1. – Con ricorso depositato in data 31 luglio 2001, in riassunzione – ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3 – di quello già introdotto presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, B. L., C.A., C.G., D.V. G. e F.G., coimputati in un procedimento penale per abuso aggravato in atti d’ufficio, ancora pendente in Cassazione all’epoca del ricorso, si rivolsero alla Corte d’appello di Roma chiedendo la condanna del Ministero della giustizia al pagamento della somma di lire venti milioni in favore di ciascuno di essi a titolo di equa riparazione del danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto per la eccessiva durata del processo, la cui fase iniziale, relativa alle indagini preliminari, si era svolta dal 4 febbraio 1993 al 22 gennaio 1995, e che si era concluso, in primo grado – dopo la fase della udienza preliminare, durata dal 22 gennaio 1995 al 18 aprile 1997, e quella del dibattimento di primo grado, dal 18 aprile 1997 al 29 marzo 1999 -, con sentenza depositata il 22 giugno 1999, con la quale il Tribunale di Benevento aveva dichiarato non doversi procedere per prescrizione nei confronti di alcuni dei ricorrenti e con la assoluzione per gli altri; e, in appello, con sentenza depositata il 26 febbraio 2001, che aveva riformato parzialmente la sentenza di primo grado, condannando alcuni degli imputati, e dichiarando la prescrizione in relazione ai reati attribuiti agli altri.
2. – La Corte adita, con decreto depositato il 3 dicembre 2001, ritenuta la particolare complessità del caso sulla base del numero delle udienze tenute (ben trentotto, di cui dodici preliminari tra il 1995 e il 1997, e ventisei dibattimentali), pervenne alla conclusione che la durata ragionevole del processo in questione fosse da stimare in cinque anni per ciascun grado di merito, con la conseguenza che non era stato complessivamente violato detto termine. Aggiunse la Corte che gli imputati, per effetto del decorso del tempo, avevano "lucrato la prescrizione".
3. – Avverso tale decreto ricorrono per Cassazione i predetti B., D.V., C., C. e F., sulla base di tre motivi, illustrati anche da successiva memoria. Non si è costituito il Ministero intimato.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo di ricorso, si deduce violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè della L. n. 848 del 1955, di ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dell’art. 111 Cost.; ed inoltre omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. La Corte capitolina non si sarebbe attenuta, nel decidere il caso di specie, ai criteri enucleati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia. Anzitutto, essa avrebbe affermato la complessità della causa in modo apodittico, fondandola esclusivamente sul numero delle udienze, che, ili realtà, non è indicativo della concreta quantità, nè della qualità dell’attività processuale svolta; mentre, secondo i criteri dettati dalla Corte europea, la complessità della causa andrebbe valutata in termini di complessità delle questioni giuridiche trattate e del fatto da accertare. In ogni caso, sarebbe mancata, nella specie, ogni comparazione tra la ritenuta complessità ed il tempo complessivamente impegnato per prevenire alla decisione. Inoltre, la Corte di merito avrebbe avuto riguardo, nella valutazione della ragionevolezza della durata del processo, all’intero processo, in una visione unitaria del complesso delle varie fasi e dei vari gradi del giudizio, senza tener conto singolarmente degli stessi, tenuto anche conto che i ricorrenti avevano espressamente dedotto una assoluta inattività processuale prolungata per un periodo di oltre due anni, tra l’udienza preliminare dell’1 febbraio 1995 e il decreto di fissazione della successiva udienza preliminare dell’1 aprile 1997.
2. – Con il secondo motivo, si lamenta ancora violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e della L. n. 848 del 1955; nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Al fine di pervenire ad un giudizio sulla ragionevolezza della durata del processo, la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare i ritardi dell’oggettivo funzionamento della "macchina processuale" – nella quale sono ricomprese tutte le cause oggettive di ritardo, quindi anche quelle esterne alla specifica attività delle parti strettamente processuali, direttamente imputabili allo Stato, quali le deficienze di organico e di strumenti, le ascensioni degli avvocati, etc. – da depurare di quelli soggettivi imputabili al ricorrente. Al contrario, tale valutazione era completamente mancata nella specie, in cui la Corte, contraddittoriamente, pur riconoscendo la esistenza di carenze della macchina processuale, aveva escluso che le stesse fossero addebitabili allo Stato ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione. Nè la Corte si era minimamente soffermata sulle deduzioni dei ricorrenti relative a comportamenti del giudice incidenti sulla durata del processo, concernenti la violazione dell’art. 418 cod. proc. pen., per non essere stata l’udienza preliminare fissata entro due giorni dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio, e per essere stato fatto decorrere, tra la richiesta (4 novembre 1992) e la data della prima udienza preliminare (17 febbraio 1993), un termine superiore a quello prescritto di trenta giorni; nonchè la violazione dell’art. 477 cod. proc. pen., non rispettato in occasione dei rinvii in sede di udienza dibattimentale; ed ancora, una pausa immotivata di oltre due anni tra l’udienza preliminare dell’I febbraio 1995 e quella dell’1 aprile 1997.
3. – I due motivi, che, avuto riguardo alla connessione logico- giuridica che li collega, vanno esaminati congiuntamente, sono fondati.
4.1. – In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, ai sensi della L. n. 89 del 2001, il percorso relativo all’accertamento del mancato rispetto di tale termine è dalla stessa legge individuato nella valutazione della complessità del caso ed, in relazione a questa, del comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o, comunque, a contribuire alla sua definizione.
Il giudizio sulla complessità del caso – che costituisce un apprezzamento di merito, il quale, se logicamente e congruamente motivato, sfugge alla censura di legittimità – attiene, in generale, alla materia ed al tipo di procedura trattata, nonchè, in particolare, alla novità o "serialità" delle questioni discusse, al numero delle parti e delle domande, alla tipologia (qualitativa e quantitativa) dell’istruttoria espletata, alla presenza di subprocedimenti sommari, etc.. Nella specie, la Corte capitolina ha desunto la complessità del caso esclusivamente dal numero delle udienze tenute, elemento di per sè assolutamente inadeguato, invece, a fungere da parametro della difficoltà della questione affrontata, se non correlato ad altri dati indicativi. Ed infatti, l’articolazione del processo in un elevato numero di udienze ben può costituire sintomo della necessità del compimento di una serie di attività processuali; ma essa può, allo stesso modo, essere ascritta ad un cattivo esercizio dei poteri del giudice di conduzione del processo, con particolare riferimento alla cadenza data alle udienze. Al riguardo, la Corte non ha operato il benchè minimo richiamo alle ragioni del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di ragioni giustificatrici di una così complessa articolazione del primo grado del giudizio (svoltosi in ben trentotto udienze, dodici delle quali preliminari e ventisei dibattimentali).
4.2. – Ed ancora, la Corte di merito, chiamata, in relazione alla individuata complessità del processo presupposto, a valutare gli ulteriori parametri fissati dalla legge, come sopra evidenziati, avrebbe dovuto operare un’analitica selezione tra i segmenti temporali della vicenda processuale attribuibili alle parti e quelli attribuibili all’operato del giudice, sottraendo i primi alla durata complessiva del procedimento; per poi emettere il giudizio circa la ragionevolezza o meno della durata dello stesso alla stregua della valutazione del risultato di detta sottrazione, che costituisce il tempo complessivo attribuibile al giudice, inteso come "apparato giustizia", cioè come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all’espletamento del servizio.
Il decreto impugnato, invece, si limita a rilevare che non sono stati addotti dalle parti elementi dai quali desumere "che il comportamento del giudice e quello delle altre autorità chiamate a concorrere alla definizione del giudizio abbiano inciso sulla durata dell’iter procedimentale al di là di quanto esso sia stato condizionato da carenze strutturali e normative, e ciò malgrado i giudici abbiano concentrato le udienze in un arco temporale definibile come contenuto se si pone mente al numero delle udienze…", pervenendo, poi, alla conclusione, che la durata ragionevole del processo fosse da stimare in cinque anni per ciascun grado di merito, e che, pertanto, non era stato superato il periodo eccedente la durata ragionevole.
Ragionando in tal modo, la Corte non si è, però, avveduta che proprio quelle "carenze strutturali e normative", condizionanti, a suo avviso, la durata del procedimento, e tali da escludere ogni responsabilità dell’autorità giurisdizionale in ordine alla durata stessa, costituiscono, ai sensi della L. n. 89 del 2001, elementi idonei a fondare il riconoscimento del diritto alla equa riparazione.
E ciò a prescindere dalla considerazione che l’onere di allegazione e dimostrazione a carico della parte riguarda la sua posizione nel processo presupposto, la data iniziale di questo, la data della sua definizione, o grado in cui esso si è articolato, spettando poi al giudice, sulla base di tali dati, l’accertamento in concreto della violazione del termine ragionevole di durata del processo.
4.3. – Del resto, nemmeno si è curata la Corte di approfondire le circostanze, dedotte dai ricorrenti, relative al mancato rispetto dei termini previsti dal codice di rito per i rinvii delle udienze, e, principalmente, al lungo periodo di inattività processuale tra l’udienza preliminare dell’1 febbraio 1995 e il decreto di fissazione della successiva udienza preliminare dell’1 aprile 1997: circostanze in ordine alle quali non sono state in alcun modo chiarite le ragioni della violazione, e che, comunque, non sono state affatto prese in considerazione nella valutazione globale del tempo impiegato per la definizione del processo.
5. – Con il terzo motivo, si deduce ancora violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e della L. n. 848 del 1955, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Illegittimamente la decisione impugnata sarebbe stata condizionata dall’esito del processo penale presupposto, nel senso che la circostanza che, a causa del protrarsi dello stesso, gli imputati avessero potuto beneficiare della prescrizione avrebbe indotto la Corte ad escludere il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, in contrasto con la stessa legge, che attribuisce tale diritto a prescindere dall’esito del processo della cui durata si discute. E ciò senza considerare che alcuni dei ricorrenti ( C. e D. V.) non avevano beneficiato della prescrizione.
6. – Anche tale censura risulta meritevole di accoglimento.
6.1. – Questa Corte ha ripetutamente affermato il principio – dal quale il Collegio non intende discostarsi – alla cui stregua, ai sensi della L. n. 89 del 2001, l’equa riparazione viene accordata senza alcun riguardo all’esito del giudizio protrattosi oltre il termine ragionevole (v., tra le altre, sentt. n. 16039 e n. 11480 del 2003), traendone la conseguenza, per ciò che particolarmente rileva con riferimento alla fattispecie all’attuale esame, della spettanza dell’indennizzo anche quando la durata eccessiva abbia determinato l’estinzione del reato per prescrizione. Si è escluso, al riguardo, che quest’ultima valga di per sè ad elidere gli effetti negativi del protrarsi eccessivo del processo, in via di compensatio lucri cum damno, salvo che l’effetto estintivo del reato derivi dall’utilizzo, da parte dell’imputato sottoposto a procedimento penale, di tecniche dilatorie o di strategie sconfinanti nell’abuso del diritto di difesa (v. Cass., sent. n. 12935 del 2003), nella specie non individuate dall’autorità giurisdizionale: la quale, peraltro, ha utilizzato l’argomento della dichiarata estinzione del reato solo in aggiunta a quello, sicuramente, anche per sua stessa ammissione, assorbente, esaminato sub 4.1. e 4.2.
6.2. Del resto, va considerato, in via generale, che la definizione del processo penale per estinzione del reato non necessariamente corrisponde all’interesse dell’imputato: opinare diversamente significherebbe negare ogni rilievo alla esigenza morale di chi sia sottoposto a procedimento penale a vedere affermata in modo pieno ed inequivocabile la propria estraneità al reato contestato.
6.3. – Per di più, nella specie, come rilevato nel ricorso, non tutti gli imputati hanno "beneficiato" della prescrizione.
7. – Conclusivamente, il ricorso va accolto. Il decreto impugnato deve, pertanto, essere cassato, e la causa rinviata alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, la quale riesaminerà le questioni della complessità della causa e della addebitabilità della durata della stessa, eventualmente ritenuta irragionevole, all’apparato giudiziario, sulla base dei principi di diritto richiamati sub 4.1, 4.2. e 4.3., nonchè sub 6.1. e 6.2., e tenendo presente la circostanza evidenziata sub 6.3..
Alla predetta Autorità è demandato anche il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 marzo 2006.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2006