Con ricorso alla Corte di Appello di Reggio Calabria depositato il 16 ottobre 2001 G. e S.S. domandarono l’equa riparazione per i danni patrimoniali e morali patiti per l’irragionevole durata di un processo da loro promosso innanzi al Tribunale di Catania con citazione notificata in data 18 aprile 1980 e definito dalla Corte d’appello di Messina in sede di rinvio con sentenza del 9 giugno 1999, divenuta definitiva il 27 dicembre dello stesso anno. La causa era stata intentata contro il Comune di Tremestieri Etneo per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni da occupazione appropriativa subiti dagli attori in relazione a due fondi di loro proprietà. Infatti, a seguito dell’approvazione da parte del Provveditorato alle OO.PP. di Palermo di un progetto presentato da quel Comune per la costruzione di una strada, il Prefetto di Catania, con decreto del 6 luglio 1965, aveva disposto l’occupazione d’urgenza, per la durata di due anni, dei predetti terreni ma, decorso il periodo di occupazione legittima, non era stato emesso il decreto di espropriazione sebbene nel frattempo i suoli occupati fossero stati irreversibilmente destinati alla realizzazione dell’opera pubblica. Con il ricorso di cui in premessa, gli S. prospettarono, con riguardo alla richiesta di ristoro del danno patrimoniale, che, ove il processo si fosse concluso in tempi ragionevoli, non si sarebbe dovuto applicare la disciplina introdotta dalla sopravvenuta L. n. 662 del 1996, in base alla quale era stato dimidiato il quantum del ristoro liquidabile ai proprietari dei suoli nei casi di occupazione acquisiti va (cd.
accessione invertita) per causa di pubblica utilità, inoltre, non avrebbero subito le conseguenze del mutamento di giurisprudenza di cui alla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 1712 del 1995, che ha modificato i criteri precedentemente utilizzati nella prassi giudiziaria in tema di calcolo degli interessi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento danni. Sulla base delle indicate premesse, chiesero la condanna del Ministero della Giustizia ai danni patrimoniali indicati nella differenza tra l’importo del risarcimento del danno in concreto liquidato dalla Corte d’appello di Messina applicando il dimidiamento imposto dalla L. n. 662 del 1996, e calcolando gli interessi alla stregua della sentenza succitata e quello che sarebbe spettato loro in epoca anteriore alla entrata in vigore della nuova normativa e al revirement giurisprudenziale, nonchè ai danni non patrimoniali, quantificati in L. 100.000.000 per ciascuno di essi istanti. Il tutto con rivalutazione e interessi legali.
Con Decreto reso pubblico il 2 dicembre 2002, l’adita corte, dopo aver esaminato analiticamente fasi e momenti del giudizio svoltosi innanzi ai vari uffici giudiziari occupatisi della vicenda processuale, e premesso che non sarebbe corretto ritenere che un processo debba avere una durata prestabilita, conclusa che, avuto riguardo alla particolare complessità del processo e al comportamento delle parti responsabili di molti differimenti, il termine di ragionevole durata della causa era stato superato di due anni, due mesi e ventuno giorni, in relazione a ritardi ingiustificati nel deposito di consulenze tecniche e a rinvii disposti di ufficio. Ritenne non provati i lamentati danni patrimoniali, negando rilevanza causale allo ius superveniens costituito dalla L. n. 662 del 1996, sul rilievo che, detraendo dalla complessiva durata del processo il periodo (due anni, due mesi e ventuno giorni) giudicato eccessivo, la causa si sarebbe comunque conclusa dopo l’entrata in vigore della predetta normativa.
Riconobbe, equitativamente, a ciascun ricorrente, a titolo di ristoro del danno non patrimoniale, la somma di Euro 2.600,00, maggiorata degli interessi legali.
Per la cassazione di tale decreto G. e S.S. hanno proposto ricorso sostenuto da un unico articolato motivo.
Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
Denunciando la violazione della L. n. 89 del 2001, dell’art. 186 c.p.c. e art. 81 disp. att. c.p.c. e delle altre norme del codice di rito che regolano i poteri del giudice istruttore nonchè il difetto o la insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, i ricorrenti espongono le seguenti doglianze. La corte di merito non ha indicato il modello di durata media del processo da utilizzare come parametro di riferimento per stabilire la ragionevolezza della durata della lite in allora introdotta da essi ricorrenti. Ai fini della valutazione dell’arco temporale eccedente la durata ragionevole, la corte reggina si è limitata a considerare i soli rinvii dovuti all’assenza del giudice, alla mancata comparizione del C.T.U. o alla fissazione dell’udienza collegiale in primo grado, trascurando o valutando in maniera riduttiva i ritardi nell’adozione e nel deposito dei provvedimenti da parte dei vari giudici, alcuni rinvii "puri e semplici" disposti di ufficio dall’istruttore, la tardiva disposizione della consulenza tecnica, l’eccessiva durata del termine concesso all’ausiliare per il deposito dell’elaborato e l’abnorme distanza dell’udienza collegiale fissata davanti al Tribunale di Catania, apoditticamente giustificata con l’eccessivo carico del lavoro gravante su quell’ufficio giudiziario. Erronea è l’esclusione, dal calcolo complessivo del delai raisonnable, dei tempi correlati ai differimenti non dilatori richiesti dalle parti anche perchè la relativa durata era stata unilateralmente determinata dal giudice senza il rispetto dei termini stabiliti dal codice di rito. Il decreto è errato anche nell’avere ritenuto non provati i danni patrimoniali patiti dai ricorrenti per effetto dell’entrata in vigore della L. n. 662 del 1996 (che ha ridotto l’ammontare del risarcimento dovuto in caso di accessione invertita) e del mutamento di giurisprudenza in tema di calcolo degli interessi sulle obbligazioni risarcitorie (da calcolare di anno in anno sulla somma via via rivalutata e non più sulla somma capitale rivalutata dalla data dell’illecito).
Nessuna delle sopra compendiate censure coglie il segno.
Come riportato in istorico, la corte di merito ha ante ornala escluso che un processo debba avere una durata prestabilita, occorrendo, al contrario, valutare se nel corso di esso si siano registrate, al di 1& del rispetto di termini ordinatori, ingiustificate inerzie o attività inutili o dilatorie. Ha in seguito rimarcato, da un canto, la particolare complessità della vicenda processuale, in quanto si erano susseguiti ben quattro gradi di giudizio (tribunale, corte d’appello, corte di Cassazione, giudizio di rinvio), e il comportamento dilatorio delle parti, responsabili di molti differimenti; dall’altro, la condotta non sempre consona al rispetto del termine di ragionevole durata del processo da parte del giudice, inteso come apparato (vale a dire come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all’espletamento del servizio, in relazione al quale deve essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della durata del processo) e dei suoi ausiliari. Ne ha concluso che il termine di ragionevole durata della causa era stato superato di due anni, due mesi e ventuno giorni, in relazione a ritardi ingiustificati nel deposito di consulenze tecniche e a rinvii disposti di ufficio.
Il giudice a quo è, dunque, correttamente partito dalla premessa che il termine ragionevole di durata del processo, dal cui superamento si configura il diritto all’equa riparazione per il periodo eccedente, non può tradursi in formule aritmetiche fisse per singoli tipi e fasi di giudizio nè è desumibile da dati medi ricavati da analisi statistiche, ma va determinato caso per caso, in relazione allo svolgimento della singola procedura, in base ai criteri all’uopo fissati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, che li ha mutuati dall’interpretazione data all’art. 6 della Convenzione EDU dalla Corte di Strasburgo per la quale occorre valutare la complessità del caso e il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, più in particolare, la L. n. 89 del 2001 (art. 2, comma 2) non specifica il periodo massimo valicato il quale la durata del processo diventa irragionevole ma lascia all’interprete l’onere di determinarlo di volta in volta, desumendolo dalla complessità del caso e dal comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del processo. Solo questi elementi consentono la corretta applicazione di un criterio, quale quello di ragionevolezza, che ha in sè insiti indubbi margini di elasticità, permettendo, per tale via, di scongiurare che il valore della giustizia celere si trasformi nel disvalore della giustizia affrettata e sommaria.
In altre parole, la nozione di ragionevole durata del processo, come questa Corte ha più volte affermato, non ha carattere assoluto, bensì relativo e non si presta a una predeterminazione certa, in quanto e condizionata da parametri fattuali, strettamente legati alla singola fattispecie, che non permettono di stabilirla facendo riferimento a cadenze temporali rigide ed a schemi valutativi predefiniti. Ogni processo, infatti, anche il più celere, ha una durata fisiologica inevitabilmente collegata allo svolgimento delle varie fasi, delle attività che vi si compiono degli eventuali diversi gradi di giudizio in cui si è articolato. La ragionevolezza della durata di un processo va, quindi, verificata in concreto, in applicazione dei criteri stabiliti a questo scopo dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, che, imponendo al giudice di accertare la esistenza della violazione in relazione alla complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, richiede appunto di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare (cfr. Cass. nn. 8600/2005, 7297/2005, 6856/2004, 4207/2004, 1094/2005, 6856/2004, 4207/2004).
Dal contesto di tale normativa si evince con chiarezza che la durata ragionevole del processo va misurata in concreto, attraverso l’esame specifico della singola vicenda processuale nel suo complesso, sia pure avendo come parametro un modello (affermatosi anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo) di durata media, e non si risolve nella semplice sintesi meccanicistica del cadenzamento dei termini processuali così come descritto in astratto dal codice di rito allorchè quest’ultimo fissa la disciplina generale dei rinvii. La contraria tesi contraddirebbe la realtà normativa del fenomeno, poichè, dallo stesso punto di vista semantico, ove fosse questo il quadro avuto in considerazione della L. n. 89 del 2001, lo stesso testo normativo – sia in quella che è la rubrica della legge, sia nella stessa formulazione letterale dell’art. 2 – non avrebbe fatto di certo ricorso al concetto di "ragionevolezza" della durata, ma avrebbe prescelto, invece, altra formulazione più direttamente e strettamente riconducibile alla tennistica astratta del codice di rito.
Quel che rileva ai fini della verifica prevista dalla L. n. 89 del 2001, è, in definitiva, la durata dell’intero procedimento o (se la domanda viene formulata mentre ancora pende la causa, come è possibile fare) di quella parte di esso già svolta e all’esito della quale si propone la domanda di accertamento della violazione, non invece di singoli e selezionati segmenti all’interno del processo stesso. Diversamente opinando, si verrebbe ad affermare (come in sostanza fanno i ricorrenti) che qualsiasi inosservanza di un termine interno al processo (ancorchè questo abbia avuto durata assai contenuta) debba condurre a una valutazione di non ragionevolezza, che è però conclusione non coerente con la normativa prima richiamata, e tale da alterare lo stesso concetto di termine ragionevole, che verrebbe in pratica a coincidere con quello (ben diverso) di termine minino possibile.
Alla luce delle considerazioni esposte, è agevole comprendere come l’individuazione della ragionevole durata del processo costituisca una tipica valutazione di merito e si risolva in un apprezzamento di fatto che, in quanto tale, e riservato alla corte territoriale ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizi di motivazione (ex multis, vedi Cass. nn. 1094/2005, 123/2004, 13741/2003, 13211/2003, 11715/2003, 1600/2003, 3/2003). Peraltro, la sufficienza della motivazione del decreto occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento (decreto) – benchè esso abbia natura sostanziale di sentenza – e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare (Cass. nn. 6168/2003, 1600/2003, 8/2003, 16256/2002, 15852/2002). Ciò implica che l’onere motivazionale deve ritenersi adempiuto qualora si accerti che il giudice dell’equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dall’art. 2 cit., comma 2, ed esplicitando le ragioni del suo convincimento; non è invece necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d’esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie.
Alla stregua dei cennati principi, si prospetta senz’altro infondata la denunzia di violazione del diritto alla ragionevole durata del processo come automatica conseguenza dell’essere stati disposti, in corso di causa, rinvii di durata eccedente i quindici giorni al riguardo previsti dall’art. 81 disp. att. c.p.c.. Tale rilievo trascura che la stessa disposizione ora citata ammette anche la possibilità di rinvii più lunghi, e di tale possibilità la prassi giudiziaria ha sempre fatto notoriamente largo uso, sicchè non 6 ragionevolmente sostenibile che, nel chiedere o nel favorire un rinvio della trattazione, la parte interessata si attenda che il differimento dell’udienza sarà normalmente contenuto nel predetto termine. E’ vero che la medesima disposizione vuole si faccia menzione nel provvedimento di rinvio delle speciali circostanze da cui dipende un intervallo maggiore tra le successive udienze; ma l’eventuale mancanza di una tale indicazione costituisce una mera irregolarità processuale, di per sè irrilevante ai fini del rispetto del diritto della parte alla ragionevole durata del giudizio, che certo non si identifica con il diritto a ottenere rinvii non superiori a quindici giorni, e va comunque considerato in rapporto allo svolgimento complessivo della causa.
Del pari priva di fondamento è la doglianza concernente la dilazione del giudizio conseguente alla fissazione della udienza collegiale di discussione davanti al Tribunale di Catania a due anni e quattro mesi circa di distanza dalla udienza di precisazione delle conclusioni. Al riguardo, del tutto contrario a verità è l’assunto dei ricorrenti – frutto, si vuoi credere, di una svista nella lettura del decreto impugnato – secondo cui il giudice a quo ha giustificato il rinvio con l’eccessivo carico di lavoro gravante su quell’ufficio giudiziario. Al contrario, la corte reggina ha affermato che, pur tenendo conto di tale precaria situazione lavorativa, il lungo indugio trascorso dal momento della precisazione delle conclusioni a quello della udienza di discussione doveva comunque essere addebitato a deficienze organizzative dell’ufficio giudiziario, inteso come apparato giudiziario, e aveva causato un ritardo nella definizione della causa, valutabile in un anno e quattro mesi.
Per il resto, i ricorrenti, a più riprese, fanno riferimento a pretese insufficienze o erroneità della motivazione dell’impugnato provvedimento (senza peraltro mettere in evidenza il carattere decisivo dell’uno o dell’altro rilievo), finendo per riproporre tutto l’insieme delle questioni discusse nel giudizio di merito in tema di rinvii, quasi a richiedere una complessiva revisione di siffatto giudizio, certamente inammissibile in questa sede, non essendo oltretutto consentita al giudice di legittimità la verifica diretta del materiale istruttorio – e dunque dei documenti relativi al giudizio della cui durata si controverte – sui quali i ricorrenti basano le proprie osservazioni critiche.
Peraltro, la motivazione del decreto qui impugnato appare affatto adeguata, perchè ripercorre minuziosamente l’iter di quel processo e da conto dei fatti e dei comportamenti processuali. Quanto appena osservato vale non solo per le doglianze che i ricorrenti formulano in ordine al giudizio complessivo di non irragionevole durata del processo, ma anche per le censure più minutamente rivolte avverso i singoli passaggi con cui la corte territoriale, al fine di motivare il proprio giudizio, ha ricostruito l’iter processuale. In particolare, non possono trovare ingresso le critiche rivolte alle argomentazioni in base alle quali la corte d’appello ha valutato la congruità di taluni rinvii, contrapponendovi l’eccessività di altri. Del resto – giova ribadirlo – il nodo in cui tali specifici accadimenti sono apprezzati dal giudice dell’equa riparazione al fine di individuare la ragionevole durata del processo e la valutazione della incidenza, su tale durata, dei rinvii disposti dall’ufficio, è pur sempre espressione di un giudizio di merito, come tale rimesso alla corte d’appello e non censurabile in cassazione se adeguatamente motivato.
va sottolineato, poi, cono, ovviamente, non possano essere prese in considerazione in questa fase di legittimità prospettazioni fattuali meramente alternative delle causali dei singoli rinvii delle udienze o della loro sequenza; prospettazioni le quali, oltretutto – ove mai corrispondenti al vero – identificherebbero, al più, un vizio revocatorio da far valere nelle forme di cui all’art. 395 c.p.c..
Non merita censura, altresì, l’accertamento, compiuto dal giudice del merito, dei ritardi imputabili alla stessa parte, i quali comportano l’esclusione della riparazione dei danni ad essi imputabili. Nè tale conclusione può essere confutata con il rilievo che il giudice istruttore avrebbe potuto e dovuto esercitare i suoi poteri d’ufficio per impedire manovre dilatorie. Questo argomento, infatti, potrebbe essere utilmente invocato dalla parte che si è invano opposta ai rinvii, ma non giova alla parte che ne è direttamente responsabile per averli richiesti, o per avervi consentito, in base a valutazioni di propria convenienza.
Sempre con riferimento al (la determinazione del) ritardo riferibile all’apparato giudiziario, va infine sottolineato che anche la valutazione sia dei termini assegnati agli ausiliari e dei tempi impiegati per l’adozione e il deposito di provvedimenti giudiziari, sia della incidenza di detti periodi sul termine ragionevole di durata del processo è questione di fatto istituzionalmente riservata alla competenza della corte di merito e nella specie congruamente giustificata con la complessità della vicenda processuale. Le doglianze che, sotto tale profilo, i ricorrenti prospettano non permettono certo di identificare un errore di diritto contenuto nell’impugnato decreto, ma sostanzialmente propongono una (inammissibile) valutazione alternativa in ordine alla ragionevolezza dei termini accordati ai consulenti tecnici e dei tempi di redazione dei provvedimenti del giudice.
Si appalesa infondato, d’altra parte, il profilo della censura relativo al rigetto o meglio al (presunto) mancato esame della domanda di riparazione del danno patrimoniale determinato dalla durata eccessiva del processo presupposto. La corte ha respinto detta istanza in quanto, a prescindere dalla fondatezza nel merito, anche a sottrarre il ritardo imputabile, la causa sarebbe stata definita successivamente all’entrata in vigore della nuova normativa. I ricorrenti censurano tale statuizione ritenendo assai più ampio il ritardo addebitarle al giudice, con la conseguente possibilità di definire la contesa prima dello ius superveniens costituito dalla L. n. 662 del 1996, che aveva dimidiato la misura del risarcimento dovuto per i danni da occupazione appropriativa.
Così come concepita, la censura rimane implicitamente disattesa dalle considerazioni in precedenza espresse circa la motivata e quindi insindacabile determinazione, operata dal giudice a quo, del periodo di durata non ragionevole del processo.
Per mero debito di ragione può aggiungersi che essa si profila infondata in radice.
I ricorrenti non considerano, infatti, che, in forza del principio della causalità adeguata, il danno economico può ritenersi ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di detta eccessiva durata sulla base di una normale sequenza causale, laddove lo ius superveniens o il mutato orientamento giurisprudenziale, sopravvenuti nel corso del procedimento rivolto all’accertamento del diritto del creditore, interrompe detta sequenza, assumendo – quale fattore idoneo a produrre, da solo, l’evento – rilevanza esclusiva e assorbente nella causazione del danno lamentato, trattandosi di fatto autonomo, eccezionale e atipico rispetto alla serie causale già in atto, che comporta la degradazione delle cause preesistenti al rango di nere occasioni (v. Cass. nn. 23322/2005, 21391/2005, 19499/2005, 8603/2005 cit., 6071/2004).
D’altronde, fermo quanto gli precisato in ordine al nesso di causalità fra il danno lamentato dai ricorrenti ed il ritardo nella definizione del processo, non sembra giuridicamente concepibile ricollegare un evento dannoso alla promulgazione di una legge, essendo l’emanazione delle leggi espressione di un potere politico del legislatore che, di fatto, può anche incidere negativamente sulle posizioni di singoli cittadini ma mai radicare un danno giuridicamente risarcibile, posto che una tale ipotesi verrebbe a Influire sul potere discrezionale di formazione delle leggi che la Costituzione riconosce al Parlamento e configura libero da ogni condizionamento.
Le superiori argomentazioni escludono, dunque, che nell’area del rischio tipico creato dalla fattispecie dell’irragionevole durata rientri anche il mutamento peggiorativo della disciplina applicabile alla controversia non tempestivamente definita.
Respinte le doglianze riguardanti la delimitazione del segmento, all’interno del complessivo arco temporale del processo, riferibile a una non particolarmente sollecita attività di giudici e ausiliari, vengono meno quelle – che, secondo la prospettazione degli stessi ricorrenti, ne implicavano l’accoglimento – aventi a oggetto il quantum liquidato a ristoro dei danni non patrimoniali.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese di questa fase seguono la soccombenza.
 
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alle spese del giudizio di Cassazione, liquidate in Euro 3.500,00, per onorari d’avvocato, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 21 settembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2006