti nell’illecito amministrativo), per avere contribuito con un apporto cosciente e volontario alla realizzazione delle campagne informative, condividendone in ultima analisi il contenuto e le stesse finalità imprenditoriali;
c) che, inoltre, il comportamento da esse posto in essere era altresì riconducibile a un’ipotesi di responsabilità per comportamento colpevole, per non aver posto in essere un adeguato setting di strumenti di verifica e controllo effettivo e concreto (che, pure, rientrava nella loro disponibilità ed era dalle medesime concretamente esigibile) tale da impedire il verificarsi dell’illecito amministrativamente sanzionato;
d) che la fattispecie di responsabilità in tal modo posta in essere non assume i caratteri tipici di una responsabilità di tipo oggettivo (o per fatto altrui), ma si connota dei caratteri tipici di una responsabilità per fatto proprio e colpevole, sì da giustificare l’adozione delle determinazioni sanzionatorie impugnate nell’ambito del primo grado di giudizio.
Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
12. Quanto infine all’ulteriore doglianza prospettata prospettata dalle appellanti va rammentato che si richiede al Collegio di sollevare innanzi alla Corte di Giustizia una questione interpretativa pregiudiziale sulla attribuzione alle appellanti medesime della qualifica di "professionista" di cui all’art. 18 lett. b del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206.
Come è noto, infatti, alla Direttiva n. 2005/29/CE, relativa alle "Pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno", il Legislatore nazionale ha provveduto a dare attuazione adottando, nell’agosto del 2007, due distinti decreti legislativi (nn. 145 e 146), rispettivamente destinati ai rapporti tra professionisti ed alle pratiche intraprese da questi ultimi con i consumatori.
Il decreto legislativo n. 146 del 2007 è intervenuto direttamente sul decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sostituendo gli artt. 18-27 ed introducendo una generale normativa sulle "pratiche commerciali scorrette".
È stato quindi abbandonato il precedente, specifico riferimento alla sola pubblicità ingannevole e comparativa per abbracciare una disciplina di portata più ampia, riferibile, sotto il profilo oggettivo, ad ogni azione, omissione, condotta, dichiarazione e comunicazione commerciale, "ivi compresa la pubblicità", posta in essere da un professionista "prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto" (artt. 18 e 19 del Codice), così notevolmente allargando il campo delle condotte sanzionabili.
Quanto, invece, all’ambito di applicazione soggettivo, è indubitabile che le pratiche commerciali rilevanti ai fini della normativa in esame siano solo quelle poste in essere tra professionisti e consumatori.
Le appellanti ritengono si debba dubitare della circostanza che ad esse possa essere attribuita – nel caso di specie- la qualifica di professionista.
Secondo tale tesi, la disposizione in oggetto ("qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista;") sancisce che tale può essere considerato soltanto colui che ha posto in essere direttamente la pratica commerciale vietata.
Ad avviso dei gestori certamente la fattispecie non ricorrerebbe nel caso concreto (l’ ideazione dei contenuti era ascrivibile soltanto al provider): si sarebbe realizzata per via interpretativa una inammissibile estensione della disposizione.
Ciò avrebbe comportato, da un canto, la violazione del principio di legalità in materia di illecito amministrativo previsto dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981 n. 689; inoltre, si sarebbe travisato il corrispondente concetto contenuto nella direttiva CE 11 maggio 2005 n. 29.
Trattandosi di direttiva "di armonizzazione massima" tale illegittima attività ermeneutica imporrebbe che venisse sollevata questione interpretativa.
12.1. È opinione del Collegio che, armonicamente con quanto sinora esposto, il dubbio interpretativo sollevato dalle appellanti non abbia ragione di essere.
E ciò per più ordini di ragioni.
In primo luogo, la premessa da cui esso muove restringe la portata del predetto art. 18 lett. b) ben oltre il dato testuale; sotto altro profilo (come è altresì reso palese dalla circostanza che le appellanti lo "legano" all’asserito malgoverno del disposto di cui all’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689) esso non investe il diritto comunitario ma, semmai, le disposizioni nazionali in materia di disciplina del concorso nell’illecito amministrativo; infine, esso è totalmente irrilevante nella economia della odierna vicenda processuale.
12.2. Quanto al primo profilo neppure le appellanti si spingono ad affermare che esse non offrissero servizi rientranti "nel quadro della loro attività commerciale".
Dalle concrete pattuizioni discendeva che i contenuti dei messaggi erano ascrivibili alla esclusiva iniziativa del provider; ciò non esclude, però, che i proventi fossero parimenti percepiti (anche) dai gestori e che il loro marchio pubblicitario fosse legato ai servizi offerti al consumatore.
La tesi difensiva postula che in ipotesi di partnership relativa ad un prodotto, "offerente sul mercato" del medesimo (e quindi professionista) debba essere considerato unicamente colui che lo predisponeva direttamente, con esclusione di colui che forniva un apporto determinante: sarebbe interessante comprendere, a questo punto, (ma ciò non è chiarito nei ricorsi in appello), qual veste dovesse attribuirsi, nel quadro del citato decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 ai gestori.
La ipotesi formulata, volendo rinvenire nel sistema giuridico italiano un corrispondente referente normativo, si allinea allo schema di cui all’art. 2549 del codice civile, estendendo l’esonero di responsabilità a fattispecie da quest’ultimo non previste (la commissione di condotte illecite aventi rilievo pubblicistico) e per di più in carenza dei presupposti qualificativi (assenza di controllo, assenza di ingerenza alcuna sulla gestione).
Laddove poi si consideri che le appellanti erano legittimate a visionare preventivamente i contenuti del prodotto offerto "direttamente" dal provider (e per negligenza inescusabile non diedero concretezza ed effettività a tale pattuizione), appare evidente che si sollecita un giudizio su una quaestio facti, investente un singolo segmento del rapporto da esse intrattenuto con il provider, avente ad oggetto la evenienza , verificatasi, in cui il messaggio non fosse stato ad esse sottoposto.
Tali considerazioni sarebbero sufficienti a ritenere il "dubbio" destituito di ogni fondamento.
Ma v’è di più.
12.3. Esso è comunque del tutto irrilevante.
L’insieme delle considerazioni sinora esposte in punto di condotta commissiva alle stesse ascrivibile dimostra che in punto di concorsualità nell’illecito amministrativo (oltreché di onere di controllo munito del requisito di effettiva concretezza) le appellate decisioni hanno recepito principi pacifici affermati nei più disparati settori dell’ordinamento ed applicati anche a fattispecie in cui al soggetto ritenuto concorsualmente responsabile neppure poteva "imputarsi" una cointeressenza economica con l’attività della controparte e men che meno una (ancorché temporanea) "associazione" del proprio marchio a quello dell’autore della condotta attiva.
Il dubbio delle appellanti è quindi del tutto privo di rilevanza nel caso concreto, proprio in relazione al pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui il concorso nell’illecito amministrativo è ammissibile ancorché la norma sanzionatoria identifichi una violazione c.d. propria" (Cassazione civile , sez. II, 04 agosto 2006 , n. 17681, ma si veda anche Cassazione penale , sez. III, 24 giugno 1993: "in materia contravvenzionale, è configurabile il concorso del soggetto -cosiddetto extraneus-, che, pur privo della particolare qualificazione soggettiva prevista dalla norma penale, abbia comunque partecipato all’illecito commesso da colui -cosiddetto intraneus- che ha tale qualificazione giuridica).
Se anche – il che si nega recisamente, per le ragioni dianzi chiarite – la qualifica di "professionista" fosse stata attribuibile soltanto al provider, trattandosi di attività dalla quale i gestori traevano direttamente profitti e cui avevano aasociato il loro marchio, ugualmente sarebbe configurabile a loro carico responsabilità concorsuale.
12.4. Quanto sinora esposto elide ogni dubbio sulla compatibilità con il diritto comunitario della disciplina in esame ed esclude la necessità di un invio, quale giudice di ultima istanza, degli atti alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato.
Si ricorda che anche i giudici di ultima istanza non sono tenuti a sottoporre alla Corte una questione di interpretazione di norme comunitarie se questa non è pertinente (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull’esito della lite), se la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla Corte o se comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso, o se la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (cfr, Corte Giust, CE, 6-10-82, C 283/81, Cilfit).
Conclusivamente si rileva che con riferimento alla compatibilità comunitaria, la questione dell’asserito contrasto della interpretazione della nozione di "professionista" con la Direttiva 11/05/2005 n. 29 non è pertinente, trattandosi di norma che non disciplina la fattispecie del rapporto negoziale interno tra gestore e provider.
13. Deve concludersi pertanto per la integrale reiezione dei riuniti ricorsi in appello perché infondati.
Alla soccombenza consegue la condanna alle spese ed agli onorari del giudizio e pertanto le appellanti devono essere condannate al pagamento delle stesse, in favore dall’appellata Autorità, in misura che, avuto riguardo alla natura della controversia, appare congruo determinare in Euro diecimila ciascuna (( 10.000) oltre accessori di legge se dovuti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)definitivamente pronunciando sui riuniti ricorsi in appello in epigrafe li respinge.
Condanna le appellanti al pagamento delle spese e degli onorari del secondo grado del giudizio, nella misura di Euro diecimila ciascuna (( 10.000) oltre accessori di legge se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Coraggio, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 24 MAR. 2011.