Con ricorso depositato il 24 aprile 2001, D.F.G. convenne in giudizio dinanzi alla Corte d’appello di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri chiedendone la condanna alla corresponsione di un’equa riparazione in dipendenza dell’eccessiva durata di vari procedimenti, tutti scaturiti dalla realizzazione di un edificio, da parte di D.F.G., a distanza dal fabbricato di essa istante inferiore a quella prevista dal vigente regolamento edilizio, e più specificamente: un procedimento per denunzia di nuova opera promosso con ricorso del 18 marzo 1977 dinanzi al Pretore di Vitulano, che sospese i lavori, poi sfociato nella fase di merito davanti al Tribunale di Benevento che, con sentenza 31 dicembre 1977, dispose la rimozione delle opere abusive confermata dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza del 28 giugno 1980; il susseguente giudizio di esecuzione, ai sensi dell’art. 612 c.p.c., non potutosi concludere perchè il consulente tecnico nominato dal giudice si vide negare dal sindaco di Foglianise la concessione edilizia necessaria per abbattere le opere abusive, così come disposto dall’ordinanza pretorile del 22 luglio 1982; un giudizio davanti al Tar della Campania promosso contro tale provvedimento di diniego con ricorso del 1986 accolto dall’adito tribunale, che lo annullò con sentenza pubblicata in data 16 maggio 1990; il successivo giudizio davanti al Consiglio di Stato incoato dalla controparte con ricorso 13 aprile 1991 e deciso all’udienza di discussione del 19 giugno 2001 con la cancellazione della causa dal ruolo, stante la sopravvenuta carenza di interesse della controparte.
Nella resistenza dell’Amministrazione convenuta, la corte adita, con decreto reso pubblico il 20 marzo 2003, rigettò il ricorso. Osservò in premessa che la parte ricorrente, convenendo in giudizio la Presidenza del Consiglio, aveva inteso lamentare la eccessiva durata del processo amministrativo; ritenne, al riguardo, che il giudizio davanti al Tar, protrattosi per soli quattro anni, si era concluso in un lasso di tempo ragionevole, considerata la complessità della procedura amministrativa e che la durata del giudizio davanti al Consiglio di Stato doveva considerarsi di appena un anno e quindi oltremodo ragionevole giacchè la D.F. aveva chiesto la fissazione del processo solo nel luglio 2000, rimanendo inerte per tutto il periodo precedente.
Contro il decreto ricorre per Cassazione D.F.G. con sei motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente denunzia vizi di motivazione e omessa pronuncia. Contesta l’affermazione della corte territoriale secondo cui il ricorso era riferito solo al giudizio davanti al giudice amministrativo. Tale limitazione non si ricaverebbe dal ricorso introduttivo riguardante, al contrario, la intera vicenda processuale. Non poteva essere spia di una volontà in tal senso la scelta della parte pubblica dipesa dal fatto che il maggior contributo alla durata della intera gamma dei processi lo aveva dato il processo amministrativo. Peraltro, la parte pubblica non aveva mai eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, accettando anzi il contraddittorio su tutta la domanda.
Il motivo è destituito di fondamento.
Occorre premettere che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, va tenuta distinta l’ipotesi in cui viene lamentato l’omesso esame di una domanda (o la pronuncia su una domanda non proposta) da quella in cui si censura l’interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa compresi, o esclusi, alcuni aspetti della controversia in base a una considerazione non condivisa dalla parte. Nel primo caso, si verte propriamente in tema di violazione dell’articolo 112 c.p.c. e si pone un problema di natura processuale per la soluzione del quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale.
Nel secondo caso, invece, poichè l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del (suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (cfr. Cass. nn. 16596/2005, 12259/2002, 2574/1999, 10337/1998, 272/1998).
Nella specie, la Corte del merito, previo esame della portata oggettiva e soggettiva della domanda di equa riparazione, ha correttamente e logicamente desunto il contenuto della domanda dalla parte pubblica prescelta quale convenuta; di vero, la L. n. 89 del 2001, art. 3, come modificato dal D.L. 11 settembre 2002, n. 201, art. 2, nell’indicare i soggetti nei cui confronti va proposta la domanda di equa riparazione, prevede la legittimazione passiva del Presidente del Consiglio dei Ministri per tutti i procedimenti che non siano di competenza del giudice ordinario, del giudice militare o del giudice investito di procedimenti tributari rilevanti penalmente.
Quindi, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e passivamente legittimata solo nei confronti delle domande di equa riparazione proposte in relazione a giudizi amministrativi. Poco rileva l’eventuale, pretesa accettazione del contraddittorio da parte dell’amministrazione convenuta dalla D.F., essendo il difetto di legittimazione passiva rilevabile officio iudicis in ogni stato e grado del giudizio.
Peraltro, ove avesse inteso accampare pretese con riferimento ai giudizi svolti davanti al giudice ordinario, la ricorrente avrebbe dovuto citare in giudizio il Ministro della Giustizia, unico legittimato passivo al riguardo, non potendo certo valere la regola, in tema di legittimazione passiva di amministrazioni dello Stato nei processi per equa riparazione, della prevalenza, nella formazione del termine irragionevole, di un tipo di giudizio rispetto a un altro.
Quindi, qualora fossero state ipotizzabili autonome ragioni riparatorie del pregiudizio derivante dalla non ragionevole durata di ciascun procedimento, la ricorrente avrebbe dovuto convenire in giudizio entrambe le amministrazioni e il giudice determinare separatamente l’importo gravante su ciascuna delle convenute per i ritardi dei procedimenti di rispettiva competenza.
La domanda rivolta nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri in relazione ai giudizi davanti a giudici ordinari sarebbe stata invece inammissibile. La legge individua separatamente i soggetti passivamente legittimati, escludendo che essi possano rispondere in solido per l’eccessiva durata di procedimenti diversi seppur collegati la cui durata deve formare oggetto di un esame e di una valutazione autonomi.
Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, e ss., e dell’ art. 6, p. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, e art. 11 Cost.. Critica, anzitutto, la conclusione cui è pervenuta la Corte del merito per la quale il giudizio amministrativo, sia in primo che in secondo grado, si è celebrato in tempi ragionevoli. In particolare, adottando i parametri della giurisprudenza della Corte EDU, il giudizio davanti al Tar della Campania non poteva oltrepassare i due anni. Per quanto riguarda il giudizio davanti al Consiglio di Stato (protrattosi per dieci anni), la corte territoriale ne ha fissato la durata in appena un anno, facendo decorrere il tempo dall’istanza di sollecita decisione, ignorando che il principio dispositivo, che pure riconosce alle parti il potere di iniziativa e impulso processuale, non dispensa la pubblica autorità dell’obbligo di assicurare il rispetto dell’esigenza di celerità della procedura. D’altra parte, nessuna inerzia era imputabile alle parti, che avevano in precedenza, in data 1 febbraio 1993, rivolto istanza di sollecita decisione al Consiglio di Stato. In secondo luogo, la ricorrente ascrive alla corte di avere isolato il processo amministrativo dalla procedura esecutiva, di cui costituiva una sorta di parentesi, e di non avere operato una valutazione sintetica e complessiva del giudizio svoltosi davanti a Tar e Consiglio di Stato.
Il motivo è infondato laddove torna a insistere sul presunto errore in cui sarebbe incorsa la corte capitolina non computando nel calcolo del termine ragionevole il giudizio celebratosi davanti al giudice ordinario. In proposito, non può che farsi rimando a quanto al riguardo osservato in sede di scrutinio del primo motivo.
E’ fondato, invece, nella parte in cui ha valutato la durata del processo davanti al Consiglio di Stato partendo dalla presentazione della istanza di prelievo presentata dall’odierna ricorrente.
Risolvendo un contrasto registratosi sul punto nella giurisprudenza della Prima Sezione Civile, di recente le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 28507/2005 hanno affermato il principio, condiviso dal Collegio, secondo cui "in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’ art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo o alla ritardata presentazione di essa.
La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio".
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando vizi motivazionali e omesso esame di un punto decisivo, torna a lamentare la mancata considerazione della istanza di prelievo presentata dalla controparte in data 1 febbraio 1993.
Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, artt. 2056, 1223, 1226 e 1227 c.c. e vizi motivazionali. Anche a ritenere che le parti si sarebbero dovute attivare in maggior misura, non è concepibile che l’intera responsabilità della durata del giudizio amministrativo debba ricadere su di esse. La corte doveva addivenire a una soluzione più equilibrata attraverso una graduazione delle reciproche responsabilità e riducendo l’indennità da riconoscere in ragione dell’incisività del concorso di colpa posto a carico della ricorrente.
I sopra riassunti motivi rimangono assorbiti dall’accoglimento, per quanto di ragione, del secondo.
Con il quinto motivo, la ricorrente, denunziando vizi motivazionali, censura la decisione nella parte in cui, senza giustificazione alcuna, ha definito complessa la controversia trattata davanti al Tar, che, peraltro, tale non era, trattandosi di giudizio con due sole parti e documentale, dovendosi soltanto stabilire la legittimità di un diniego di concessione edilizia.
Anche tale censura è fondata. E’ vero che ai fini del diritto all’equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’accertamento della non particolare complessità del caso è rimesso all’apprezzamento del giudice del merito; e tuttavia tale giudizio di merito è sindacabile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, se non risulta logicamente e congruamente motivato, 25008/2005, 363/2003, 16936/2002. Quest’ultimo è il caso del decreto de quo, evidente essendo l’assoluta carenza argomentativa della statuizione afferente la "complessità del caso", fondata solo sulla relativa apodittica enunciazione, totalmente disancorata dalla concreta vicenda.
Con il sesto e ultimo motivo, la ricorrente, denunziando vizi motivazionali, censura la sentenza per non avere considerato la violazione "del diritto di accesso al tribunale", riveniente dal fatto che una sentenza, emessa nel 1981, sia ancora inoperante a detrimento di una parte.
Detto motivo è inammissibile, stante la genericità della censura con esso formulata. Peraltro, viene ripresa la doglianza relativa del giudizio davanti al giudice ordinario che, come si è visto, non può trovare ingresso.
In conclusione, in accoglimento del secondo e del quinto motivo, il giudice del rinvio dovrà verificare se vi sia stata lesione del diritto alla definizione del processo amministrativo in un termine ragionevole, di cui all’ art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, individuandone il momento iniziale ai fini del computo del termine di durata nella loro instaurazione, senza accordare rilievo alla data di presentazione dell’istanza di prelievo.
Allo stesso giudice si demanda il regolamento delle spese di questo grado.
 
P.Q.M.

La Corte, rigetta il primo e il sesto motivo del ricorso, accoglie il secondo motivo per quanto di ragione e il quinto motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 9 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2006