Con ricorso alla Corte di appello, V.G. domandò l’equa riparazione dei danni patrimoniali e morali patiti per l’irragionevole durata di un processo – avente a oggetto il riscatto di fondo concesso in enfiteusi – iniziato dal di lei defunto marito innanzi al Tribunale di Termini Imerese con citazione notificata in data 10 dicembre 1985 e definito con sentenza di questa Corte del 14 gennaio 2001.
Costituitosi in giudizio, il Ministero della Giustizia chiese il rigetto della domanda.
Con decreto del 13 marzo 2002, l’adita corte, considerata la complessità del caso e detratti i periodi relativi a rinvii richiesti dalle parti, determinò in quattro anni per il primo grado e in tre per la fase di appello il periodo di tempo eccedente il limite di durata ragionevole del processo, osservando che mentre non vi era prova del danno patrimoniale, poteva essere riconosciuto il danno morale, che liquido in via equitativa in nella misura di Euro 3.098,74.
La cassazione di tale decreto è stata chiesta dalla V. con ricorso affidato a due motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale per un motivo il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve preliminarmente disporsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei due ricorsi, diretti contro il medesimo provvedimento.
La costituzione del Ministero della giustizia, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, e idonea a sanare il vizio della notificazione del ricorso (eseguita erroneamente presso la sede dell’Avvocatura distrettuale di Caltanissetta) e ne rende superflua la rinnovazione.
Con il primo motivo del suo ricorso, la V. lamenta la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e dell’ art. 6, par. 1, della Convenzione dei diritti dell’uomo, nonchè vizi della motivazione. Sostiene che la corte territoriale ha errato nel determinare la durata irragionevole del processo, omettendo di applicare i parametri dettati dalla legge nazionale e dalla convenzione europea e sottovalutando le gravi disfunzioni mostrate nel caso in ispecie dal sistema giudiziario. Critica la motivazione addotta dalla Corte del merito per giustificare la complessità della controversia, protrattasi abnormemente a causa dell’incapacità degli organi giudiziari di rendere omogenea e rapida l’ammissione e l’assunzione dei mezzi di prova, a sua volta dovuta all’eccessivo numero di cause, all’insufficienza dell’organico giudiziario e all’alternarsi dei giudici nel corso dei procedimenti.
Ascrive alla Corte d’appello di aver sottratto dal computo del ritardo i periodi corrispondenti ad alcuni rinvii chiesti dalle parti, giacchè essi furono comunque disposti dal giudice che, dovendo assicurare la ragionevole durata del processo, avrebbe dovuto sollecitarne i protagonisti a una spedita trattazione.
Con il secondo motivo, la V. lamenta la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’ art. 6, par. 1, della Convenzione dei diritti dell’uomo e dell’art. 111 Cost. il riferimento contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 2, all’ art 6, par. 1, della Convenziona europea dei diritti dell’uomo, renderebbe esplicito che l’equa riparazione presuppone la violazione del diritto della persona e che la causa sia esaminata in un tempo ragionevole. La circostanza che, come fatto produttivo del danno, il legislatore italiano abbia previsto la violazione della norma convenzionale, imporrebbe di rintracciare i necessari canoni ermeneutici nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale sul tema ha emesso numerose pronunzie. Nel caso di specie, la Corte territoriale non si sarebbe attenuta ai principi enunciati dalla Corte europea in fatto di calcolo della durata e di determinazione della entità dell’indennizzo. In particolare, sotto quest’ultimo profilo, la corte non avrebbe tenuto conto, dei danni morali provocati dall’anomalo andamento del processo, che peraltro legittimerebbe seri dubbi circa la fondatezza del rigetto delle domande del dante causa della ricorrente, risultato vittorioso in primo grado.
I due motivi, nella parte in cui censurano il decreto, sia sotto il profilo motivazionale, sia sotto il profilo della violazione di legge, in riferimento alla L. n. 89 del 2001, art. 2, prospettano doglianze logicamente e giuridicamente connesse, che devono essere esaminate congiuntamente, per rilevarne la infondatezza.
Questa Corte è andata ripetendo che il termine ragionevole di durata del processo, dal cui superamento si configura il diritto all’equa riparazione per il periodo eccedente, non può tradursi in formule aritmetiche fisse per singoli tipi e fasi di giudizio nè è desumibile da dati medi ricavati da analisi statistiche, ma va determinato caso per caso, in relazione allo svolgimento della singola procedura, in base ai criteri all’uopo fissati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, che li ha mutuati dall’interpretazione data all’ art. 6 della Convenzione EDU dalla Corte di Strasburgo per la quale occorre valutare la complessità del caso e il comportamento delle parti e del giudice del procedimento. Più in particolare, la L. n. 89 del 2001 (art. 2, comma 2) non specifica il periodo di tempo massimo valicato il quale la durata del processo diventa irragionevole ma lascia all’interprete l’onere di determinarlo di volta in volta, desumendolo dalla complessità del caso e del comportamento delle parti del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del processo. Ai fini dell’applicazione della norma interna, dunque, occorre operare una selezione tra i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli riferibili all’operato del giudice, sottraendo i primi alla durata complessiva del procedimento. Il risultato di tale sottrazione costituisce il tempo complessivo imputabile al giudice, inteso come apparato giudiziario, vale a dire come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all’espletamento del servizio, in relazione al quale dovrà essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della durata del processo. Non tutto il tempo imputabile al giudice, nel senso appena precisato, può essere, però, considerato come eccedente la durata ragionevole.
Ogni processo, infatti, anche il più celere, ha una durata fisiologica inevitabilmente collegata allo svolgimento delle varie fasi, delle attività che vi si compiono degli eventuali diversi gradi di giudizio in cui si è articolato. Affinchè, nei singoli casi, i tempi possano essere considerati irragionevoli, non basta guardare al dato relativo alla durata complessiva del processo, ma è necessario verificare di volta in volta se essa si giustifichi in ragione delle attività processuali compiute, non rinvenendosi d’altronde nè sul piano normativo nè all’interno della giurisprudenza della Corte europea la previsione di un termine di durata media oltre il quale il periodo trascorso deve considerarsi sempre non ragionevole. Se è vero infatti che la CEDU ha individuato dei parametri cronologici, tuttavia questi, a detta degli stessi giudici di Strasburgo, hanno valore di criteri di massima e non escludono anzi impongono l’obbligo del giudice nazionale di apprezzarli ed applicarli alla luce degli elementi connotanti ogni singola fattispecie. Solo questi elementi consentono la corretta applicazione di un criterio, quale ocello di ragionevolezza, che ha in sè insiti indubbi margini di elasticità, permettendo, per tale via, di scongiurare che il valore della giustizia celere si trasformi nel disvalore della giustizia affrettata e sommaria (cfr. Cass. nn. 25008/2005, 1600/2003, 13422/2002).
A quest’ultimo riguardo, va sottolineato che l’accertamento della sussistenza dei presupposti della domanda di equa riparazione – ea sunt, la complessità del caso, il comportamento delle parti e la condotta della autorità – così come della misura del segmento, all’interno del complessivo arco temporale del processo, riferibile all’apparato giudiziario, in relazione al quale deve essere emesso il giudizio di ragionevolezza della durata del processo stesso, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, appartiene alla sovranità del giudice del merito e può essere sindacato in sede di legittimità solo per i profili attinenti alla motivazione, consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5 (vedi Cass. nn. 21391/2005, 1094/2005, 123/2004, 11715/2003, 11712/2003, 13211/2003, 1600/2003, 16936/2002).
Con riferimento al caso di specie, si osserva che la sentenza del Tribunale di Caltanissetta è intervenuta in data 21 marzo 1983, laddove la citazione risaliva al 10 dicembre 1975, e il giudizio di appello, iniziato con la notifica della citazione del 13 giugno 1986, è stato definito con sentenza del 22 aprile 1997; la Corte di Cassazione, adita con ricorso del 31 gennaio 1998, ha definito il giudizio il 14 gennaio 2000. Orbene, il decreto impugnato ha ricondotto la durata del giudizio principalmente alla particolare complessità del caso, facendo riferimento, da un lato, a difficoltà nella ricerca, assunzione e interpretazione della prova orale e documentale stante la necessità, implicata dal thema disputandum, di dimostrare un preteso diritto enfiteutico risalente al 1950 e contrastato dai convenuti e, dall’altro, all’esigenza avvertita dal giudice di appello di disporre ulteriori elementi istruttori. Ha poi detratto "i periodi dovuti a richieste di rinvio formulate dalle parti", pur senza quantificarli in dettaglio. Ne ha dedotto che il giudizio – protrattosi per circa 15 anni – abbia ecceduto il termine ragionevole di sette anni (quattro per il giudizio di primo grado e tre per il giudizio di appello).
Ora nel quadro dei cennati principi, tale accertamento di fatto, congruamente motivato, risulta esente da critiche di legittimità.
E’ ben vero, come rileva la ricorrente, che deve riconoscersi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, quanto ai criteri da essa elaborati per la valutazione della ragionevole durata del processo, valore di precedente, del quale non si può non tener conto ai fini della interpretazione del contenuto della L. n. 89 del 2001, art. 2, nella misura, in cui, questo richiama, l’ art. 6 della Convenzione EDU, cui quella giurisprudenza propriamente si riferisce; deve, tuttavia, escludersi l’asserito vincolo diretto che dalla sentenza CEDU deriverebbe per il giudice italiano. Diversamente dalle sentenze della Corte di Giustizia europea di Lussemburgo – che, al pari dei regolamenti del Consiglio CE, hanno (per i profili dell’interpretazione della normativa comunitaria) diretta efficacia nell’ordinamento interno ai sensi dell’art. 189 del Trattato CEE (cfr. Corte Cost. n. 113/85 in relazione a n. 170/84) e, se pronunciate in sede di rinvio pregiudiziale, vincolano il giudice rimettente – per le sentenze della Corte EDU non sussistono, nel quadro delle fonti, analoghi meccanismi normativi che ne prevedano la diretta vincolatività per il giudice interno.
Quindi, i termini indicati dai giudici sopranazionali non devono intendersi in senso assoluto avendoli anche la CEDU ritenuto valicabili qualora i processi siano complessi perchè pongono problemi interpretativi di non facile soluzione. Ne consegue che non censurabile deve ritenersi sul punto l’impugnato decreto che ha ritenuto ragionevole la durata del processo in esame fino alla concorrenza di anni quattro per il giudizio di primo grado e otto per il secondo, in ragione della complessità del caso e dei rinvii chiesti dalle parti.
D’altra parte, questa Corte non può ritenersi legittimata neanche a sindacare la valutazione, operata dalla corte d’appello, della incidenza dei rinvii di ufficio del processo sul termine ragionevole di durata dello stesso, valutazione la quale costituisce accertamento di fatto, che compete unicamente a detto giudice di merito.
Non coglie il segno neanche la censura mossa alla rilevata complessità del caso in quanto la corte nissena ha adeguatamente motivato sul punto facendo riferimento all’oggetto della causa (diritto di enfiteusi risalente al lontano 1950), alla difficile lettura della documentazione acquisita al processo e alla laboriosità dalle prove assunte; circostanze, queste, sufficienti a giustificare un giudizio di complessità della causa.
Il decreto risulta, quindi, caratterizzato da un impianto argomentativo conciso, ma che certo si sottrae alla censura della ricorrente, non essendo sostenibile – come invece dedotto in ricorso – che il termine ragionevole sarebbe stato fissato apoditticamente, senza alcuna congrua e sufficiente motivazione e neppure che la corte territoriale si sarebbe sottratta all’onere di dar conto del processo logico-giuridico, che l’ha portata a individuare il termine. Le argomentazioni svolte sono, infatti, logicamente coerenti e congruenti, immuni da contraddizioni e fondate sull’applicazione dei parametri stabiliti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2. La motivazione appare, perciò, del tutto adeguata e discutere della valutazione formulata dalla Corte d’appello implicherebbe una revisione del giudizio di merito non consentita in questa sede, poichè la ricorrente, con il profilo in esame, muove a tale motivazione una diretta, inammissibile censura di merito, proponendo una sua valutazione, alternativa a quella accolta dal decreto impugnato.
Inammissibile, per la sua estrema genericità, è infine la censura che si appunta sulla insufficienza del ristoro del danno non patrimoniale, è ben vero, infatti, che i parametri indicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale ma è anche vero – come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 1340/2004 – che il valore di precedente delle statuizioni di quella Corte opera per i casi simili e che da essi, comunque, il giudice nazionale può ragionevolmente discostarsi. Se tale indirizzo merita adesione ne consegue che colui che, come nella specie si lagna della inadeguatezza del quantum rispetto alla giurisprudenza europea ha comunque l’onere di addurre al giudice nazionale (ed alla Corte di legittimità, nel quadro della allegazione dei fatti rilevanti per fondare la censura di malgoverno della valutazione equitativa), da un canto, i profili di fatto della vicenda e, dall’altro, i casi "consimili" risolti dalla Corte europea con valutazioni adeguate. Per l’inverso, nella specie la censura della V. è affatto priva di pertinenza al caso concreto e si risolve nella invocazione di tre decisioni CEDU delle quali non si scorge la rilevanza a fungere da "precedente".
Con l’unico motivo del suo ricorso, il Ministero denunzia la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 2697 c.c. nonchè vizi di motivazione. La ricorrente non poteva in qualità di erede far valere eventuali danni da ritardo perchè il suo dante causa, deceduto in data 31 gennaio 1990 prima del 18 aprile 2001, data di entrata in vigore della L. n. 89 del 2001, non aveva mai visto entrare nel proprio patrimonio il diritto a equa riparazione che pertanto non poteva trasmettere agli eredi; nemmeno in proprio la ricorrente poteva vantare una pretesa all’equo ristoro visto che si era costituito solo nel giudizio di Cassazione, la cui durata era stata ritenuta del tutto congrua dalla stessa corte adita.
Anche tale ricorso è infondato.
Risolvendo la questione di massima di particolare rilevanza relativa all’individuazione del momento in cui sorge il diritto alla durata ragionevole del processo, le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sent. n. 28507/2005) hanno affermato il principio secondo cui "in tema di equa riparazione per la irragionevole durata del processo ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, la fonte del riconoscimento del relativo diritto non deve essere ravvisata nella sola, citata normativa nazionale, coincidendo il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale con la violazione della norma contenuta nell’ art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. n. 848 del 1955, e, pertanto, di immediata rilevanza nell’ordinamento interno.
Ne consegue che il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo, verificatosi prima della entrata in vigore della citata L. n. 89 del 2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto prima di tale data il giudizio del quale si lamenta la durata eccessiva, con il solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e dalla stessa dichiarata ricevibile".
Sul punto, la giurisprudenza della Corte aveva in precedenza affermato che solo dalla entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 è sorto il diritto a ottenere dallo Stato un’equa riparazione dei danni derivanti da irragionevole durata del processo, in quanto la fattispecie indennitaria così connotata non era prevista anteriormente nel vigente sistema nazionale, mentre la diversa fattispecie di cui all’ art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non costituiva un diritto azionabile davanti a un giudice diverso da quello europeo: con la conseguenza che l’erede di persona deceduta prima della entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 non avrebbe titolo per chiedere al giudice nazionale la riparazione dalla stessa accordata, non potendo il relativo diritto essere acquisito, nè essere successivamente trasmesso agli eredi, da persona non più in vita al momento della entrata in vigore della legge medesima (vedi sentenze nn. 17650/2002, 360/2003, 5264/2003).
Peraltro, come è stato sottolineato nella ordinanza di rimessione degli atti al Primo Presidente, successive decisioni della Corte a Sezioni unite hanno identificato il fatto costitutivo del diritto alla equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, proprio nel mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo di cui all’ art. 6, par. 1, della citata Convenzione europea, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848, negando, conseguentemente, che la fattispecie prevista dalla norma di diritto interno assuma connotati diversi da quelli stabiliti da detta convenzione (v. Cass. Sez. un., 26 gennaio 3004, nn. 1338, 1339, 1340). In siffatta prospettiva, la L. n. 89 del 2001, art. 2, andrebbe considerato, a differenza di quanto affermato nelle precedenti citate sentenze, cane costitutivo non già del diritto alla riparazione dei danni derivanti dalla irragionevole durata del processo, ma della via di ricorso interna effettiva, cioè tale da assicurare una tutela pronta ed efficace, che le "Alte Parti contraenti" sono tenute ad istituire all’interno dei rispettivi ordinamenti (v. art. 13 Convenzione) e che, quando sia concretamente prevista, le vittime della violazione sono tenute ad esperire, a pena di improcedibilità, prima di adire la Corte di Strasburgo (v. art. 35 Convenzione). In definitiva, alla stregua di tale orientamento, la mancata introduzione da parte dell’Italia, prima della L. n. 89 del 2001, di una specifica via di ricorso interna avrebbe sortito l’unico affatto di consentire il ricorso immediato alla Corta europea. Se dunque, si è sottolineato nella ordinanza, il diritto alla ragionevole durata del processo fosse da ritenere esistente fin dalla data di entrata in vigore della L. n. 848 del 1955, di ratifica ad esecuzione della Convenzione, dovrebbe ammettersi che esso possa essere acquisito dalla parti anche prima della entrata in vigore della L. n. 89 del 2001, e fatto valere successivamente dai rispettivi eredi, trattandosi di diritto di natura patrimoniale, trasferibile per via ereditaria.
Le Sezioni Unite hanno accolto l’invito a riconsiderare la fondatezza del sopra riportato orientamento interpretativo sulla basa dall’evoluzione della giurisprudenza dello stesso supremo consesso.
Hanno così negato che la fattispecie prevista dalla norma interna assuma connotati diversi da quelli stabiliti dalla Convenzione, rispetto alla quale essa va considerata non già costitutiva dal diritto all’equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, bensì unicamente istitutiva della via di ricorso interno, prima inesistente, diretta ad assicurare una tutela pronta ad efficace alla vittima della violazione del canone di ragionevole durata del processo in attuazione del disposto dell’ art. 13 della Convenzione il quale stabilisce il diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale il cui esperimento preventivo opera, a norma del successivo art. 35, come condizione di procedibilità del ricorso alla Corte di Strasburgo che, ai sensi dell’ art. 34, era proponibile in via immediata e diretta prima dell’introduzione del ricorso negli ordinamenti nazionali.
Hanno ricordato al riguardo che l’ art. 1 della Convenzione stabilisce che le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti dal titolo primo della Convenzione, tra i quali è compreso il diritto a un processo equo e di durata ragionevole ( art. 6 citato), che dev’essere tutelato attraverso il ricorso a un’istanza nazionale ( art. 13 citato), la cui introduzione nell’ordinamento vigente è avvenuta tardivamente, solo a seguito del moltiplicarsi delle condanne nei confronti dello Stato in sede comunitaria per il pregiudizio derivante dalla non ragionevole durata dei processi. La L. 4 agosto 1955, n. 648, provvedendo a ratificare e rendere esecutiva la Convenzione, ha introdotto nell’ordinamento interno i diritti fondamentali, aventi natura di diritti soggettivi pubblici, previsti dal titolo primo della Convenzione e in gran parte coincidenti con quelli già indicati nell’art. 2 Cost., rispetto al quale il dettato della Convenzione assume una portata confermativa ed esemplificativa (Corte Cost. 22 ottobre 1999, n. 388). La natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali a seguito di ratifica dello strumento di diritto internazionale è stata già del resto riconosciuta esplicitamente in più occasioni dalla giurisprudenza di questa Corte che ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata percettività nel caso concreto.
Le Sezioni Unite hanno, quindi, ritenuto superato l’orientamento secondo cui la fonte del riconoscimento del diritto all’equa riparazione va ravvisata nella sola normativa nazionale e ribadito il principio che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell’ art. 6 della Convenzione, di immediata rilevanza nel diritto interno.
Da ciò consegue che il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto prima di tale data il giudizio del quale si lamenta l’eccessiva durata, col solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e che questa si sia pronunciata sulla sua ricevibilità.
La soccombenza reciproca è di per sè giusto motivo per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta, compensando le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 16 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2006